Cerca

Culture digitali: intervista al lucano Giuseppe Granieri

[Intervista di Sergio Ragone]

Granieri, questo libro è del 2005, prima che esplodesse nel mondo il fenomeno weblog. Ti ritiene un visionario o hai avuto una semplice intuizione?
Né l’uno né l’altra temo. Se si lavora su certi temi, come l’innovazione o l’impatto sociale delle tecnologie, ci si affida alla lettura dei cosiddetti “segnali deboli”. Si isolano i processi, si osservano le dinamiche sociali, culturali e politiche, si esce dall’orizzonte della cronaca e si cerca di capire «cosa è destinato a ripetersi». Non si guarda a quanto accade ma si cerca di capire come e perché accade. In fondo, Blog Generation sebbene uscito nel 2005 è stato scritto nell’estate del 2004 (i tempi editoriali sono lunghi) eppure è un libro di analisi:  non «prescrive», ma «descrive». Ci sono pochissimi verbi al futuro.

Nel successivo libro ” la società digitale”  l’interrogativo centrale è.”come ha fatto Internet a svilupparsi tanto negli ultimi dieci anni, senza alcun governo e alcun coordinamento? Che cosa succede quando centinaia di milioni di persone hanno a disposizione una grande infrastruttura di comunicazione per scambiarsi conoscenza e organizzarsi tra loro?”
Internet è un’esperienza straordinaria e completamente nuova nella storia delle società umane, che da sempre si plasmano sugli strumenti a disposizione per comunicare e far circolare conoscenza. Senza la scrittura non avremmo potuto avere la filosofia, la linguistica, persino la democrazia. Senza la stampa non avremmo potuto avere il pensiero scientifico moderno. Nonostante non abbia mai avuto un “governo centrale” o alcuna forma di direzione organizzata, Internet è diventato l’artefatto umano che si è sviluppato più rapidamente negli ultimi dieci anni. Sebbene vada contro tutte le convinzioni del senso comune, i network digitali sono la dimostrazione pratica che -in un sistema aperto e senza barriere- l’autorganizzazione di milioni di persone è in grado di creare valore economico e culturale. E oggi, anche grazie alle analisi dei fisici teorici, possiamo spiegarci come questi processi hanno funzionato. E cominciare ad interrogarci sulla forma che questa innovazione sta dando alle nostre società. A partire dalla considerazione di base: sta modificando le nostre culture e la nostra organizzazione sociale ad un livello profondo, quello delle convinzioni fondamentali, quello che i semiologi chiamano “asse paradigmatico o di sistema”. E dobbiamo farlo con responsabilità, poichè noi stiamo lavorando per il mondo che le prossime generazioni troveranno normale.

Innovazione e partecipazione. Questo è il binomio tanto ricercato anche dalla politica che più che mai in questi anni sembra voler investire nella modernizzazione dei sistemi di comunicazione e di partecipazione. Con che risultati?
Ci sono diversi livelli attraverso cui osservare il cambiamento che si sta producendo in politica. Il primo è quello del “qui ed ora” e della politica agita. A questo livello non sta cambiando nulla, abbiamo solo dei più o meno goffi tentativi di massimizzare l’efficacia delle campagne elettorali, utilizzando la Rete come strumento di marketing politico. C’è poi il livello della “formazione delle opinioni politiche”, che grazie ad un enorme spazio pubblico in cui milioni di individui si confrontano (con uno sguardo trasnazionale), è una cosa che la politica come la conosciamo noi non è preparata a controllare, ma da cui può imparare molto. Questo avverrà nei tempi sociali, perchè oggi abbiamo una classe dirigente che si è formata in un periodo storico molto diverso e deve il suo potere a una società molto differente da quella attuale. Uno dei dati che emerge da questo “luogo dell’opinione pubblica”, che è globale e “ricercabile”, quindi “pubblico come non mai”, è la distanza tra la politica e le persone che dovrebbe rappresentare. La politica è vista esattamente come la descrivono i manuali di scienze politiche (“lotta per la gestione e il controllo del potere”), ma questo per i cittadini ha cessato da tempo di essere un valore positivo. C’è molta domanda di politica diversa, di innovazioni di “processo”, non di contenuti. Alla politica non si chiedono più solo le posizioni “tattiche” sui problemi contingenti, ma senso di futuro. Trasparenza. Credibilità. Infine c’è un livello “politologico”, che è il più interessante ed insieme il più sfumato perchè è ancora troppo presto per capire quale direzione prenderanno le nostre società. La storia della democrazia è una storia di lotta contro la complessità e gli strumenti democratici si sono sempre “adattati” alla capacità di una società di processare informazioni. Nell’Atene del V secolo a.C. il principale argomento dei detrattori della democrazia era che “si faceva troppa confusione” e che “le opinioni meno informate non dovevano partecipare alle decisioni”.  Poi le nostre società sono diventate più complesse e dalla forma diretta siamo passati a quella rappresentativa, in cui avveniva una sintesi delle informazioni, per rendere gestibile il potere. Nei prossimi anni, appena la filosofia politica -oggi ferma al palo- si adeguerà al cambiamento, è possibile che alcuni criteri del concetto di rappresentanza vengano rivisti.

Granieri, lucano e potentino. Che consiglio ti senti di dare alla politica lucana per rinnovare se stessa ed il suo linguaggio?
La politica lucana, oggi, potrebbe (non “dovrebbe”, perchè si tratta solo di una scelta di efficacia) allontanarsi molto dai suoi schemi. Non perchè in Basilicata ve ne sia maggior bisogno che altrove, piuttosto perchè una serie di condizioni storiche e strutturali (persino geoterritoriali) le consentirebbero di fare della Lucania un laboratorio sperimentale. Questo fascio di fattori convergenti, che la politica non rileva ancora perchè il mondo oggi corre e la divulgazione molto meno, rappresentano una grande occasione per le “aree laterali” ed in particolare per le società poco frazionate come la nostra. Occorrerebbe però abbassare la guardia sullo specifico politico del “qui ed ora” per cominciare a ragionare in maniera più sistematica e cominciare ad associare al concetto di “sviluppo” a processi socio-culturali più complessi e meno intuitivi di quelli che caratterizzano il dibattito attuale.