Ventidue sindaci lucani, poi divenuti trentacinque, per dire in maniera compatta “no” alla chiusura tout court e indiscriminata della Basilicata

“Alle fronde dei sindaci”.
‘E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore’. Perché straniero non è soltanto l’oppressore colonizzatore, ma anche chi vive una terra senza sentirla o chi ci è nato senza conoscerla. Non così sarà per molti sindaci.
Non siamo in guerra ma simbolicamente e iconograficamente si materializzano tante battaglie.
Ventidue sindaci lucani, poi divenuti trentacinque, stanno dando esempio di resistenza e resilienza. Per dire in maniera compatta ‘no’ alla ‘chiusura’ tout court e indiscriminata della Basilicata.
Donne e uomini uniti da vocazione comunitaria, pulsione di appartenenza, afflato identitario. Donne e uomini che abbandonano l’io della fascia tricolore, magari intimo e privato, in favore di un “noi”. Che sa di popolo, di inquietudine e disperazione condivise.
Un “noi” che indica quasi un bisogno di speranza misto a umanità, che si identifica con uno sguardo critico. Che risponde al valore – incontrovertibile, autentico e assoluto – della solidarietà, della condivisione. Della comunione, quindi, non solo umana, ma universale. Una protesta non vana, che va oltre il merito della questione.
Una schiera di amministratrici e amministratori a servizio della propria Terra. Nell’impegno per la propria gente.
Una linea Maginot che ci consegna una schiera di amministratrici e amministratori. Che hanno nel servizio alla propria Terra e nell’impegno per la propria gente il sommo imperativo categorico.
Amministratrici e amministratori che non si piegano alla fidelizzazione patronale e alle logiche della filiera questuale. Che non accettano supinamente l’etichetta sociologica di una terra piegata sul familismo amorale e la categoria antropologica della soporifera controra socio-politica.
Li abbiamo ascoltati, letti, osservati, a volte guardati negli occhi. La loro è davvero, a tutti gli effetti, una missione di vita. Di più: una professione di fede. L’immagine che allegoricamente ci restituisce la realtà è quasi quella di tanti taumaturghi di paese. Soli sì, ma pronti ad alleggerire stenti e angosce. A lenire ferite e ad aggraziare cicatrici comunitarie.
Ecco perché il fenomeno non è il caso che passi in secondo piano. Che non si sottovaluti, che non venga sottaciuto. Questi sindaci sono vitamine per la debilitata Basilicata. La loro unione è un foglio di collegamento su cui scrivere brani nuovi di dibattito sociale e civile. Ciò che manca e che è mancato da tempo.
Il messaggio arriva forte e chiaro e va oltre le doglianze del momento. Dalla rete contingente si potrebbe passare all’elaborazione organica di processi integrati e permanenti, che autoproducono conoscenza. Una conoscenza che potrebbe risvegliare, saldare percorsi, pervadere i territori, rendere indipendenti.
‘’Voi siete il sindaco” – disse l’opinione pubblica a Peppone – e dovete andare a vedere di cosa si tratta. Se avete paura è un’altra cosa. Però, quando uno ha paura, invece di fare il sindaco è meglio che faccia un altro mestiere’’.
Così scriveva Giovannino Guareschi in “Don Camillo e Peppone”. Una medaglia al valore per gli audaci, un monito per i tiepidi.
Nuario Fortunato
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