[Articolo di Nicola Prete]
La poesia della Garzia, il cui stile, la cui verve, l’ espressione, è classico, cioè vive nella ciclicità cosmica delle presenze metafisiche, appartiene ai Greci, alla poesia classica appunto.
La poetessa non cerca la mano consolatrice di un dio cristiano misericordioso cui si rivolge la propria preghiera perché il desiderio venga esaudito, perché la preghiera stessa venga ascoltata, il dolore cancellato.
La poetessa, sicuramente con eccezionali doti di scrittura, sembra essere consapevole della perdita, ma è capace di elevarsi alla formulazione espressiva della poesia, tormentata dalla passione che brucia e che non vede dio, ma miti, che vicini, simili a noi, costituiscono il tramite, il medium dell’ esperienza, la chiave che ci libera dal roveto che cresce in noi nel binomio amore/dolore, in cui cresciamo. La poetessa deve far vivere questo dolore, che è poetico, mitologico, elaborato, sofferto, non voluto ma irrimediabilmente presente. La ferma mano del destino ha eliminato la certezza del dio cristiano. Non vi è rifiuto di esso, però, ma liberazione da un dolore attraverso la trasposizione simbolica degli dei. Sempre presente però, umano, troppo umano, l’ uomo, in preda alla furia gentile ma tormentata del dolore, metafisico. Mai vittima, unica nel suo patire, lo sforzo della poetessa non è contemplato, non lo è quello di uscire e dimenticare.
La vita ciclicamente ritorna, senza approssimazione delle esperienze emotive, nemmeno deterministicamente, fattualmente, ma vitalisticamente rinvigorita dalla poesia, dalla musa che trova la poetessa a vivere quello che non voleva, ma a dirimere le spine e i petali del caos emotivo, dello smarrimento del proprio equilibrio e della propria coscienza. Una promessa poetica dal sapore antico vien fatta all’ umanità da questa poetessa, attraverso l’ autosservazione. Il dolore è elevato alla comprensione altrui, dopo una tormentata e sapiente espansione del significato interiore.