In Italia l’industria della comunicazione rappresenta un mercato stimato in almeno 97 miliardi di euro, di cui circa 62 sono riconducibili al settore dell’informatica e a quello delle telecomunicazioni fisse e mobili. Televisione, stampa, radio, cinema, videogiochi registrano i tassi più rilevanti di crescita, mostrando un incremento (nel 2005) complessivo, del 5,8% rispetto al 2004. Il mercato musicale, si conferma in recessione per il quinto anno consecutivo; perde anche il cinema (-8,5%) sul 2004. Incrementi positivi, si registrano per la carta stampata (+4%), la televisione (+7,3%) e i videogiochi (+16%). Dal 1986 al 2005, l’industria della comunicazione nel suo complesso (Ict e media) è cresciuta ad un ritmo superiore a quello del Pil. Il mercato di televisione, quotidiani e periodici, radio, cinema, musica, libri, home-video, si attesta su un valore di 21,1 miliardi in forte crescita rispetto ai 7,7 miliardi del 1986. Sempre più corsi per i futuri comunicatori. Gli Atenei italiani che ospitano corsi di laurea in Scienze delle Comunicazioni sono 47; il numero di iscritti a questi corsi, è raddoppiato in pochi anni (+98,12%), passando da 26.707 nell’anno accademico 2001/2002 a 62.913 in quello 2006/2007. Stesso trend per i corsi di laurea specialistica in Scienze della Comunicazione. Partiti da poche decine (29) nell’anno 2001/2002 , in quello 2006/2007 è stata superata la soglia dei 10.000. Dall’anno 2001/2002 si è passati, nel caso della laurea triennale, da 67 a 98 corsi, mentre nel caso di quelle specialistiche da 4 a 87 corsi. Il numero dei master di primo livello è passato da 2 (con 31 iscritti nel 2001/2002) a 16 (con 239 iscritti nel 2005/2006); i master di secondo livello, invece, sono calati leggermente passando da 6 nel 2003/2004 con 92 iscritti a 5 nel 2005/2006 con 67 iscritti. Le strade del giornalismo sono infinite. Le scuole di giornalismo presenti in Italia sono 21. Il numero degli iscritti non supera le 25-30 unità e la durata del corso è di due anni. Attualmente, alle due sessioni di esame, si presentano complessivamente tra i 1.200 e i 1.300 praticanti. Delle 17 scuole prese in considerazione, un terzo ha un costo che varia tra i 5.000 e i 7.800 euro; un altro terzo tra gli 8.000 e i 10.000 euro; un terzo ancora tra i 12.000 e i 15.000 euro; ed un restante 12%, composto da due istituti, che presentano rette ancora superiori, una rispettivamente da 15.000 e l’altra da 17.000 euro. In Germania è sufficiente svolgere un periodo di due anni di praticantato retribuito. A partire dagli anni Ottanta, però, si è sentita sempre più l’esigenza di un percorso universitario a garanzia della professionalità del servizio. Esistono diversi tipi di scuole di giornalismo: confessionali, di proprietà di editori, indipendenti. In Gran Bretagna le modalità di accesso sono due: l’inserimento diretto senza ancora una formazione alle spalle e l’inserimento successivo ad un periodo di studio. Nel primo caso l’editore decide di assumere l’aspirante professionista e sarà lui stesso ad occuparsi, sostenendone anche le spese, della formazione del nuovo impiegato, inviandolo presso una scuola di giornalismo o ricorrendo all’insegnamento a distanza. Nel secondo caso, invece, il periodo di formazione, attraverso scuola o insegnamento a distanza, precede quello dell’ingresso nel mondo del lavoro. In Spagna, dagli anni Settanta, per volere degli stessi giornalisti che volevano migliorare la qualità del loro servizio, sono cominciati a sorgere, presso ogni facoltà di Scienze della Comunicazione, corsi di “periodismo”. In Italia possedere un giornale significa avere diritto a dei cospicui contributi finanziari da parte dello Stato, in nome della tutela e della promozione del principio del pluralismo dell’informazione. In Italia accade che ci siano giornali di sole 8 pagine, che escono 5 volte la settimana, vendono meno di 5.000 copie a fronte delle 30.000 stampate e ottengano più di 3 milioni di euro l’anno. Nel 1981 una legge concedeva finanziamenti ai giornali di partito che non erano capaci di autosostenersi. Nel 1987, bisognava che un giornale godesse dell’appoggio di due deputati che indicassero il giornale come l’organo di un movimento politico. Nel 2001 per ottenere i soldi dallo Stato è diventato necessario costituirsi cooperativa. Se si fosse mantenuta la legge del 1981, la spesa statale per questa voce sarebbe oggi di 28 milioni di euro l’anno; con le modifiche avvenute, la cifra, invece, è esplosa a 667 milioni di euro l’anno. Il funzionamento prevede che il contributo sia in funzione dei costi e della tiratura. È sufficiente che almeno una copia su quattro sia venduta per poter accedere al finanziamento pubblico. Quest’ultimo è calcolato sulle copie vendute ma anche su quelle (fino al 75% del totale) non vendute, vendute a prezzi ridicoli, regalate o direttamente mandate al macero. Oltre ai giornali non di partito che si sono costituiti cooperativa, possono ottenere il finanziamento anche i giornali di partito che possono contare sull’appoggio di almeno 10 deputati. Oltre ai finanziamenti diretti ci sono poi quelli indiretti che assumono, cioè, l’aspetto di rimborsi per le spese di luce, telefono, posta e, dal 2002 al 2005, anche per le spese di carta stampata. È consuetudine, poi, che il giornale o la radio mostrino gratitudine al soggetto che ha permesso lo stanziamento, girandone a quest’ultimo una quota. In nessun altro paese europeo accade qualcosa di simile. Tra tutti è solo la Francia a finanziare l’editoria, ma sono 250 milioni di euro l’anno, destinati ai giornali che siano di partito e che ospitano poca pubblicità.
“OUTLOOK” Uno sguardo fuori regione
Rubrica di scienze economiche e sociali
a cura di Rosario Palese
(ISSN 1722-3148)