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[ ANNO IV – GENNAIO 2008 – NUMERO 04 ] IL FENOMENO DELLA PREVIDENZA INTEGRATIVA

Al 2006, la percentuale di occupati che aderiva alla previdenza integrativa oltrepassava il 50% negli Stati Uniti, in Irlanda e nel Regno Unito ed era invece compresa tra il 25% e il 50% in Norvegia, Giappone, Belgio, Spagna, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria e Slovacchia. La Francia, la Finlandia, la Nuova Zelanda ed il Lussemburgo vedevano un’adesione più limitata, compresa tra il 10% e il 25%.

In Italia, nello stesso periodo, la percentuale degli occupati aderenti ai Fondi pensione era ancora collocata tra il 10% ed il 25%, ma questo dato è stato incrementato nel corso del 2007. Il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, riguarda quasi tutti i paesi dell’Ocse. Non solo in Italia, ma in tutti i principali sistemi pensionistici pubblici, il rischio della insostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali sostenuti dal pubblico erario è una realtà ben presente. Il caso italiano, è significativo: i soggetti dai 65 anni in poi, sono diventati una quota consistente della popolazione (erano il 6% a inizio secolo, sono saliti al 20% e saranno circa il 24% del totale nel 2020 e il 34% nel 2050). Oggi gli over 65 hanno superato il numero di tutti i giovani sotto i 20 anni e nel 2050 saranno più del doppio (18 milioni contro 8).

Il fenomeno delle pensioni integrative sta vivendo una fase di grande vivacità. L’esigenza di una pensione integrativa scaturisce dall’impossibilità per i sistemi tradizionali di garantire, ai pensionati del presente e a quelli di un futuro assai vicino, un reddito che permetta loro di mantenere intatto il tenore di vita che si è avuto negli ultimi anni di attività. Il sistema pensionistico si è trovato di fronte alla necessità di individuare delle forme di gestione in grado di garantire un livello reddituale dignitoso alla fine di una vita di lavoro: si è deciso di sviluppare delle forme integrative che facessero capo a società di tipo privato. Il modello pubblico di pensione, come del resto quello dell’assistenza, non è stato affatto smantellato, ma la sua pratica impossibilità di proseguire con i precedenti risultati ha indotto a procedere sulla strada delle integrazioni offerte da enti finanziari privati.

Chi domanda e chi offre pensioni.

Gli Enti pubblici continuano ad erogare prestazioni pensionistiche obbligatorie destinate a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici, che devono essere obbligatoriamente assicurati.

Il secondo pilastro è costituito dalla adesione volontaria ad una prestazione pensionistica integrativa di quella pubblica. L’entità è assai varia e dipende da molti fattori, come la quantità e il tempo dei contributi versati, ma anche dalla modalità della gestione dei fondi ricevuti da parte delle organizzazioni che raccolgono il risparmio ed erogano le prestazioni integrative.

Il terzo pilastro è di tipo totalmente privatistico e si manifesta nelle classiche polizze assicurative sulla vita o nei Pip (Piani individuali pensionistici). Il numero dei Fondi pensione, tra il 1998 e il 2006, è aumentato di oltre il 50%. Tale incremento ha interessato soprattutto i Fondi pensione negoziali che hanno registrato un incremento superiore al 150% (passando da 16 a 42). Anche l’adesione da parte dei lavoratori a queste forme di previdenza è aumentata costantemente: il numero di coloro che si sono iscritti tra il 1998 ed il 2006 è aumentato da 414.500 a 1.659.858. Nonostante l’incremento di adesioni ai tali forme di previdenza, il mercato di questi fondi di previdenza integrativa non ha avuto, in Italia, particolare successo. Tfr o fondo pensione: alternative a confronto. Il decreto legislativo 252/2005 dichiara che l’adesione alle forme pensionistiche complementari «è libera e volontaria». Si rivolge ai lavoratori dipendenti del settore privato, essendo al momento esclusi i 4 milioni circa di dipendenti pubblici. La platea degli interessati è, quindi, composta da 18 milioni circa di lavoratori privati, di cui 12 milioni circa sono dipendenti (con Tfr) e 6 milioni circa sono autonomi (senza Tfr). Tra il 2003 e il 2006 il rendimento netto del Tfr è stato circa del 2,4% nel 2006 e del 2,6% nel 2005; negli stessi due anni, i portafogli dei fondi chiusi bilanciati hanno reso, in media, il 5,6% e il 7,9%: nel primo caso, quindi, si ha una redditività più bassa ma più stabile, nel secondo una redditività più alta ma più variabile. I vantaggi e gli svantaggi. Tra i vantaggi occorre senz’altro ricordare, oltre la già citata bassa rischiosità, l’immediata disponibilità del Tfr maturando (fino al 70%) per chi ha almeno 8 anni di lavoro nell’azienda e la possibilità di optare per una forma pensionistica in qualsiasi. Per le imprese che hanno meno di 50 dipendenti, tale scelta sembra quella più in linea con gli interessi dell’azienda poiché non toglie al datore di lavoro una fonte certa di finanziamento. Secondo i dati del 2005, l’indicatore sintetico dei costi su 10 anni di permanenza, per i fondi chiusi, è stato dello 0,47%, per i fondi aperti dell’1,3% e per i Pip del 3%. Prendendo in considerazione una permanenza nel fondo più lunga, pari a 35 anni, il costo non scende, per i Pip, al di sotto dell’1,6% (Covip, 2005).

“OUTLOOK” Uno sguardo fuori regione
Rubrica di scienze economiche e sociali
a cura di Rosario Palese
(ISSN 1722-3148)