A distanza di anni dalla sua prima comparsa in Italia, il termine lobbying continua a suscitare dubbi e perplessità. L’assenza di una definizione univoca del fenomeno e soprattutto la perdurante mancanza di un quadro normativo di riferimento, oltre ad ingenerare confusione, hanno indubbiamente contribuito alla conservazione nel tempo dell’accezione negativa comunemente attribuita al lavoro e alla figura del lobbista.
Nonostante una generale demonizzazione del fenomeno in oggetto, recentemente, si comincia a guardare con maggiore benevolenza al “lobbismo” nostrano. A testimonianza di ciò la stampa, a partire dal 2000, a prescindere dalla curvatura politica e ideologica, ha dedicato sempre più attenzione alle lobby cercando di coglierne tutti gli aspetti senza limitarsi a stigmatizzarne i difetti e le storture. A riprova di un lento ma progressivo abbandono dell’alone di mistero impenetrabile che per molto tempo ha avvolto le lobby, va sottolineata anche la propensione dei lobbisti a non considerare più come inconfessabile la loro occupazione e ad agire allo scoperto, come si evince dai molti siti web di società di consulenza specializzate nelle relazioni istituzionali o degli organismi rappresentativi di categoria che dichiarano apertamente tra le loro attività anche quelle di lobbying.
Il dato più significativo di un diverso approccio verso le lobby, è costituito dalla proliferazione di corsi di formazione e di master in materia che dimostrano la potenziale richiesta di veri e propri professionisti dell’intermediazione istituzionale affrancati dall’immagine obsoleta del lobbista tradizionale dedito all’intrigo più che ad all’aperta comunicazione. Stando al Rapporto sulle Lobby d’Italia a Bruxelles, redatto dal CIPI nel 2006, in Italia vi sarebbero già ben sei istituti che dispensano corsi di lobbying e di public affairs, di cui quattro fanno capo ad atenei universitari e tre di questi sono pubblici. E l’offerta di percorsi formativi in materia è destinata a crescere negli anni a venire.
L’indebolimento della sovranità statale per effetto da un lato, della globalizzazione e dall’altro, della decentralizzazione dei poteri a livello locale, ha avuto un ruolo determinante nel calo dei consensi dei partiti e nella inclusione di altri soggetti rilevanti nel processo decisionale pubblico. Il divario crescente tra politica e società agevola la diffusione dei gruppi di pressione, i quali, usufruendo delle garanzie costituzionali che legittimano la partecipazione dei singoli alla gestione della cosa pubblica, si fanno così portatori di interessi «che si riversano direttamente e senza mediazioni sugli organi costituzionali. La frammentazione della domanda normativa che proviene da una compagine sociale altrettanto frazionata può trovare nelle lobby tanto un’occasione di sintesi quanto un fattore ulteriormente disaggregante soprattutto se, lungi dal ricercare una piattaforma comune d’azione come, ad esempio, la creazione di alleanze intersettoriali, le lobby continuano a prediligere canali di comunicazione autonomi e in concorrenza tra loro.
È stato inoltre rilevato come la perdita di competitività delle imprese del nostro Paese non sia priva di legami con il rafforzamento dei gruppi di interesse economici che continuano a giovarsi di un sistema in cui il divario tra i profitti delle aziende “protette” rispetto a quelli delle aziende “aperte” è ancora in grado di scoraggiare l’espansione verso i mercati internazionali. Il rifugio in un mercato a scarsa concorrenza come il nostro resta ancora l’opzione preferita dalla maggioranza delle imprese italiane, in particolare di quelle di commercio, costruzioni, energia, telefonia, nonché dei servizi immobiliari, bancari e professionali che «godono tutte di qualche forma di protezione. Se a ciò si aggiunge che alcune di queste continuano a ricevere a vario titolo dallo Stato una quota consistente di sussidi, non stupisce affatto che, in assenza di un’equa distribuzione di incentivi reali e di sgravi fiscali significativi, le aziende dedichino sempre più risorse alle attività di lobbying e meno alla loro internazionalizzazione nei mercati esteri.
L’evoluzione dell’homo “lobbisticus” italicus.
Accanto al lobbista tradizionale associato al mercimonio di leggi e favori, emerge la figura del lobbista contemporaneo, ovvero del professionista con competenze giuridiche e relazionali, perfetto conoscitore dei dettagli tecnici di un dossier, abile nello spiegare al decisore l’impatto di un provvedimento su un dato settore economico, nel fornire consulenze approfondite e nell’intrecciare una fitta rete di contatti. Una volta inquadrata la issue e quindi individuato il tipo di provvedimento che intende pilotare o abbattere, il lobbista effettua la cosiddetta “mappatura dei decisori e degli influenti” avendo cura di identificare alleati e possibili avversari per poi definire la strategia di comunicazione formale o informale che intende adottare nei confronti di ognuno. Una comunicazione che dovrebbe mirare a far conoscere una questione di interesse pubblico oltre alla posizione del soggetto rappresentato. Quindi, fare il lobbista non equivale necessariamente ed esclusivamente ad esercitare una forma di pressione sull’organo politico di riferimento perché il risultato normativo che si intende raggiungere potrebbe essere conseguito anche solo attraverso la proposta di una soluzione costruttiva che tenga conto dell’interesse generale e che risulti così convincente per sua stessa natura.
Ma chi sono e dove operano i nuovi lobbisti italiani? Rimangono certamente sulla scena gli intramontabili consiglieri politici e i rappresentanti di Confindustria, delle federazioni industriali, delle associazioni di categoria e dei sindacati; ma il pluralismo degli interessi in gioco ha fatto venire allo scoperto anche i portavoce dei gruppi finanziari ed assicurativi, delle Ong, dei raggruppamenti di consorzi e delle cooperative, degli Enti territoriali, delle coalizioni sporadiche di compagini diverse che fanno quadrato intorno ad obiettivi una tantum.
Alla schiera degli esperti dell’intermediazione politica, si uniscono i responsabili per i rapporti istituzionali dei gruppi industriali, finanziari ed assicurativi che richiedono spesso l’affiancamento di specialisti in pubbliche relazioni appartenenti alle numerose società di consulenza, molte di origine anglosassone, che stanno germogliando nel nostro Paese e che rappresentano, di volta in volta, interessi diversi.
Le Istituzioni comunitarie.
La loro presenza nell’agenda del lobbista italiano è divenuta pressoché irrinunciabile, visto che l’erosione del potere degli Stati nazionali in favore del sistema multipolare europeo è ormai un processo inarrestabile e che, conseguentemente, le scelte adottate a Bruxelles ricadono sull’80% della legislazione nazionale. Non meraviglia, pertanto, che gruppi industriali e finanziari italiani come pure diverse associazioni di settore abbiano deciso di aprire un proprio ufficio distaccato a Bruxelles per curare più da vicino le relazioni europee e per promuovere più incisivamente, associandosi con i partner stranieri, interessi strategici dinanzi agli organi dell’Ue.
La ragione principale del pericolo di una marginalizzazione del lobbying nostrano a Bruxelles risiederebbe nel fatto che esso risente della frammentazione e del particolarismo che c’è in Italia e viene percepito spesso come troppo politico e nazionale.
L’evoluzione delle lobby a Bruxelles dipende largamente dal peculiare processo di formazione delle decisioni comunitarie. Si tratta di un processo cosiddetto bottom-up che, partendo dal basso, ha spontaneamente riconosciuto alla società civile un ruolo basilare. Grazie a diversi meccanismi di consultazione, come ad esempio i gruppi di lavoro, i comitati, le tavole rotonde e i Libri verdi con cui la Commissione Europea, detentrice privilegiata del potere di iniziativa normativa, invita le diverse parti sociali ad esprimersi sulle possibili opzioni regolamentari inerenti una determinata materia, i gruppi esponenziali sono divenuti i principali interlocutori delle Istituzioni comunitarie tanto che a Bruxelles si contano oggi circa 15.000 lobbisti.
Una legge italiana per la trasparenza delle lobby.
La necessità di introdurre regole a garanzia della visibilità dell’operato dei portatori di interessi è stata da tempo avvertita anche in Italia. Dal 1976, anno della prima proposta legislativa in materia, ad oggi sono stati presentati circa ventisei progetti di legge riguardanti generalmente l’accesso delle lobbies all’istituzione democratica per eccellenza del nostro Paese, il Parlamento.
I progetti di legge sulla regolamentazione delle attività di relazioni istituzionali non sono mai stati votati in Aula e solo qualcuno di questi è stato oggetto di esame in seno alle Commissioni competenti. Fino alla fine degli anni Novanta, poi, il tratto comune delle proposte presentate consisteva essenzialmente nel considerare le attività di lobby come un fenomeno di potenziale corruzione da assoggettare a norme di prevenzione e di repressione.
Il primo tentativo apprezzabile di inquadrare compiutamente e correttamente questo genere di attività è stato fatto con il progetto di legge n. 4594 presentato alla Camera nel 1998 dagli Onorevoli Ostilio e Danese. Sulla stessa scia, nel corso della XIVma Legislatura, sono state presentate altre tre proposte di legge (Pdl) alla Camera dei deputati: la Pdl n. 1567 “Disciplina dell’attività di relazione istituzionale” depositata dall’On. Pisicchio della Margherita, la Pdl n. 3485 “Disciplina dell’attività di relazione svolta nei confronti di componenti delle assemblee legislative e di titolari di pubbliche funzioni” presentata dall’On. Galli di Forza Italia e la Pdl n. 5567 “Disciplina dell’attività di relazione istituzionale svolta nei confronti dei membri del Parlamento” che porta il nome dell’On. Colucci di Forza Italia. L’esame di tutte queste proposte è stato assegnato alla Commissione Affari Costituzionali dove la discussione dei testi, iniziata con un certo ritardo solo nel maggio del 2005, non è riuscita a sfociare in un’approvazione prima della fine della Legislatura a causa della consueta inerzia politica di fronte alle questioni più spinose. I tre disegni contenevano, ognuno per un aspetto diverso, delle buone premesse sia ideologiche che contenutistiche su cui sarebbe stato possibile sviluppare una riforma organica e completa: innanzitutto una definizione “positiva” dell’attività di lobbying che, sulla falsariga di quella già formulata nella Legislatura precedente, era comprensiva dei decisori pubblici “extraparlamentari”, a carattere continuativo, realizzabile da persone, associazioni, enti e società anche a fini di carattere sociale e umanitario e attraverso varie forme di comunicazione tra cui pure la via elettronica.
Tutte e tre le iniziative legislative prevedevano l’iscrizione dei lobbisti in appositi registri presso la Camera ed il Senato. Certamente significativa era inoltre la previsione di un obbligo per le lobby di relazionare semestralmente sull’attività svolta, sui contatti posti in essere, sugli obiettivi conseguiti, sui mezzi impiegati e sulle spese sostenute. Si ipotizzavano infine sanzioni pecuniarie sia a carico delle lobby che non si conformassero agli obblighi prescritti, che a carico dei parlamentari che avessero intrapreso relazioni al di fuori degli schemi consentiti dalla legge.
“OUTLOOK” Uno sguardo fuori regione
Rubrica di scienze economiche e sociali
a cura di Rosario Palese
(ISSN 1722-3148)