Due ore sospesi tra sogno e realtà, in uno stato di semi-incoscienza in
cui il reale si confonde con l’immaginario. Un’alchimia tra le più
riuscite fra il recitato sul palco e il sentimento vissuto dal
pubblico-spettatore. Il merito va al lavoro svolto da Luca De Filippo e
Francesco Rosi, alle prese con “Le voci di dentro. Tarantella in tre
atti”, celebre commedia del maestro Eduardo, andata in scena al teatro
Stabile di Potenza. Concepita nel 1948, subito dopo “Napoli
milionaria”, “Filumena Maturano” e Questi fantasmi”, “Le voci di
dentro” si porta dietro gli echi tragici della guerra appena finita. I
sogni inquieti che i protagonisti fanno, raccontati all’inizio della
rappresentazione, accrescono il senso di mistero e di disorientamento
che farà da filo conduttore durante tutto lo spettacolo. Così, quella
che può sembrare una divertente commedia degli equivoci, finisce col
diventare un’acuta riflessione sull’uomo e le sue meschinità che,
invece di ammiccare al pubblico, lo turba profondamente.
Una messinscena curata e attenta, dove nulla è lasciato al caso e dove
un regista, Francesco Rosi, e un uomo di teatro, Luca De Filippo, si
ritrovano sullo stesso palcoscenico a condividere il medesimo sogno:
far vivere il teatro di Eduardo. La trama è nota: Alberto Saporito
accusa la famiglia Cimmaruta di aver ucciso un suo conoscente. La
denuncia, però, cade quando l’uomo si accorge di aver sognato tutto. Ma
questo non basta a mettere pace nel palazzo: gli accusati iniziano a
sospettarsi l’un l’altro, arrivando a progettare un delitto reale per
mascherarne uno immaginato. La platea di Potenza si lascia andare a un
applauso liberatorio al momento dell’ingresso in scena di Luca nei
panni del protagonista Alberto. Un applauso che è anche un tributo alla
genialità e alla maestria del padre che prosegue col figlio. Un figlio
che lo ricorda in maniera impressionante, sia nella recitazione, sia
nelle movenze e sia nell’aspetto fisico.
Di grande impatto il deposito di mobilie dei fratelli Saporito, frutto
delle ingegnose scenografie di Enrico Job. Stracolmo di cianfrusaglie,
oppresso da centinaia di sedie una sopra l’altra, rappresenta in
maniera fedele lo stato d’animo di Alberto: disorientato e stordito.
Disorientato di fronte alla malvagità dei suoi vicini, la famiglia
Cimmaruta, che pur di accusarsi l’un l’altro lo sostengono nelle sua
assurda denuncia. Stordito, ma soprattutto profondamente amareggiato,
di fronte alla rapacità del fratello che non aspetta altro che di
vederlo arrestato per vendere tutto e intascare il denaro. L’ironia
viene usata come un’arma a doppio taglio. Si ride, tanto, ma è un riso
amaro, di quelli che lasciano il groppo in gola. Lo dimostrano i
divertenti intermezzi di Anna Moriello, nei panni di una cameriera
schietta e diretta, alle prese con un’irrefrenabile desiderio di
dormire il più possibile. Ma proprio lei, anche di fronte alla tragedia
del licenziamento, non mancherà di compiere una buona azione.
L’unico vero saggio è Zi’ Nicola (Giuseppe Rispoli), un personaggio che
ha deciso volontariamente di smettere di parlare. Per lui, in un mondo
in cui non ci si ascolta più neanche all’interno della stessa famiglia,
non c’è più bisogno della parola, se la parola stessa è utilizzata solo
per accusarsi e condannarsi a vicenda. “L’uomo è libero solo di morire”
recita prima di chiudersi nel suo definitivo silenzio. E così farà,
morirà. Ma non prima di aver assistito all’ennesima tragica commedia
dell’uomo, fatta di tradimenti e di accuse reciproche. Una luce verde,
come la speranza di cambiamento che, in fondo, non muore mai, ne
segnerà la fine tranquilla.
[Articolo di Gianni Di Lascio]