Quando la quasi totalità delle carriere lavorative si esaurisce, quella politica raggiunge l’apice: se ne va un presidente del Consiglio di quasi 70 anni e ne subentra uno di 67. Carlo Azeglio Ciampi termina il suo mandato di Presidente della Repubblica a 86 anni e Giorgio Napolitano inizia il proprio a 81 anni. Meglio non soffermarsi sul fatto che una metà del Senato della Repubblica ha tentato di instaurare, in ruolo delicato e logorante come quello di presidente, un senatore di 87 anni.

Da una rapida occhiata agli archivi appare un altro dato piuttosto sconcertante. In Italia, l’ultimo presidente del Consiglio di 47 anni, a parte la fugace apparizione di Giovanni Goria, fu Aldo Moro nel 1963. Il gap anagrafico con il resto d’Europa è simile per il presidente della Repubblica. Silva, presidente del Portogallo fu eletto a 66 anni; Chirac (Francia) assunse l’incarico nel 1995 a 63 anni, e Kohler (Germania) fu nominato nel 2004 a 61 anni; Klaus, presidente della Repubblica Ceca iniziò il suo mandato a 62 anni; Tarja Halonen, finlandese, fu eletta nel 2000, all’età di 57 anni. E così via. È opportuno chiedersi quali siano le radici storiche di questo fenomeno, ma non è questa la sede per un’analisi approfondita, che lasciamo ai politologi. Ci limitiamo a due semplici osservazioni.

Primo, nell’ultima campagna elettorale, si sono confrontati gli stessi candidati di dieci anni fa, un’eccezione assoluta nel panorama politico europeo. Secondo, negli anni di Tangentopoli, ci fu un profondo ricambio della classe politica. Nuovi protagonisti, come lo stesso Silvio Berlusconi da una parte, e Antonio Di Pietro dall’altra, emersero sul palcoscenico politico. Però, al pari del ricambio, non sembra esserci stato uno svecchiamento della classe dirigente. È importante, invece, soffermarsi sulle possibili implicazioni del primato della terza età nella politica italiana. La prima, e più ovvia, questione è quella della “rappresentanza”. Per capirci, in Italia meno di un quinto della popolazione ha più di 65 anni. Si parla tanto di “quote rosa” e dell’importanza di avere donne che ricoprano alcuni posti chiave della politica. Ma la “questione anagrafica” è sistematicamente ignorata. Se prendiamo i cinque Ministeri chiave, Interni, Esteri, Economia, Giustizia e Difesa, l’eta’ media e’ 63 anni. Una squadra di sessantenni al vertice della classe politica di certo non promuove il coinvolgimento dei giovani nella vita politica attiva. Semmai, li allontana ulteriormente, rischiando di far apparire la carriera politica come un’attività in mano a un’altra generazione. Un po’ come le bocce.

Poi c’è la questione delle competenze. Una visione ottimistica può far concludere che i politici italiani abbiano più “esperienza” dei loro colleghi europei, quindi commettano meno errori. È possibile. Ma è anche possibile che la nostra classe dirigente abbia conoscenze più datate, e perciò sia meno adatta a “gestire” e interpretare i rapidi processi di cambiamento della società contemporanea. La politica è un’attività produttiva. E purtroppo, il mondo politico italiano è lo specchio fedele del mondo del lavoro. In Italia, la mobilità sociale è bassissima, e il merito è premiato troppo poco. La carriera professionale si sviluppa soprattutto per anzianità, aspettando pazientemente il proprio turno per la promozione, e la politica non sembra essere un’eccezione. Sarebbe ingiusto, però, dipingere i giovani solo come “vittime del sistema”. Come potrebbe, chi sceglie di vivere a casa di mamma e papà sino a 35 anni, diventare presidente del Consiglio a 45?

L’invecchiamento della popolazione sta alterando profondamente i rapporti tra le generazioni, con ripercussioni anche sul peso elettorale, in modo del tutto inedito nella storia dei paesi democratici. Il nostro paese sarà quello che per primo sperimenterà il sorpasso della fascia di elettorato più anziana (65 ed oltre) su quella più giovane (under 35). Un evento che si sta producendo proprio in questi anni (Figura 1). Il divario tra le due fasce di età è inoltre destinato nei prossimi decenni ad accentuarsi ancor più che altrove. Se oggi la situazione è ancora di sostanziale equilibrio, entro il 2020 l’elettorato under 35 si troverà con oltre tre milioni di unità in meno rispetto a quello di 65 anni e più. Se si abbassasse a 16 anni il diritto al voto, la differenza – sempre nel 2020 – rimarrebbe comunque sopra i due milioni, compensando quindi solo parzialmente il divario. Se poi ci si sposta più avanti nel tempo lo squilibrio generazionale diventa imponente: se oggi il voto dei giovani ha lo stesso peso di quello degli anziani, da qui al 2045 il peso dei primi si ridurrà ad essere la metà di quello dei secondi. L’impatto delle dinamiche demografiche sarà tale che anche l’aver abbassato a 16 anni l’età al voto produrrà un’incidenza molto modesta sul divario complessivo

I dati implacabili del processo di invecchiamento in atto fanno ben capire come la scelta di portare a 16 anni l’età degli elettori possa avere un effetto apprezzabile solo nel breve periodo. Dato però che le elezioni sempre più spesso si vincono per pochi voti, la decisione di dare più peso all’elettorato più giovane costringerebbe forse la politica a svecchiarsi e a dedicare maggiore attenzione alle nuove generazioni.  L’Italia è un paese che finora ha scarsamente investito sui giovani e quindi anche sul proprio futuro. Come è stato ripetutamente evidenziato, la riforma delle pensioni è carente soprattutto in termini di equità generazionale Siamo del resto il paese che destina la maggior quota di spesa per protezione sociale verso le generazioni più anziane. Inoltre, la classe politica italiana è già attualmente una di quelle con maggior tasso di gerontocrazia del mondo occidentale. Il fatto che l’attuale dibattito sulla riforma della legge elettorale sia centrato soprattutto sul peso da dare ai partitini e non tenga per nulla conto di come si ridurrà invece nei prossimi decenni il peso delle più giovani generazioni, è un segno evidente di come la politica italiana continui a ragionare con vecchie logiche invece di cogliere le vere sfide delle trasformazioni in atto.

E nella nostra regione questa questione si fa ancora più accesa se pensiamo all’occasione persa della riscrittura dello statuto regionale. Il ricambio generazionale in politica e nelle istituzioni sembra un vero miraggio, un sogno ma che può diventare realtà se da subito si riprende in mano la discussione sullo statuto regionale e si apportano quelle modifiche strategiche che a noi sembrano necessarie. Una di queste è senza dubbio la riforma della legge elettorale regionale che, così com’è bloccata sulla singola preferenza, non libera e non da rappresentanza di fatto quelle energie che oggi chiedono alla politica una nuova rappresentanza. Ed è a partire da questa riforma che per molti sarà possibile, come cita quella famosa pubblicità dell’acqua nostra, sentirsi giovani fin da giovani e non a 50 anni.

[Articolo di Sergio Ragone]
http://sergioragone.ilcannocchiale.it

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