[Recensione di Teresa Armenti]

La sera del 10 aprile scorso, nella pinacoteca provinciale di Potenza, l’atmosfera era felpata, vellutata, quasi magica. La platea, formata da narratori, poeti e amanti della poesia, giunti dal capoluogo, dal Vulture e dal Lagonegrese, era particolarmente assorta: il violino pizzicava l’anima e la voce narrante ne catturava i fremiti. In questo elegante salotto letterario, veniva presentato, con semplice naturalezza, dalla poetessa Lorenza Colicigno, curatrice della Collana Scriptavolant, la raccolta di poesie “Il gatto e la falena” di Maria Pina Ciancio, vincitrice del Premio “Parola di donna”  edizione 2003.

Racchiuso tra la prefazione di Lorenza Colicigno e la postfazione di Gina Labriola, impreziosito in ogni pagina dai tratti perlinati in filigrana del pittore Cosimo Budetta, il florilegio “Il gatto e la falena” , dedicato alla gente lucana ed ai luoghi discreti e imperfetti che profumano a sera di malva e rosmarino, è un raro gioiello lirico. Lo si può definire l’ambra del pino loricato, che ha imprigionato i fossili del Pollino, si è specchiata nel Sinni, affidando, insieme a Isabella Morra, “la storia al destino di una nave”.

I versi sono stille di rugiada, frammenti, lapilli, generati nel silenzio, che esplodono improvvisi e poi ritornano nel silenzio, carichi di respiro e di infinita tristezza. Sono stati d’animo che mettono in risalto un periodo particolare della poetessa. Sono gli anni 96/99, durante i quali la Ciancio va alla ricerca della verità. Il 1999 richiama alla sua mente il 1799 ed ecco che si staglia in tutta la sua fierezza una figura femminile: Eleonora Pimentel, martire “senza chiasso” della libertà. La Nostra si muove con delicatezza nella terra lucana d’amori arditi/ di paesi scarni/ silenziosi e mesti, veglia nelle lunghe notti “varco d’ombra /dove scivola argenteo /il guinzaglio della luna/, fissa il suo sguardo nei calanchi, impasta di argilla la sua malinconia, pone interrogativi sulla vita, cerca risposte dai suoi interlocutori. Vuole instaurare, nonostante le lacrime silenziose che scivolano sul suo volto, un dialogo.

E di prospettiva di dialogo, occasione per scolpire una speranza, parla appunto Lorenza Colicigno nella sua relazione introduttiva. Il dialogo è fatto di parole e di silenzi. Di ascolto. Nella realtà contemporanea, stritolata dal grido, dalla risata convulsa, occorre saper ritrovare la comunicazione, quella vera, basata sulla comprensione. Nella poesia della Ciancio – fa notare ancora la Colicigno – c’è una sua autenticità, che trova la sua veste nella sintesi. E’ il linguaggio nucleare, che dal silenzio conduce alla parola, spesso vestita di nudità, e viceversa. Il silenzio è il luogo della riflessione, della meditazione: una condizione interna, sia fisica che mentale, utile al tentativo di raccordo tra il sé e l’altro. La relatrice mette anche in risalto il conflitto spazio-temporale di cui è pervasa la poesia: vado e vengo, andare o restare, alzarmi e ricadere; ogni volta, comunque, c’è il desiderio di ricominciare e di proseguire, sempre in direzione SUD, un conflitto che si traduce in una dicotomia che approda nei seguenti versi finali “La poesia è l’esperienza di una soglia,/ dello stare sui difficili confini/ del chiaro e dello scuro”.

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