[Articolo di Tatjana La Paglia]
Una sorta di caccia al “limite della libertà”, quella stessa libertà che ogni giorno dovrebbe consentire ad un Paese civilmente avanzato, di poter venire a conoscenza di tutte quelle informazioni in grado di mettere allo scoperto quei fatti che impediscono la giusta crescita e lo sviluppo economico e sociale di una nazione che guarda al proprio futuro, in maniera migliore e più serena.
“In America i giornalisti sono il cane da guardia del potere, in Italia sono da compagnia”, un’affermazione che non necessita di alcun commento ma sicuramente di tanta riflessione, soprattutto in vista della classifica di Reporter Senza Frontiere fatta su 168 paesi del mondo, in cui la Cina – la nazione più popolosa, vera potenza emergente – è in coda al 163esimo posto, uno degli ultimi; la Russia – che all’arsenale nucleare ha ora aggiunto l’arma economica delle riserve di gas e petrolio – è al 147esimo, praticamente in caduta libera per le uccisioni di giornalisti e la drastica riduzione degli spazi di sopravvivenza fisica per i media indipendenti; gli Usa vengono posizionati al 53esimo posto (erano al 17esimo nel 2002) a causa della stretta autoritaria provocata dalla politica della “Guerra al Terrore” voluta dall’amministrazione Bush.
E l’Italia? Il nostro amato Paese occupa ben il 40esimo posto nella classifica della “libertà di stampa”, quella stessa libertà che dovrebbe costituire l’elemento fondamentale di una società democratica permettendo: da un lato l’esistenza di un pubblico informato dei fatti, dall’altro una discussione collettiva sul significato di tali fatti, sulle conseguenze politiche da trarne, sui provvedimenti da prendere in relazione ad essi. Come sostenuto in una recente dichiarazione dell’on. Enrico Buemi, responsabile giustizia dello Sdi, “vicende gravi che emergono dall’inchiesta di Potenza” e da altre, dimostrano la necessità di “un’opera di qualificazione professionale di parti nel mondo dell’informazione”, ma, avverte Buemi, questo “non può giustificare l’assunzione di iniziative legislative tendenti a limitare la libertà d’informazione”.
Per Buemi, “se si vuole efficacemente agire contro la diffusione di documenti secretati si deve ricercare la responsabilità di quanti (magistrati, cancellieri, agenti di polizia giudiziaria, addetti amministrativi, imputati, avvocati ed i loro collaboratori), avendone la detenzione legittimamente, li diffondono”. Il giornalista, al contrario, “non può essere limitato nella sua attività d’informazione se non dalla sua capacità professionale e dalle sue sensibilità, in sostanza, dalla sua coscienza”. Il parlamentare dello Sdi esprime quindi “contrarietà a misure che, non essendo in grado di colpire il fenomeno nella sua radice, tendono a colpire il diritto della gente ad essere informata liberamente, non tenendo conto che il tentativo di condizionare la libertà di stampa si sa dove inizia ma non si sa dove finisce”.
Libertà di stampa non vuol dire solo riportare in maniera imparziale dei fatti ma anche mettere in discussione delle certezze; non è esclusivamente dare delle risposte o raccontare dei risvolti ma indurre a delle riflessioni; libertà di stampa non è assecondare il potere ma essere liberi di poterlo contrastare, avendo costantemente presente che ad ogni critica è bene accoppiare un’idea di costruzione, ad ogni scelta che si giudica sbagliata contrapporre una soluzione alternativa. L’attacco all’informazione, non va visto dunque come una spada sguainata in difesa di un’integrità politica e costituzionale che tanto si è cercato di difendere alla luce delle ultime inchieste; non costituisce la salvaguardia della moralità di un popolo laborioso ed onesto che ha visto messa alla mercé dei media la propria integrità di cittadini onesti, ma rappresenterebbe solo un passo in più che allontana il nostro Paese dalla vetta di una classifica, ma soprattutto dalla reale libertà di conoscenza e coscienza.