Invisibile. Lo è per forza una generazione che salirà al potere solo verso i 50 anni, quasi come Carlo d’Inghilterra. Ma non Peter Pan. No, non è eterna bambina, la generazione di chi oggi ha 20 o 30 anni. Rassegnata, disillusa. Ma non assopita. Non è una generazione che non sogna. Vive in un Paese bloccato, che da sempre predilige il riciclo al rinnovamento. Il Paese dei “Grandi Vecchi”, senza il coraggio di investire sui suoi figli. Un’autorevole indagine della Caritas racconta di un rischio impoverimento per i giovani, non solo al primo impiego. Il 25% dei matrimoni è preceduto da un periodo di convivenza. Negli anni ’60, lo era solo il 6%. Non si tratta, però, di una rivoluzione dei costumi. Per quanto cresca l’interesse per forme di unione diverse dal matrimonio, molto spesso si tratta di una scelta obbligata da ragioni economiche, più che ideali. Oggi la strada che porta all’autonomia dalle proprie famiglie è un cammino tortuoso, privo di indicazioni e raramente illuminato da una meta certa.

E’ questo che manca: una meta. Non bastano più l’università, l’alta formazione o altri percorsi a garantire la certezza del lavoro e il diritto alla realizzazione personale. “Il pieno sviluppo della persona”, sancito dall’articolo 3 della Costituzione Italiana ¹, sta diventando la più onirica delle utopie; eppure è la missione autentica dello stato.  La liberalizzazione delle professioni ci ha fatto toccare con mano quanto sia difficile rinunciare a privilegi ereditari. Ma la vicenda di farmacisti e tassisti fa soltanto da cartina di tornasole ad un Paese pigro ed egoista, nel quale nessuno ha intenzione di mettersi in discussione. L’Italia divenne grande nel Dopoguerra, perché una generazione intera vide nel “posto fisso”, per quanto discutibile, un simbolo di riscatto sociale; una vera e propria meta. Con l’assunzione si aveva la percezione di avercela fatta. E si poteva cominciare a pensare a una casa, a una famiglia, al futuro. Tutto questo oggi è rinviato a data da destinarsi. La precarietà non descrive pienamente una condizione che è di vera e propria inquietudine. Ma non è il posto fisso, che chiediamo. Occorre invertire la rotta e segnare una meta. E la risposta può essere la “liberalizzazione dei giovani”. Non solo nel mercato del lavoro, ma di tutto quello che essere giovani significa. Liberalizzazione del merito. E’ questa la parola chiave del cambiamento e al tempo stesso la sfida che la società deve lanciare alla sua gioventù.

Realizzare il merito; tutti devono essere messi in condizione di farlo. Egualitarismo delle opportunità: sostegno al reddito, mobilità sociale. Fine del nepotismo. Fine del “calcio nel sedere” e del “lei non sa chi sono io”, quali criteri primi di selezione del personale. Liberalizzazione dei saperi e della conoscenza. Liberalizzazione della creatività, del coraggio di intraprendere, di progettare l’avvenire. Questa generazione può farcela. Non è vero che non ha un’anima.  E’ appena finita l’estate in cui oltre 3 milioni di giovani hanno partecipato a campi di lavoro di associazioni no profit. Forse, c’è una religione della solidarietà, che ci accomuna. E’ l’etica di una generazione globalizzata, che non contempla più nefandi propositi rivoluzionari. L’etica di una generazione che ha deposto simboli e bandiere ideologiche e non ha nessuna voglia di partecipare a venture guerre di religione. Generazione “Ikea”, generazione “low cost”: la chiamano così. Strano, però, che la più grande politica di redistribuzione del reddito per i giovani sia stata messa in campo dalla “Ryan Air”. Che è solo una compagnia aerea. Strano che i giovani siano completamente assenti dall’agenda politica di questa nazione. Ma è anche una “generazione molle”, viziata dai consumi, a volte troppo remissiva, adagiata su quello che ha già. Priva di stimoli per valorizzare i suoi talenti. Necessita di una scossa. La “liberalizzazione” potrebbe esserlo.

I giovani chiedono un’occasione. Chiedono al Paese il coraggio di cambiare. Di investire sul suo bene più prezioso. Di credere nel cammino virtuoso della vitalità giovanile. In Italia bisogna ricominciare ad immaginare. Immaginare il futuro del Paese, non dall’oggi al domani, ma da qui a 10, 20 anni. Capire la modernità. Pensare il futuro. Liberalizzare i giovani o aspettare che Carlo diventi re.

Per aderire:
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