Il 27 gennaio del 1945 il Campo di Sterminio di Auschwitz veniva liberato e con esso i pochi sopravvissuti alla ‘mattanza ebrea’ per mano della Germania Nazista: la pagina più triste del Secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. E’ questa la “Giornata della Memoria“, istituita dal nostro Parlamento il 20 luglio 2000 (“Legge n. 211”) per non dimenticare le follie hitleriane e le assurde credenze di una razza superiore. Circa sei milioni di ebrei il numero delle vittime.

In tanti si sono chiesti come sia stato possibile, come si è potuta sottovalutare l’ondata nazista, come l’antisemitismo sia potuto attecchire con una facilità enorme in un’Europa seppur in crisi, troppo permissiva. Eventi di questa portata segneranno per sempre i ricordi di chi quei momenti li ha vissuti; di chi ha assistito al Terrore prodotto dalla macchina nazista ed è riuscito a venirne fuori. Campi di Sterminio, vere e proprie fabbriche della morte, dove il prodotto e la forza lavoro erano la stessa cosa: Ebrei da incenerire.

Un complicato meccanismo studiato nei minimi particolari, in ogni piccolo e all’apparenza insignificante dettaglio, portato all’estremo da una ‘dottrina’ che aveva come unico telos la persecuzione, l’umiliazione, l’eliminazione. Sulla Shoah si è detto e si è scritto tanto, ma c’è chi è stato anche in silenzio. Quel silenzio che riempiva le strade di Auschwitz una volta svuotato: né più pianti, né più lamenti, né più colpi di pistola; solo il ricordo e il suono di questi versi:

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e i visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa e andando per via
Coricandovi e alzandovi;
Ripeteteli ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il loro viso da voi.

(Primo Levi, 1946)

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