[Recensione di Mimmo Mastrangelo]
E’ stato il più grave e doloroso naufragio dal secondo dopoguerra ad oggi quello accaduto nella notte tra il 25 e 26 dicembre del 1996 a largo delle acque di Portopalo, in provincia di Siracusa. In seguito alla collisione fra due imbarcazioni furono risucchiate dal mare in tempesta 283 extracomunitari provenienti dal Punjab indiano, dallo Sri Lanka e dal Pakistan. Solo 28 furono i fortunati che riuscirono a sopravvivere. L’inabissamento del peschereccio carretta F714, battente bandiera maltese, rimane dopo dieci anni un dolore che brucia l’anima, una ferita di vergogna (e inciviltà) sulla coscienza dell’umanità. Inquieti e scordati dal mondo rimangono come fantasmi sul fondo del mare uomini, donne, bambini, stanno lì aspettando ancora una degna sepoltura e una giusta-giustizia che, certamente, non arriverà più, perché le tredici persone che furono citate a giudizio dal tribunale di Siracusa per omicidio plurimo attualmente sono cittadini liberi e felicemente esentati da ogni responsabile penale. Ma c’è chi non ha voluto dimenticare quegli indiani e pakistani accreditati a “clandestini prima di aver toccato terra”.
La fiammella del ricordo l’accesa nel 2004 il giornalista di Repubblica Giovanni Maria Bellu (grazie alla sua coraggiosa inchiesta è stata ritrovata l’imbarcazione affondata) che ha fatto uscire per Mondatori “I fantasmi di Portopalo” in cui, dalla testimonianza di un pescatore portopalese, ha ricostruito la storia del naufragio e tutte le omertà e i dinieghi che si sono addensati intorno. Nello stesso anno l’attore e regista Bebo Storti ha portato in teatro la toccante messinscena “La nave fantasma”, mentre dal prossimo dicembre all’Auditorium di Roma, Giorgio Barberio Corsetti, preclaro rappresentante della nostra ricerca, alza il sipario su “Portopalo, nomi su tombe senza corpi” con interpreti alcuni superstiti e testimoni della tragedia, lo stesso Giovanni Maria Bellu e sei musicisti provenienti dai paesi dei naufraghi. Se si va in libreria si può trovare di fresca pubblicazione per la collana Il divano della Sellerio “Un canto clandestino saliva dall’abisso” del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Mimmo Sammartino.
Un libretto di poco più di cento pagine che scorre tra la narrativa e le coordinate di un poemetto e si afferma come un requiem civile in memoria di vite consegnate per meschinità di altri uomini alla furia del mare. Sammartino – che di questa “trasfigurazione lirica di fatti realmente accaduti” aveva già curato una scrittura drammaturgica – dispone la narrazione in venti quadretti, con la voce disperata di un superstite che viene costretto a rivivere il terrore di quella maledetta notte di Natale davanti ad un commissario di Polizia, il quale alla sua versione dei fatti rimane incredulo. Invece in un assordante silenzio rimarrà la gente, i pescatori di Partopalo. Loro, gli uomini che tutti le notti affrontano le insidie del mare, pur sapendo non parleranno (“per viltà perché non sopportavano l’idea di sentirsi chiamare rincoglioniti”), ad eccezione di un ubriacone che si sentirà lo scrupolo e il dovere di raccontare quanto ha visto, cioè brandelli di carne umana galleggiare in superficie o arenarsi sulla battigia. Ma il filo conduttore dell’opera di Sammartino è il canto dei quei fantasmi che giunge ai vivi come se fosse un’ antica nenia. Un grido incensato di tanto in tanto da qualche brevissima citazione letteraria (Erri De Luca, Jacopone da Todi, Hikmet, Eliot, Gibran…) ed innalzato da morti che non sanno darsi quiete per l’orrore vissuto e i rimpianti che trattengono nell’abisso dove rimarranno ospitati.
“Il canto clandestino…” di Sammartino è un concerto di umana pietà per una folla fuggita dalla miseria più nera e che anche la Provvidenza le ha sbarrato la porta per sognare di afferrare una nuova vita. Al giornalista e scrittore lucano va riconosciuto il merito di consegnare al lettore una scrittura che appena si posa sulla pagina diventa letteratura, ma quel dolore acuto che distilla parola per parola, riga per riga non va preso come scalpore, ma come evocazione dello strazio di quegli uomini di oggi con la valigia in mano che approdano (o cercano di approdare) sulle nostre coste e, il più delle volte, vengano accolti da chi approfitta di leggi sbagliate per violare i diritti più elementari.