L’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria in materia di spesa pubblica per la famiglia, la casa e l’esclusione sociale, cui dedica appena l’1,1% del Pil, contro una media della Ue a 15 pari al 3,4%.
L’assenza in Italia – caso quasi unico in Europa – di un provvedimento che garantisca l’inclusione sociale e i diritti di cittadinanza ai soggetti più deboli costituisce senza dubbio una delle maggiori lacune del sistema di protezione sociale del Paese, chiamato a confrontarsi con un numero imponente e crescente di famiglie in condizione di povertà relativa: 2 milioni e 674mila nel 2004, ovvero l’11,7% del totale, concentrate per il 72,4% nel Mezzogiorno.
La povertà è maggiormente diffusa tra le famiglie con una o più persone in cerca di occupazione: essa colpisce il 10,4% dei nuclei in cui nessuno risulta disoccupato (contro il 9,6% del 2003), oltre 1/5 delle famiglie con una persona in cerca di occupazione (20,9%) ed il 37,4% di quelle con due o più persone disoccupate (nel 2003 erano il 33,8%). Anche la dimensione del nucleo familiare costituisce una variabile discriminante: la povertà colpisce il 9,4% delle famiglie uni-personali ma ben il 23,9% di quelle con almeno cinque componenti, con importanti differenze a livello territoriale. Infatti la percentuale di famiglie in condizione di povertà relativa, pari al 4,3% nelle regioni settentrionali, sale al 7,3% al Centro e raggiunge dimensioni drammatiche nel Mezzogiorno, dove è povera una famiglia su 4. D’altra parte, a parità di componenti, la percentuale di nuclei familiari in condizione di povertà relativa sia al Sud molto più elevata rispetto al Centro e al Nord: l’indigenza economica colpisce, infatti, 1/4 delle famiglie uni-personali del Mezzogiorno (contro il 4,6% di quelle settentrionali) ed il 30,1% delle famiglie con 5 o più componenti (contro il 9,1% di quelle residenti al Nord).
Alcuni dati demografici. Il cambiamento più importante del modello tradizionale della famiglia è senza dubbio costituito dalla dimensione del nucleo familiare: tra il 1994 e il 2005 il numero medio dei componenti è sceso da 2,8 a 2,5. Il tasso di fecondità, in poco più di trent’anni, ha subito un drastico decremento: dai 2,41 figli per donna del 1971 si è progressivamente abbassato a 1,60 nel 1981, 1,35 nel 1991, fino a raggiungere il minimo storico nel 2001, con appena 1,25 figli per donna. Nel 2004, si è registrato un incremento del tasso di fecondità (1,33), ma questo aumento è in gran parte correlato a quello dalla presenza degli immigrati nel nostro Paese. Il crollo del tasso di fecondità ha rotto la condizione di equilibrio demografico, causando un’impennata dell’indice di vecchiaia – il rapporto percentuale tra over 64 e gli under 15 è infatti salito da 38,9 del 1961 a 137,7 del 2005 – e ponendo grandi interrogativi sulla sostenibilità del Paese e del sistema di welfare in particolare. In base alle previsioni contenute nel recentissimo “I numeri delle donne” presentato dal Ministero del Lavoro (2005), a una netta diminuzione degli occupati tra il 2020 e il 2030 si accompagnerà un crollo della popolazione attiva del 26%, che porterà il numero delle persone tra i 15 e i 64 anni da 38 a 28 milioni.
Le dimensioni della famiglia. Le trasformazioni delle strutture familiari e sociali hanno scalfito il primato del modello di coppia coniugata con figli, a favore di una crescita esponenziale di nuove forme di living arrangement, come le coppie di fatto – più che raddoppiate in un solo decennio, passando da 227mila a 555mila (1993-2003) – o le famiglie multiculturali, con almeno un componente straniero, che sono quasi triplicate (al 1° gennaio 2004 si contavano 2 milioni di stranieri residenti).
In dieci anni i giovani adulti tra i 25 e i 34 anni ancora residenti nella famiglia di origine sono cresciuti dal 26 al 35%, mentre i loro coetanei in coppia con figli sono crollati dal 42 al 28%. Il mutamento che ha investito il processo di transizione verso l’età adulta delle nuove generazioni, ha quindi dilatato ulteriormente il tempo di permanenza nella famiglia di origine, con evidenti ripercussioni sull’allungamento del ruolo di care giver svolto da essa in assenza di un adeguato sistema di protezione sociale.
I principali interventi a sostegno della famiglia. La Legge finanziaria per il 2005 ha in parte modificato le detrazioni Irpef per familiari a carico in deduzioni dal reddito. Il contribuente usufruisce della agevolazione fiscale sull’imposta lorda dovuta in relazione al reddito, al numero e alla tipologia dei componenti familiari. Agevolazioni sono previste per i nuclei familiari con figli portatori di handicap e per quelli con figli di età inferiore ai tre anni. Viene inoltre riconosciuto il lavoro di cura svolto in maniera formale per i familiari non autosufficienti, rendendo possibile dedurre dal reddito complessivo fino ad un massimo di 1.820 euro. Tale importante strumento lascia tuttavia “scoperte” le famiglie che più delle altre avrebbero bisogno di un sostegno economico: quelle in cui entrambi i coniugi risultano disoccupati.
Tra i sussidi monetari diretti, gli assegni per il nucleo familiare, istituiti con la legge 153/1988, costituiscono la più importante misura a sostegno del mantenimento dei figli. L’assegno è concesso, al di sotto di determinate soglie di reddito, a tutti i lavoratori dipendenti, ai disoccupati, ai lavoratori in mobilità, ai cassintegrati, ai soci di cooperative, ai pensionati e, a partire dal 1998, anche agli iscritti alla gestione separata dei lavoratori autonomi (collaboratori coordinati e continuativi, venditori porta a porta e liberi professionisti). L’entità della prestazione previdenziale è modulata in relazione alla fascia di reddito, all’ampiezza e alla tipologia del nucleo familiare; qualora esso fosse costituito da un solo genitore o comprenda un componente inabile, sono previste maggiorazioni sia per quanto concerne la soglia di reddito al di sopra della quale non si ha diritto al sussidio sia per ciò che riguarda l’ammontare dell’assegno (sebbene si tratti di incrementi piuttosto modesti). A sostegno delle famiglie numerose concorre poi, dal 1° gennaio 1999, un assegno corrisposto per 13 mensilità all’anno ai nuclei con almeno tre figli e un reddito annuo inferiore a una determinata soglia pari, con riferimento ai nuclei familiari composti da cinque componenti, di cui almeno tre figli minori, a 21mila e 309 euro. Per le domande relative al 2005, l’importo dell’assegno è di 118,38 euro mensili. A partire dalla Finanziaria 2003 una quota delle risorse del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali è assegnata alle Regioni e alle Province autonome in favore delle giovani coppie per l’acquisto della prima casa e il sostegno alla natalità. Criteri e modalità di erogazione delle risorse – 173,4 milioni di euro nel 2004 – sono decisi dalle Regioni.
In tema di politiche familiari, un ruolo importante è costituito dai congedi parentali, istituiti con la legge n.53/2000 che consentono ad entrambi i genitori, nei primi otto anni di vita del bambino, di astenersi dal lavoro per un periodo complessivo di dieci mesi. Fino ai tre anni di vita del bambino il congedo, che non può superare per ogni singolo genitore i sei mesi complessivi, è retribuito in misura pari al 30% dello stipendio. Un’altra misura volta a sostenere il costo dei figli in quanto consumatori di tempo è stata inserita nella Finanziaria 2006, la quale prevede che le spese sostenute per mandare i figli all’asilo siano detraibili per il 19%, fino ad un massimo di 632 euro annui per ogni figlio. L’assegno di maternità, concesso dallo Stato alle lavoratrici e dai Comuni a tutte le cittadine italiane, comunitarie ed extracomunitarie in possesso del permesso di soggiorno, è un contributo economico erogato alle madri che non beneficiano di nessuno trattamento di maternità, con un reddito familiare non superiore ad una certa soglia.
Il “bonus bebè” e le incongruenze della Finanziaria. Ancora sul fronte del sostegno alla natalità, il maxi-emendamento alla Finanziaria 2006 ha introdotto il “bonus bebè” che sostituisce ed amplia lo spazio d’azione dell’assegno per il secondo figlio, concesso per ogni figlio successivo al primo nato dal 1° dicembre 2003 al 31 dicembre 2004. La misura una tantum, pari ad un assegno di mille euro, estesa anche ai figli adottati nello stesso periodo, non era stata infatti prorogata nella Legge finanziaria 2005. Una ricerca dell’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia ha rilevato che nell’anno di applicazione del provvedimento sono stati erogati 244.330 assegni, per un numero complessivo di 241.061 destinatari. La maggior parte degli assegni è stata erogata in Lombardia (il 15,2% del totale), seguita da Campania (13,9%) e Sicilia (11,1%). Il bonus bebè assorbirà 750 milioni delle risorse complessivamente destinate al Fondo per le famiglie per il 2006 (1,14 miliardi). Appare per lo meno inopportuna, soprattutto dopo i tagli effettuati, la quota del Fondo riservata ai genitori che decidano di mandare i figli alle scuole paritarie: 150 milioni, vale a dire tre volte di più rispetto alle risorse destinate agli asili nido. I restanti 200 milioni saranno destinati al sostegno delle famiglie con disabili e alla costituzione di un fondo per l’acquisto della prima casa da parte delle giovani coppie.
Non servono politiche una tantum, ma è necessario intervenire con strumenti in grado di assicurare un sostegno continuativo. Innanzitutto bisogna realizzare il rafforzamento dei servizi pubblici per l’infanzia, come richiesto nei Consigli di Lisbona e di Barcellona che hanno esortato i paesi membri dell’Unione a rimuovere i disincentivi alla presenza femminile nel mondo del lavoro e ad assicurare lo sviluppo della rete dei servizi per la prima infanzia soddisfacendo, entro il 2010, la domanda per almeno il 33% dei bambini sotto i 3 anni di età. Un traguardo lontanissimo da raggiungere per l’Italia in cui, attualmente, l’offerta pubblica di servizi copre appena il 7,4% della domanda, mentre lascia inaccolte il 32,7% delle richieste effettive.
“OUTLOOK” Uno sguardo fuori regione
Rubrica di scienze economiche e sociali
a cura di Rosario Palese
(ISSN 1722-3148 )