Tempo. Ad ogni generazione corrisponde solo il suo tempo: non si tratta di una frase ad effetto o di una dichiarazione tra il banale e il paradossale, bensì di una semplice e incontrovertibile considerazione, dalla quale scaturiscono una serie importante di riflessioni. Intanto è bene dire che non ci riferiamo ad un tempo generico, bensì ad un tempo storicamente definito per cui è inevitabile che ogni tempo veda la compresenza di più generazioni; inoltre, è altrettanto inevitabile che ogni singola generazione si trovi ad attraversare solo il suo tempo o, se si preferisce, la successione dei suoi tempi. L’orizzonte della temporalità resta il punto di riferimento stabile in qualsiasi valutazione delle tematiche socio-culturali. Uno dei tratti distintivi ed urgenti da considerare in un contesto di riflessione critica è proprio quello del rapporto tra storia, memoria e trasmissione culturale. Il rapporto tra passato, presente e futuro, connesso essenzialmente con la conservazione, la trasmissione e la progettualità culturale, rappresenta uno dei nodi più importanti delle teorie dell’antropologia culturale e della sociologia.
Corpo. «Il fenomeno del corpo è il più ricco, chiaro e comprensibile dei fenomeni: gli si deve riconoscere il primo posto sul piano del metodo, senza nulla stabilire circa il suo ultimo significato» [Nietzsche 1998]. È possibile pensare il corpo? La domanda non è retorica, come a prima vista potrebbe sembrare. Ci sono cose o fatti che si sottraggono al pensiero, non certo perché, in generale, sono impensabili, bensì perché il pensarli li rende più evanescenti di quanto non si sospetti. Il corpo appartiene di diritto a quegli elementi che sfidano la nostra riflessione. «(La vera difficoltà) appare già nella molteplicità, non dei significati del corpo, ma degli usi metaforici di questo termine che si può trovare dappertutto: tutto appare che formi un corpo e si vorrebbe che ogni gruppo, associazione, produzione, creazione, fosse assimilato a un’unità corporale. A tale duttilità del linguaggio fa riscontro in realtà una violenza: più si parla del corpo e meno esso esiste per se stesso».
Bisogna avere pazienza e fissare ostinatamente lo sguardo sull’oggetto del nostro riflettere, forse alla fine sarà possibile guardare il corpo. «Ogni corpo, anche quello più prossimo e familiare, può diventare questo corpo oscuro, questa testa senza nome che posa sul cuscino vicino alla nostra. E talvolta capita di trovarsi immobili, silenziosi, con gli occhi spalancati nel buio, attenti a non destare il corpo che ci sta accanto, affondato nella palude del sonno, increspata dagli aliti ora morbidi e profondi, ora aspri e rapidi del sogno. Infatti nessuno sa cosa il corpo può portare con sé‚ ritornando da quelle regioni, e quale sarà il suono della sua voce, e il duro imperio delle sue domande» [Rella 1984].
Macchina. È fin troppo facile dimostrare come ogni cultura scelga il proprio modello di corpo, sul piano strettamente estetico tutto ciò è immediatamente evidente: il bello e il brutto, ciò che attrae e ciò che respinge sono culturalmente condizionati e ogni gruppo umano, tanto sul piano storico che su quello geografico, ha fatto le proprie scelte e le ha codificate. I corpi devono assoggettarsi alla legge del gruppo, se lo fanno essi sono normali, in caso contrario essi mostrano la loro “inadeguatezza”. Per tutti quei corpi che, per infinite ragioni, si sottraggono alla norma il destino è quello della “illegalità”. Un tempo il corpo fu un microcosmo, luogo simbolico per eccellenza, gigantesca metafora dell’universo e delle sue leggi. L’avvento delle macchine ha radicalmente mutato il senso del corpo, esso resta sempre un potente serbatoio di simboli, ma questi sono mutati inevitabilmente, come pure è mutata la loro costellazione. È la macchina, con le sue parti e i suoi funzionamenti, a fornire ai corpi il nuovo linguaggio e le nuove espressioni. Il pensiero scientifico-tecnologico ha creato, contro le sue stesse speranze ed aspettative, nuovi miti ed ha imposto il proprio modello all’intero universo. I corpi si sono assoggettati alla nuova legge tecnologica, ed hanno scoperto il loro nuovo senso a partire dalla metafora delle macchine. Parlare del corpo, per indagarlo e conoscerlo, significa essenzialmente smontare una macchina. Nella riduzione dei corpi a macchine è racchiuso il sogno antichissimo di arrivare a possedere un corpo eterno, composto di parti incorruttibili, come la coscia d’oro di Pitagora-Zalmoxis o la sostituzione di organi corruttibili con atri incorruttibili nei riti di iniziazione sciamanica. Nella civiltà delle macchine, l’assenza delle parti corporee viene superata con la tecnica protesica: un meccanismo artificiale sostituisce la parte mancante del corpo. Il sogno dell’universo protesico è l’uomo-macchina perfetto, il robot. L’immaginario filmico ha già ampiamente anticipato il futuro dell’uomo robot, ha messo in scena macchine umane, o meglio: macchine dalle sembianze umane che aspirano a diventare “nuovi uomini”.
Cyborg. La narrativa fantascientifica prima e il cinema dopo ci hanno preparati ad accogliere un “essere nuovo”: il cyborg, un impasto di uomo e macchina. In ordine di tempo, si tratta dell’ultima frontiera delle manipolazioni corporee, una frontiera che si affaccia su una terra senza nome i cui confini sono perennemente in movimento, sospinti altrove dall’incalzare delle scoperte scientifiche e dal titanismo degli uomini che non si accontentano di scalare l’Olimpo e assediare gli déi, bensì vogliono, essi stessi, diventare déi.
Narciso. «Muscoli guizzanti, spalle squadrate, pelle elastica, glutei sodi, gambe pronte allo scatto. Costruito a dovere, ecco l’identikit dell’uomo che, senza eccessi di narcisismo, può contare su una muscolatura armoniosa, un corpo proporzionato, piacevole da vivere e da offrire nei rapporti sociali e in quelli d’amore». Così le riviste indicano il modello estetico del corpo: per essere “normali” non basta avere due braccia, due gambe e tutto il resto secondo natura, il corpo dev’essere lavorato, modellato come cera perché si adegui ai rigidi canoni che sanciscono “il bello e il gradevole”. Nessuna meraviglia per questo lavoro scultoreo, ogni cultura disegna il proprio corpo e impone la regola, generalmente implicita, cui gli uomini e le donne devono adeguarsi. Per cui ciò che è bello è anche buono e giusto, ciò che è brutto è anche cattivo e ingiusto. Si tratta di cogliere la cifra interpretativa del corpo, perché essa rappresenta anche una cifra del tempo. Ciò che colpisce nelle foto di uomini e donne che compaiono sulle riviste specializzate è la loro feroce omologazione, il tratto sempre identico che funge da filo conduttore. Il nostro tempo è segnato da un culto del corpo che, mai più di oggi, ha acquistato il valore di “specchio dell’anima”, luogo nel quale mostrarsi e riconoscersi. Ma perché un tale culto sia gratificante e non fonte d’angoscia, bisogna che somigli al modello, raggiunga la sua stessa perfezione, imiti le sue pose, si identifichi sin nei particolari. Chi non può far questo, e sono i più, sono condannati all’inferno dell’inadeguatezza, della distanza dall’archetipo.
Cibo. Appena superata la fase della pura sopravvivenza, ovvero cercare ciò che è commestibile al fine di evitare la morte per fame, l’uomo carica il cibo di un complicato sistema simbolico. A tal punto che un pranzo può essere antropologicamente decifrato e fornirci un numero incredibile di informazioni sui commensali e la loro cultura. Qualcuno si è spinto ad affermare che le ragioni profonde che disciplinano il cibo vanno cercate “nelle strutture mentali di un popolo”; altri che i cibi sono “buoni da pensare” o “cattivi da pensare”; altri ancora sottolineano gli aspetti pratici della nutrizione: “il cibo deve nutrire lo stomaco collettivo prima di poter alimentare la mentalità collettiva”. Nel nostro caso e in questo contesto ci basta sapere che nutrimento e pensiero sono tanto intimamente intrecciati che è possibile parlare di una vera e propria “filosofia in cucina” ed affermare che “cucinare un piatto è come scrivere un saggio e viceversa scrivere un saggio è come preparare un piatto”. Ma di quale cibo stiamo parlando oggigiorno? Non è certo azzardato affermare che ci troviamo di fronte ad una cultura alimentare schizofrenica: da una parte i cuochi sono diventati veri e propri filosofi che discettano di materie prime, di legami con il territorio, di sapienti alchimie di cottura, di vere e proprie scenografie per allestire un piatto. Dall’altra il cibo precotto, le patatine già fritte, i primi già pronti, le zuppe di un casale che non esiste, i biscotti di un mulino sempre bianco. Da una parte il cibo della lentezza e dall’altra quello della velocità: vere e proprie filosofie di vita o abiti sociali che ognuno indossa per scelta o per necessità. Si pensi alla cosiddetta “pausa pranzo”, per definizione consumata velocemente in luoghi superaffollati, infarcita di tramezzini e primi piatti riscaldati al microonde: cibo senza storia, senza sapore, senza sentimenti.
Gioco. La vita simulata dei videogiochi aspira a sostituirsi alla vita reale: il confine tra reale e virtuale è sempre più labile e sempre più facilmente attraversabile. Un mondo parallelo dove tutto è possibile e che promette di non stabilire limiti alla macchina del desiderio. Ci sono giochi che offrono vite nuove, perfettamente gestibili e perfettamente smontabili come una costruzione di lego. Sono giochi che coinvolgono milioni di giocatori, quotidianamente impegnati a fare e disfare storie di vita. “God games”, giocare ad essere dio, questo è il nome di questi giochi di simulazione totale. Vivere in mondi paralleli con vite parallele, in particolare sono le donne le giocatrici più appassionate e coinvolte. Questa vita, quella del “mondo reale”, dopo gli allenamenti dell’infanzia, è pronta a sdoppiarsi in un altro mondo, ad altri infiniti mondi: in una processione inesauribile di vite possibili o di maschere da indossare nelle più disparate occasioni. Quante vite parallele è possibile giocare prima che appaia la domanda se siamo “uno, nessuno o centomila”?
Io. Se il corpo è assoggettato a regole ferree, dell’anima non è più possibile parlare: arcaica sopravvivenza linguistica di un mondo irrimediabilmente passato e fastidiosamente inutile nell’economia dei soggetti. Resta l’io, questo comodo strumento che, senza nulla dire, copre l’esistenza di ognuno, lo rassicura circa la propria esistenza e la propria identità. Ad un patto però che non lo si interroghi, che non si provi a scandagliarlo, a sondarne la consistenza e la profondità. Si ha la tendenza riduttiva a considerare il rapporto identità/differenza solo in senso interrazziale ed interculturale. È vero che recentemente il rapporto dialettico tra i due poli sia stato inteso quasi esclusivamente in termini interetnici, è solo una ulteriore conferma che su tale questione ci si è confrontati in una situazione sociale di emergenza, dove la differenza veniva immediatamente colta nella presenza straniera e nella sua irriducibile alterità. L’identità diventa una maschera e la differenza lo specchio inquietante della deformità del nostro essere.
Ethos. Viviamo in una società e in un tempo in cui i tradizionali punti di riferimento sono definitivamente saltati, e non si profila niente di nuovo che sia capace di sostituirli. Non si tratta di fare del catastrofismo, bensì di cominciare a guardare con occhio disincantato il mondo che ci circonda. È tempo di liquidare ogni trionfalismo ed ogni retorica volta a magnificare l’esistente perché, ci piaccia o no, questa è una società profondamente segnata dalla sofferenza, a dispetto della ricchezza e dell’abbondanza, e sostanzialmente incapace di ancorarsi ad un’etica del sociale. Nonostante ciò, c’è un bisogno diffuso di senso e d’identità, un bisogno di sfondare la pellicola delle immagini e acquisire una diversa consapevolezza della propria esistenza individuale e collettiva. In questa direzione vanno molti e diversi segnali che, seppur di difficile interpretazione, si prestano ad essere letti in un quadro dagli ampi riferimenti. “L’Io esiste”, proclamano i cartelloni, ed è vero, ma si dimenticano di aggiungere che l’Io di cui parlano è sempre meno una identità e sempre più un Io “patologico”, un’ipertrofia dell’anima che nel momento in cui annuncia al mondo la propria forza denuncia anche la sua spaventosa inconsistenza. L’io si trasforma in un attore che quotidianamente deve andare in scena: «Il look non è vestirsi non importa come, ma come si vuole. L’individuo deve, come un attore in scena, entrare nelle vesti del personaggio che vuole rappresentare. Se vuole essere accettato dalla tribù o dalla rete, dovrà sottomettersi ai suoi rituali, ne adotterà gli stili d’abbigliamento, il tono, il linguaggio ed i segni caratteristici».
Coraggio. In un’epoca confusa quale quella attuale, lacerata dalle guerre, dalla furia cieca del terrorismo, dai disastri naturali, da etnocidi dimenticati, da uomini sgozzati in diretta televisiva, è la violenza il mistero da penetrare: «Come un destino la violenza, per noi, ma anche segno di contraddizione. Se tutto può essere oggetto di violenza, e di fatto lo è, immancabilmente; se i contenuti le sono indifferenti e la futilità dell’occasione piuttosto che placarla l’alimenta, come non riconoscerle un suo primato metafisico?»
Davanti ai bagliori delle armi, noi ribadiamo la “via del cuore”, aspra come una guerra ma preziosa come la vita; noi riprendiamo la via della non-violenza.