Il primo elemento preso in considerazione come generatore di nuovi e più intensi bisogni sanitari è quello demografico. Nella dinamica demografica, infatti, risiede l’origine del fenomeno dell’invecchiamento della popolazione. In se stesso e senza approfondimenti si tratta di un fenomeno positivo, che rappresenta un successo della medicina, dell’igiene pubblica, delle scienze dell’alimentazione. Tuttavia, esaminando tale fenomeno in tutte le sue componenti ne emergono alcune che non possono proprio essere considerate, allo stato delle cose, motivo di soddisfazione. In primo luogo il dato dell’invecchiamento della popolazione nasconde in sé quello della qualità della vita che l’avanzare degli anni, le diminuite energie fisiche e psichiche, la perduta capacità di guadagno, l’erosione del valore delle pensioni e il disgregamento delle famiglie, riservano alle persone che superano il limite dei sessantacinque anni, a partire dal quale si calcola la vecchiaia. L’invecchiamento della popolazione dipende, inoltre, anche dalla diminuzione delle nascite per cui la composizione della popolazione tende a contrarsi con riferimento ai primi anni di vita mentre cresce sempre più, rispetto al passato, nella parte superiore dell’albero compositivo.
La popolazione italiana, che nel 2003 ammontava a 57.321.070 unità, si distribuisce per classi d’età e per regione. L’indice di vecchiaia – ossia il rapporto percentuale fra il numero degli anziani con più di 64 anni e quello dei giovani con meno di 14 anni – e l’indice di dipendenza economica – ovvero il rapporto percentuale fra la popolazione in età non lavorativa e la popolazione “attiva” – registrano rispettivamente, a livello nazionale, un valore di 135,4 “anziani” ogni 100 “giovani” e 50,2 persone “non attive” ogni 100 persone “attive”. A parte la preoccupazione che i dati citati suscitano per le implicazioni che sottendono, anche la variabilità a livello regionale solleva riflessioni: in Liguria vi sono 240 anziani ogni 100 giovani, mentre in Campania l’indice di vecchiaia pari a 81,9 dimostra che la popolazione è sensibilmente più giovane, per effetto della maggiore natalità. Sono facilmente intuibili le differenze di strategia assistenziale che si debbono approntare nelle due regioni. Più uniforme è la situazione territoriale per quel che concerne l’indice di dipendenza economica. Tuttavia l’andamento dei due indici dal 1995 al 2003, si evidenzia un incremento della popolazione anziana e come essa dipenda in termini economici da un numero di persone attive proporzionalmente sempre minore. Confrontando il nostro Paese con gli altri Stati dell’Unione europea emerge che esso è uno dei più “vecchi”, insieme a Spagna e Germania. Un altro dato interessante fornito dall’analisi demografica è costituito dal contributo fornito all’allungamento della vita dalla diminuzione della mortalità infantile, sia nel primo mese di vita (tasso di mortalità neonatale), sia nel primo anno di vita (tasso di mortalità infantile). I dati di raffronto forniscono l’immagine delle differenze anche consistenti tra regioni meridionali e insulari e il resto d’Italia per quanto concerne la mortalità infantile.
Anche sotto questo profilo l’indicazione che ne consegue è quella di adottare strategie assistenziali differenziate, cioè livelli compatibili d’assistenza localmente determinati, in rapporto all’entità dei fenomeni da contrastare. Nel caso suddetto le iniziative per abbassare il tasso di mortalità neonatale e infantile nelle regioni dove esso è ancora elevato rappresentano priorità significative che, nell’inevitabile rispetto del tetto di spesa, debbono indurre i decisori politici locali a indicare dove realizzare le economie per rispettare le priorità. Ciò significa il passaggio da livelli essenziali d’assistenza, genericamente e teoricamente uniformi in tutto il Paese, a livelli compatibili e locali d’assistenza, espressamente dichiarati e motivati, che costituiscono un riferimento concreto per i cittadini, per gli operatori, per il controllo sociale e per i Nuclei di valutazione che debbono certificarne l’avvenuto rispetto. Anche le dotazioni di consultori familiari, i reparti di ostetricia e ginecologia, le terapie intensive neonatale dovranno essere potenziati in queste regioni, perché dalla loro efficienza dipende il successo dell’abbattimento dei tassi di mortalità infantile. Lo stesso si dica, a dimensione nazionale, per i servizi agli anziani, in termini di strutture residenziali e semiresidenziali, di servizi di assistenza domiciliare integrata e di servizi di riabilitazione. Il panorama dell’esistente fornisce e mette in luce le disparità tra regioni. I dati demografici mostrano che il problema è destinato ad aggravarsi per l’allungamento della vita, per il numero crescente di soggetti da tutelare, per le esigenze delle disabilità che accompagnano il declino delle energie con il procedere degli anni, per l’affievolimento dei vincoli familiari che aggiungono ai disturbi fisici spesso anche quelli della solitudine e dell’abbandono. In questo senso, si può affermare che esistono due situazioni tipiche di difformità assistenziale, non legate programmaticamente a diversità epidemiologiche sottostanti – cioè ad intenzionali differenziazioni assistenziali in presenza di bisogni diversi, il che sarebbe corretto ed apprezzabile – bensì provocate dalla disapplicazione di pur valide affermazioni di principio dei corrispondenti livelli essenziali d’assistenza, centralmente decisi con l’assenso della Conferenza Stato-Regioni, ma dei quali all’atto pratico poco si è tenuto conto.
Epidemiologia e cause di morte. Oltre alla composizione demografica della popolazione, l’altro fattore che influisce sulle condizioni di salute della popolazione e, quindi, sul conseguente stato di percezione soggettiva di ben-essere o di mal-essere che le persone hanno di se stesse, è rappresentato dall’epidemiologia, ossia dalle tipologie di malattie che prevalgono nelle diverse zone del Paese e dal loro grado di gravità. Non esistono rilevazioni generalizzate al riguardo, essendo le diagnosi di malattia coperte dal riserbo della legge sulla privacy. Vi è però un indicatore indiretto, oggettivato in un documento ufficiale che deve essere redatto obbligatoriamente (il certificato di morte), dal quale è possibile risalire alle principali cause di morte. Nel complesso nazionale, sono le malattie cardiocircolatorie la principale causa di morte (42,3%). In particolare da 70 anni in su essa rappresenta quasi la metà delle cause totali di morte. Al secondo posto, con il 29,5% delle morti totali, si collocano i tumori. Nella fascia d’età tra 45 e 69 anni essi rappresentano la causa di morte per il 49,4% delle morti totali. Nella fascia d’età più giovane, tra 15 e 29 anni, invece, sono i traumatismi (incidenti stradali) e gli avvelenamenti (overdose, suicidi) la causa principale di morte. I dati relativi al tasso di mortalità per le malattie del sistema circolatorio e per i tumori, distinto per regioni e per sesso, conferma che tali malattie pongono problemi di differente ampiezza e intensità nelle diverse zone del Paese. Fattore questo che esprime aspettative assistenziali di prioritario rilievo, dato l’esito infausto legato alle stesse patologie, ma di differente intensità nelle regioni.
Patologie ed esigenze assistenziali legate al fattore età. La tutela della salute in ambito materno-infantile rappresenta un impegno importante perché da esso dipendono il livello di salute di una parte significativa della popolazione, attuale e futura, e perché la tendenza in atto a non procreare o a ritardare l’età della prima gravidanza nelle donne sta alterando il bilancio demografico tra nascite e morti, con le conseguenze prima accennate in termini di invecchiamento della popolazione e di innalzamento dell’indice di dipendenza, che si ripercuotono negativamente sul sistema previdenziale e gettano ombre sul futuro pensionistico delle nuove generazioni. Secondo quanto è previsto dai LEA, il Servizio sanitario nazionale è impegnato a garantire l’assistenza sanitaria e socio-sanitaria alle donne, alle coppie e alle famiglie a tutela della maternità, per la procreazione responsabile e l’interruzione della gravidanza. Tuttavia la situazione delle strutture e dei servizi, riguardanti aspetti di rilievo del problema, è caratterizzata da notevoli differenze tra le regioni. Le attività a favore della maternità responsabile e a tutela dei nascituri si esplicano soprattutto nei consultori familiari. L’attenzione su questo aspetto della legge 194 si è accresciuta di recente con la presa di posizione della Conferenza episcopale italiana che ha richiesto una maggiore presenza nei consultori, anche di volontari, per evitare che queste strutture territoriali siano utilizzate prevalentemente per l’interruzione delle gravidanze e non per agevolare una maternità assistita e serena, come era nelle intenzioni del legislatore nazionale. I consultori sono circa 2.500, con una distribuzione territoriale, però, molto diversificata che va da 0,19 consultori per 20.000 abitanti nel Molise – mentre la legge n. 34/96 ne prevedeva uno ogni 20.000 abitanti – a 2,98 della Valle d’Aosta. Per quanto concerne le strutture ospedaliere, la media nazionale prevede una dotazione di 7,2 posti letto nei reparti di ostetricia e ginecologia ogni 10.000 donne con età maggiore di 14 anni. Anche in questo caso però l’offerta varia da regione a regione: nelle regioni centrali e settentrionali, ad eccezione delle Province autonome di Trento e Bolzano, si registrano valori inferiori alla media nazionale. Per quanto riguarda l’assistenza ai neonati patologici, nel 2003 la rete ospedaliera disponeva di 2.159 posti letto in reparti di neonatologia e di 1.152 posti letto in unità operative di terapia intensiva neonatale. L’analisi prende in cinsiderazione i dati della distribuzione per regione degli indici di posti letto di neonatologia e di terapia intensiva neonatale per 1.000 nati vivi, e il numero di incubatrici. Analizzando tali indicatori, si osserva una notevole diversità di situazioni che, tuttavia, diminuisce considerando cumulativamente i due valori. In altri termini i dati sono l’espressione di strategie diversificate nell’assistenza ai neonati patologici. Un altro dato che solleva interrogativi è quello della distribuzione dei parti, in quantità e per tipologia di parto, tra le strutture pubbliche, le case di cura private accreditate e quelle private operanti sul libero mercato. Il ricorso al parto cesareo è pari al 50% dei parti normali nelle strutture pubbliche, mentre supera i parti normali nelle case di cura accreditate ed è addirittura superiore di una volta e mezzo nelle strutture private non accreditate.
L’assistenza geriatrica e la tutela della popolazione anziana rappresentano un altro impegno importante. Come si è visto in precedenza la popolazione italiana è sempre più vecchia e questa nuova condizione demografica determina un aumento quantitativo, ma anche una diversa specificazione di prestazioni assistenziali, sia dal punto di vista ospedaliero che da quello territoriale. Per quanto riguarda i presidi ospedalieri i dati indicano la disponibilità di posti letto, sia di degenza ordinaria che di day hospital, in reparti di geriatria, con il relativo tasso di utilizzo. Anche a questo riguardo la variabilità territoriale è molto elevata. Infatti per le degenze ordinarie si passa dall’eccesso di 226,2 posti letto per 100.000 anziani in Valle d’Aosta all’esiguità degli 11,0 posti letto per 1.000 abitanti della Liguria, che pure è la regione con il maggior numero di anziani in percentuale sulla popolazione totale. Il tasso di utilizzo dei posti letto di geriatria è elevato: infatti a livello nazionale raggiunge il 95% e in alcune regioni supera il 100% (resta da chiedersi come ciò possa accadere a meno di non ipotizzare posti letto a castello o con due allettati contemporaneamente). Il dato del Molise solleva serie perplessità perché significa che in qualche presidio vi è quasi il 50 % di posti letto fantasma o che vengono usati per la geriatria posti letto di altre discipline, molto meno frequentate. In riferimento all’offerta extraospedaliera per l’assistenza agli anziani in strutture residenziali o semiresidenziali, anche in questo caso le differenze tra regioni sono marcate.
Il segmento impercepito della neopopolazione immigrata, ovvero la ventiduesima Regione d’Italia. Negli ultimi anni anche l’Italia è stata interessata da un massiccio fenomeno di immigrazione, soprattutto da parte di cittadini dei Paesi in via di sviluppo. Le condizioni di vita particolari di questa nuova popolazione, formata in parte anche da clandestini non registrati, sovente relegata ai margini dei centri urbani, nelle periferie degradate, e la struttura demografica diversa da quella del nostro Paese, con tassi di fertilità e di natalità molto più marcati di quelli riguardanti la popolazione italiana, esprimono una domanda di prestazioni sanitarie specifica che merita un’attenzione particolare. Secondo le elaborazioni Istat sui dati del Ministero dell’Interno, all’1.1.2003 i cittadini stranieri regolarmente presenti, muniti cioè di un valido permesso di soggiorno, sono oltre un milione e mezzo. Stimando in circa 300mila i minorenni, per i quali non è previsto il rilascio di un permesso di soggiorno individuale, in quanto registrati su quello dell’adulto che li dichiara a proprio carico, la popolazione straniera regolarmente presente in Italia si può quantificare in 1.800.000 unità, l’equivalente di una regione come la Sardegna o la Liguria. I dati evidenziano che dal 1992 al 2003 la popolazione straniera, oltre ad essersi notevolmente incrementata, ha anche registrato profondi cambiamenti nelle sue caratteristiche demografiche. Infatti si è assistito ad un progressivo aumento delle donne e degli individui coniugati; rispetto al passato, inoltre, risultano sempre più consistenti le presenze di cittadini provenienti dall’Est europeo rispetto a quelle provenienti dall’Africa del Nord e dall’Estremo Oriente. Il Servizio sanitario si è fatto carico dell’assistenza sanitaria di ricovero a questa nuova popolazione presente sul territorio nazionale. Due informazioni interessanti, al fine di comprendere il tipo di richieste che questa neo-popolazione immigrata porrà, in misura crescente, al servizio sanitario, sono rappresentate dall’analisi dei ricoveri per fasce d’età e dalle patologie che hanno causato il ricovero, desunte dalle diagnosi di uscita dall’ospedale. La seconda informazione, di notevole interesse sanitario, è costituita dalle diagnosi di dimissione, per sesso. A differenza di quanto è stato registrato per la popolazione italiana esaminando le morti per causa, le patologie prevalenti tra i cittadini stranieri immigrati maschi sono le malattie dell’apparato digerente e dell’apparato respiratorio, mentre sono le complicazioni della gravidanza e del parto quelle prevalenti tra le immigrate donne. Il fattore della popolazione immigrata rappresenta, dunque, un ulteriore elemento di differenziazione di bisogni sanitari e coerentemente di risposte assistenziali da parte delle Regioni e delle Asl che vi dovranno fare fronte.

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