La riforma dell’articolo 119 della Costituzione e l’impatto finanziario sugli Enti locali. Nell’arco dell’ultimo ventennio si è passati dalla finanza derivata ad un sistema orientato verso l’autonomia di Regioni e Comuni; in assenza di un modello costituzionale di riparto delle competenze, la Corte Costituzionale rappresentava e rappresenta tutt’oggi l’unico organismo capace di fare chiarezza, in attesa che intervengano le normali procedure legislative.
Il primo cambiamento verso il nuovo modello di federalismo fiscale si ravvisa nell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 502/92 emanato in attuazione della legge n. 421/92 di delega al Governo della razionalizzazione del Sistema Sanitario Nazionale oltre che del riordino della finanza territoriale.
I primi effetti riguardano una ripartizione proporzionale delle risorse alle Regioni in base al numero degli iscritti al SSN, e l’introduzione dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap). Di minore impatto, ma pur sempre frutto del nuovo modello, sono le norme che trasferiscono alle Regioni le tasse automobilistiche e l’imposta sull’erogazione di gas e energia elettrica per usi domestici, quella sulla benzina, la tassa sul diritto allo studio e il tributo speciale sul deposito dei rifiuti in discarica.
Anche i Comuni vedono aumentare la loro capacità impositiva, attraverso la possibilità di modellare l’aliquota Ici secondo i bisogni ma entro i limiti fissati dalla legge statale. È con il decreto legislativo 56/2000 che le Regioni e gli Enti locali acquisiscono un maggior grado di autonomia, anche se la Finanziaria del 1999 aveva già reso i Comuni molto più autonomi attraverso l’addizionale Irpef, che sostituiva l’addizionale sull’Irap. Molti sono i trasferimenti soppressi, che però vengono compensati da aumenti nelle addizionali e compartecipazioni ai tributi erariali, e da un aumento della compartecipazione all’accisa sulle benzine. Inoltre, con il D.lgs. 56/2000, viene istituito un fondo perequativo nazionale a fini di solidarietà interregionale, finanziato con parte della quota di compartecipazione all’Iva e ripartito sulla base di criteri che tengono conto di vari fattori. La riforma attuata con questo decreto legislativo prevede due fasi: la prima, che si concluderà nel 2012, si riferisce alla partecipazione al fondo perequativo da parte di ciascuna Regione calcolata sia in base alla spesa storica, cioè ai trasferimenti soppressi, sia in base ad altri parametri; la seconda fase, che partirà nel 2013, invece, non si baserà più sulla spesa storica Secondo la Corte dei Conti, l’attuazione del decreto ha presentato una serie di problemi per cui la tempistica prevista, sino ad oggi, è stata disattesa e al momento attuale, il decreto legislativo risulta pienamente attuato soltanto per il 2001.
È in questo contesto che entra in vigore la riforma costituzionale, allo scopo di rendere il federalismo preesistente, definito “a Costituzione invariata”, più efficiente nell’allocazione delle risorse pubbliche.
Nella complessa architettura delle competenze legislative realizzata dai nuovi articoli della Carta Costituzionale, assume un ruolo centrale nell’analisi dell’impatto finanziario della riforma, l’articolo 119 della Costituzione.
Una stima quantitativa della “riforma delle riforme”. È difficile stabilire e valutare il processo di decentramento amministrativo, processo ampio, connotato da forti implicazioni politiche, che ha introdotto notevoli innovazioni sul piano istituzionale, fiscale ed amministrativo, dalle quali scaturiranno inevitabilmente profonde conseguenze nell’assetto dei rapporti tra Stato ed Autonomie locali al termine della fase di lunga transizione al federalismo che stiamo vivendo. In ordine di tempo, non è soltanto l’articolo 119 della Costituzione a creare delle complicazioni. Come già rilevato, precedente all’approvazione del Titolo V riformato, il decreto legislativo n. 56 del 2000, rappresenta un atto con il quale furono introdotte le basi dell’attuale sistema di federalismo fiscale, improntato ad una maggiore autonomia finanziaria per Regioni ed Enti locali a fronte del ridimensionamento significativo dei trasferimenti erariali.
Inoltre, bisogna analizzare l’attuale sistema anche alla luce della legge n. 131 del 2003, che legifera in materia di trasferimento di risorse finanziarie e personale legato alle previsioni degli articoli 117 e 118 della Costituzione riformata, che però non sembra ancora avviato, sebbene abbia come scopo l’attuazione della legge costituzionale di riforma. In particolare, l’articolo 4 della legge “La Loggia” definisce espressamente l’attuazione della potestà normativa degli Enti locali, attraverso la potestà statutaria e regolamentare e disciplina anche delle materie già presenti nel precedente decreto legislativo 267/2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali), chiarendone il significato e ampliandone la portata.
Infine, un ulteriore elemento da valutare è rappresentato dal disegno di legge costituzionale (A.S. 2544-B), recante modifiche alla parte II della Costituzione, ad oggi in discussione alle Camere. L’Isae ed un interessante studio di Bordignon-Cerniglia delineano degli scenari proponendo delle stime sulla spesa decentrata.
Regionalizzazione dei principali tributi: dai dati appare chiaro che le quote maggiori si riscontrano nelle regioni del Nord e del Centro del Paese. La Lombardia, con valore massimo pro capite pari a 6.368,75 euro, conta su un gettito complessivo pari al 9,3% del totale, mentre al lato opposto, la Calabria registra il minimo: 2.824,13 euro, ossia il 4,1%. Anche in relazione al principale tributo, l’Irpef, si rileva che la regione più ricca è la Lombardia con un valore pro capite di 2.871,22 euro (il 9,9% del totale), mentre la Calabria appare come la regione più povera, con una sperequazione di 1.880,23 euro (il valore pro capite calabrese ammonta a 990,99 euro corrispondenti al 3,4% del totale).
Due sono le ipotesi principali elaborate: che il finanziamento della nuova spesa assegnata agli Enti territoriali avvenga attribuendo a ciascuna Regione un’aliquota differenziata di compartecipazione ai contributi erariali, oppure assegnando ad esse un’aliquota uniforme. La prima ipotesi delinea una situazione in cui alla Lombardia verrebbe attribuita un’aliquota del 19,7%, per coprire la spesa decentrata di 11.334 euro, mentre la Basilicata avrebbe bisogno di un’aliquota dell’88,8% per coprire una spesa di 1.556 euro. L’aliquota differenziata, dunque, trasferisce più risorse alle Regioni meno ricche oppure con maggiore spesa decentrata, rispettando il principio costituzionale dal quale nasce il fondo perequativo.
La seconda ipotesi, con aliquota uniforme a tutti i tributi data dal rapporto fra il totale della spesa decentrata per le RSO (Regioni a Statuto Ordinario) e il totale del gettito dei principali tributi, prevede che il fondo per la perequazione sia pari a 17.242 milioni di euro. Il fondo, dato dalla sommatoria dei residui fiscali positivi di Lombardia (9.252 milioni di euro), Emilia Romagna (2.694 milioni di euro), Veneto (2.528 milioni di euro), Piemonte (2.157 milioni di euro) e Toscana (610 milioni di euro) andrebbe ripartito in misura percentuale su tutte le Regioni che sono in deficit, ossia: Campania (-7.661 milioni di euro), Puglia (-3.514 milioni di euro), Calabria (-3.009 milioni di euro), e in misura inferiore anche Basilicata (-928 milioni di euro), Abruzzo (-712 milioni di euro), Umbria (-655 milioni di euro), Molise (-381 milioni di euro), Liguria (-254 milioni di euro), Lazio (-200 milioni di euro) e Marche (-42 milioni di euro). Il residuo fiscale pro capite è un indicatore in grado di esplicare in maniera concreta quale dovrebbe essere il contributo di ogni cittadino al fondo di perequazione. Dall’ipotesi formulata, risulta che, ad esempio, i lombardi dovrebbero trasferire alle Regioni meno ricche una quota pro capite di 1.027 euro, mentre i lucani riceverebbero in media 1.525 euro. Secondo le ultime stime Isae, analizzando la nuova spesa finale devoluta alle Amministrazioni locali, ossia le spese dirette che le Regioni, i Comuni, le Province e gli altri Enti locali sono chiamate a sostenere dopo la riforma, nel periodo fra il 1999 ed il 2003 si evidenza come l’andamento sia complessivamente in crescita, con un’incidenza sul Pil che nel 2003 raggiunge il 5,2%, dopo il calo registrato fra il 2001 e il 2002, passando dal 5% al 4,7%. Considerando il quinquennio nel suo complesso, si evidenza una crescita della spesa per le Regioni a statuto ordinario di 14.444 milioni di euro (passando da 44.025 milioni di euro nel 1999 a 58.469 milioni di euro nel 2003). L’analisi dei dati regionali rileva che nel 2003 l’incidenza della spesa finale è più elevata in Calabria (11,47%), in Basilicata (10,14%) e in Campania (9,94%), mentre appare decisamente più contenuta nelle regioni più ricche: Emilia Romagna (3,31%), Lombardia (3,35%), Piemonte (3,85%) e Veneto (3,99%). L’andamento della spesa complessiva sostenuta dalle Amministrazioni a decentramento avvenuto (calcolata come incidenza rispetto al Pil) è in linea con la nuova spesa finale devoluta, segnando una dinamica in crescita ad eccezione del periodo fra il 2001 e il 2002. Dal confronto fra le due tipologie di spesa, si evidenzia come la nuova spesa da decentrare registri un trend crescente più elevato di quello della spesa totale. Nel primo caso dal 1999 al 2003 la variazione percentuale è pari al 32,8%, mentre nel secondo il valore in crescita si attesta al 27,1% (in valori assoluti, la spesa totale passa da 173.050 milioni di euro del 1999 a 220.030 milioni di euro nel 2003).
Dall’analisi dei dati a livello regionale si può immediatamente notare come, in termini di differenza fra l’incidenza del Pil del primo anno considerato rispetto all’ultimo, le Regioni a segnare i maggiori incrementi di spesa siano soprattutto quelle del Mezzogiorno. In testa la Calabria, con un aumento di quasi 6 punti percentuali; seguono la Basilicata (3,6 punti) e la Puglia (3 punti). Infine è il Piemonte a segnare uno scarto di 2 punti percentuali, il valore più elevato del Centro-Nord. Al contrario, le differenze più contenute si registrano in Liguria e nelle Marche, con 0,4 punti percentuali, nel Lazio (0,6 punti) e in Abruzzo (0,7 punti).
Passando all’analisi delle principali imposte delle Amministrazioni che andrebbero a coprire le spese sostenute, si registrano tassi di variazione positivi in tutta Italia, ma che in media per le Regioni a statuto ordinario diminuiscono durante i cinque anni considerati, passando dall’8,9% al 5,1%. Nell’ultimo arco temporale, fra il 2002 e il 2003 la variazione più consistente si riferisce al gettito delle Amministrazioni locali della Calabria (6,9%), mentre l’incremento meno significativo si registra in Lombardia (+3,6%).
Inoltre, vale la pena notare che, come riscontrato per le spese, anche per le imposte, si rileva in media un andamento crescente in tutto il periodo considerato salvo che per il periodo fra il 2001 ed il 2002.
Il nuovo testo costituzionale garantisce agli Enti decentrati che le varie forme di finanziamento riconosciute (tributi propri, compartecipazioni e trasferimenti perequativi) consentiranno di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. Questo significa che nel momento del passaggio di competenze a livello sub-nazionale dovrebbe essere garantita l’invarianza delle risorse rispetto ai livelli di spesa statale precedenti alla riforma. Dallo scenario predisposto dall’Isae riguardo quelle che dovrebbero essere le entrate delle Amministrazioni locali a decentramento avvenuto, si rileva come l’insieme delle “imposte da decentrare” presentino un trend di crescita non sufficiente a controbilanciare l’andamento della spesa stimata. Secondo le stime effettuate dall’istituto di ricerca, nell’ipotesi di devoluzione totale dell’imposizione tributaria, rispetto alla situazione ante-decentramento l’incremento delle entrate degli Enti locali, nel 2003, sarebbe pari al 67%; un valore significativo, rispetto all’incremento della spesa, stimato al 35%, ma non proporzionato al fabbisogno in termini assoluti di copertura delle uscite degli Enti locali, poiché se le imposte complessive sarebbero di circa 45 miliardi, le spese si attesterebbero a circa 69 miliardi, con un fondo considerevole, pari a 24 miliardi di euro.
Gli effetti del federalismo fiscale nella Legge finanziaria 2006. A rendere ancora più difficoltoso il cammino della devoluzione finanziaria è il rispetto dei vincoli imposti dal Patto di Stabilità Interno ai quali sono sottoposti gli Enti decentrati: è in questa direzione che vanno i provvedimenti “taglia spese” contenuti nelle ultime Leggi finanziarie. Sulla base della bozza della nuova Legge finanziaria 2006, il risparmio “forzato”, ai fini della realizzazione degli obiettivi della finanza pubblica per l’anno prossimo, dovrebbe interessare le spese correnti degli Enti locali, ad esclusione delle spese per il personale e le spese sociali, che potrebbero subire un taglio del 6,7%.
L’Eurispes, nel tentativo di tracciare una situazione prospettica sulle possibili conseguenze che una riduzione di parte della spesa corrente avrebbe sui bilanci delle Amministrazioni comunali, ha provato a stimare, partendo dall’analisi del quadro finanziario dei Comuni, in che misura tale riduzione possa incidere sul livello di pressione tributaria. In altri termini, si è cercato di stimare l’aumento della tassazione locale necessaria affinché gli Enti comunali possano “pareggiare” i bilanci per continuare a garantire e/o migliorare il livello dei servizi ai cittadini. Il taglio del 6,7% su parte delle spese correnti delle Amministrazioni comunali delle Regioni a statuto ordinario previsto dal nuovo disegno di Legge finanziaria ammonterebbe a quasi 1.400 milioni di euro. Un “risparmio forzato” ottenuto dalle spese correnti di ogni singola Regione al netto della spesa sociale e della spesa per il personale. Partendo da una spesa corrente totale di oltre 38mila milioni di euro decurtata sia della spesa per il personale (12.212 milioni di euro) sia della spesa di carattere sociale quale risulta dalla classificazione per funzioni dei bilanci comunali (5.310 milioni di euro), si arriva ad una spesa corrente di 20.483 milioni di euro alla quale si è applicato un taglio del 6,7% pari a 1.370 milioni di euro. Nelle Regioni del Nord è concentrato il maggior “risparmio forzato” pari a 673 milioni di euro, seguite da quelle del Centro con 362 milioni di euro e dal Sud con 335 milioni di euro.
Dall’analisi dei dati emerge che a subire il maggiore contraccolpo, in termini di incremento delle entrate tributarie, sarebbero le Amministrazioni comunali delle Regioni del Mezzogiorno (8,6%), le quali godono di una minore autonomia finanziaria e impositiva. A seguire gli Enti comunali del Centro con un +6,5% e del Nord con un aumento del 5,9%. In particolare, l’inasprimento della tassazione locale riguarderebbe principalmente i Comuni del Molise con il 10,6%, quelli della Calabria (10,2%), della Basilicata (9,2%) e della Campania (8,3%). Di contro, si ipotizza una minore pressione fiscale soprattutto nei Comuni delle Regioni del Nord che presentano maggiori livelli di autonomia. Valori al di sotto della media delle Regioni a statuto ordinario (6,6%) si registrano, infatti, in Emilia Romagna, in cui si prevede un aumento del gettito fiscale pari al 4,4%, in Lombardia, con un incremento potenziale dell’imposizione pari al 5,4% e a seguire: Liguria e Veneto (5,6%) e Toscana (5,9%).

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