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[ ANNO II – AGOSTO 2006 – NUMERO 47 ] LA CONDIZIONE FEMMINILE TRA LAVORO E MATERNITÀ

Italia: fanalino di coda. Secondo il “Gender Gap Index” elaborato dal World Economic Forum (WEF), l’Italia si colloca, in tema di parità tra uomini e donne, al 45° posto, ben lontana da paesi come Canada (7°), Inghilterra (8°) o Germania (9°), e dietro Lettonia, Zimbabwe, Bangladesh o Malesia. Per analizzare le disparità di trattamento tra uomini e donne in 58 paesi del mondo, il Wef ha preso in considerazione cinque parametri: retribuzione, accesso al lavoro, partecipazione alla politica, istruzione e qualità della vita. La classifica vede al primo posto la Svezia, seguita da Islanda, Norvegia, Danimarca e Finlandia.
In Italia una forte carenza di servizi per l’infanzia si accompagna al permanere di una cultura che, a trent’anni dall’inizio del processo di femminilizzazione del mercato del lavoro, stenta ancora a riconoscere il mutato ruolo della donna in seno alla famiglia e alla società, e che è ben lontana dal fornire effettiva sostanza al principio delle pari opportunità. Il risultato è che, contrariamente ai paesi del Nord-Europa, dove le donne lavorano senza per questo rinunciare alla maternità – e dove i tassi di occupazione femminili sono prossimi o addirittura superiori agli obiettivi di Lisbona – il nostro Paese è caratterizzato da un bassissimo livello di fecondità e da un altrettanto modesto tasso di occupazione femminile, il più basso dell’Unione a 15 nel 2004.
La cura dei figli, aspettando i nidi. In relazione ai soli asili nido pubblici, in base agli ultimi dati disponibili, la loro consistenza – 2.404 unità, pari ai 4/5 dell’offerta complessiva – è, a tutt’oggi, ben lontana dall’obiettivo definito trent’anni fa a livello legislativo (legge 1044/1971) di istituire entro 5 anni almeno 3.800 strutture pubbliche per la cura della prima infanzia. Il raggiungimento di questo obiettivo richiederebbe un incremento dei nidi pubblici pari al 58,3% dell’attuale offerta, improbabile senza un forte investimento finanziario, attualmente assente: la spesa per gli asili nido pesa infatti per appena il 32,5% sulle risorse complessivamente destinate ai servizi dedicati alla famiglia e all’infanzia, una percentuale alquanto modesta, specie se paragonata al peso enorme assunto da questa voce di spesa nei paesi scandinavi (80%).
Il risultato è un grado di copertura della domanda potenziale di nidi pubblici estremamente ridotto: i posti disponibili hanno un’incidenza sul complesso della popolazione 0-2 anni pari ad appena il 7,4%, un dato lontanissimo dal quel 33% richiesto dall’Europa ai propri Stati membri entro il 2010.
Per quanto riguarda, poi, il grado di copertura della domanda effettiva di nidi, i posti pubblici attualmente disponibili lasciano inaccolte ben il 32,7% delle richieste. Il quadro appare tutt’altro che omogeneo a livello territoriale: le regioni del Centro e del Nord vantano una maggiore capacità di rispondere alla domanda potenziale di servizi – il grado di copertura di posti nido sul complesso della popolazione 0-2 anni è infatti più che doppio rispetto a quello registrato tra le regioni del Sud – ma, in virtù di una domanda di iscrizioni più elevata, registrano, al contempo, una maggiore percentuale di domande inaccolte (pari, rispettivamente, al 34% e al 35,8%, contro il 26,5% delle regioni meridionali). La percentuale di bambini in lista di attesa è particolarmente elevata in Liguria (56,7%), Valle d’Aosta (51,7%), Veneto (41,7%) e Campania (40%), mentre è più contenuta in Emilia Romagna (20,8%), Abruzzo (19,5%) e Molise (2,4%). Eppure, secondo i risultati di una ricerca recente, una capillare diffusione di strutture e servizi a sostegno della famiglia sarebbe in grado di condizionare positivamente le scelte lavorative di ben 724mila donne, che sarebbero disposte a passare o dal part-time al full-time (160mila), o dall’area dell’inattività alla ricerca di un’occupazione (564mila).
Sebbene in meno di un decennio si sia registrato un considerevole aumento dell’offerta – il numero degli asili nido pubblici e privati è passato da 2.180 del 1992 a 3.008 del 2000 – questo non è riuscito, se non in misura estremamente marginale, a rispondere adeguatamente alla domanda di servizi, né a riequilibrare la distribuzione degli stessi sul territorio nazionale. È possibile osservare come al Nord si concentri ben il 58,8% dei nidi d’infanzia, mentre il Sud accolga appena il 17,5% delle strutture, una distribuzione solo leggermente diversa da quella fotografata nel 1992, anno in cui nelle due ripartizioni geografiche erano presenti, rispettivamente, il 60,6% e il 16,9% dei nidi pubblici e privati. Nell’arco di tempo considerato, l’incremento dei nidi pubblici (+370 unità rispetto al 1992) è stato del 18% ed ha interessato maggiormente le regioni centro-meridionali. L’ampliamento dell’offerta è stato tuttavia determinato principalmente dall’aumento dei nidi privati (+458), più spiccato al Nord. Il contributo del privato all’incremento dei nidi presenti sul territorio ha modificato profondamente la struttura dei servizi di cura per l’infanzia: in 8 anni, infatti, l’incidenza dei nidi privati sul complesso degli asili per neonati è passata dal 6,7% al 20,1% . In alcune regioni oltre 1/4 dell’offerta è costituita da strutture private: Trentino Alto Adige (27%), Puglia (30,1%), Friuli Venezia Giulia (32,6%), Veneto e Campania, dove la disponibilità di nidi privati ha ormai superato quella di tipo pubblico (rispettivamente, 52% e 53%). È evidente, tuttavia, come i costi del servizio privato impediscano di considerate le strutture di questo tipo una valida alternativa ai nidi pubblici. In questo quadro, la conciliazione resta ancora troppo spesso legata alla presenza di una rete familiare in grado di sostenere la riorganizzazione dei tempi di vita derivante dalla doppia presenza della donna in seno alla famiglia e alla società: senza questa rete ancora troppi sono gli ostacoli che si frappongono al diritto delle donne di essere madri e lavoratrici, soprattutto al Sud e nelle Isole. Nel 2003, ben 4 milioni di bambini tra 0 e 13 anni (il 51,4% del complesso), quando non a scuola, sono stati affidati ad un adulto almeno qualche volta. È soprattutto la carenza di strutture pubbliche per l’infanzia a portare le donne ad optare per modalità alternative di affidamento dei propri figli e, in particolare, la mancanza di posti (22%), l’assenza delle strutture nel comune di residenza (21%, percentuale che sale al 34% tra le donne del Sud), il costo eccessivo del servizio (19%), ma anche l’inadeguatezza degli orari (7,4%).
Il ruolo dei nonni. Il sostegno alla cura dei figli proviene, nella stragrande maggioranza dei casi, dai nonni (54,5%), che in tal modo sopperiscono all’assenza di strutture adeguate e, più in generale, alle carenze del sistema assistenziale. Nel 9% dei casi si ricorre a persone retribuite, mentre appena il 22,3% dei bambini delle madri lavoratrici sono affidati ai nidi, pubblici (12,1%) o privati (10,3%). Nel Mezzogiorno, poi, dove minore è la disponibilità di queste strutture, i bambini affidati ai nidi sono appena il 19%, e solo il 5,7% delle madri si rivolge ai nidi pubblici (contro il 14,9% delle lavoratrici settentrionali). È dunque la rete informale degli aiuti familiari a fornire il maggiore, quando non esclusivo, supporto alla conciliazione.
Padri si nasce o si diventa? Ma i padri? Quale contributo danno gli uomini alla conciliazione? Quasi nessuno (sembrerebbe), così come emerso da una ricerca condotta sulla distribuzione del lavoro familiare tra i sessi. Il risultato più sorprendente dello studio – che ha comparato gli esiti delle rilevazioni condotte nel 1988 e nel 2003 dall’Istat sui tempi dedicati da uomini e donne alla cura della casa e dei figli – è dato dal fatto che, a distanza di un quindicennio, nulla sembra essere cambiato.
La distribuzione dei carichi familiari, oggi come allora, continua ad essere caratterizzata da un fortissimo squilibrio, che vede la donna, occupata o meno, farsi carico in maniera quasi esclusiva dei lavori domestici e dei figli, cui dedica, mediamente, 6 ore e 25 minuti al giorno, contro le 2 ore e 7 minuti del proprio partner. Nel 1988, le donne dedicavano a queste attività 6 ore e 57 minuti, gli uomini 1 ora e 51 minuti. Nei quindici anni trascorsi tra una rilevazione e l’altra, dunque, è aumentata la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, senza che a questo processo si sia accompagnata una sostanziale re-distribuzione dei carichi familiari. Come ha evidenziato Chiara Saraceno, l’Indagine Istat sull’uso del tempo mostra chiaramente come l’essere padri modifichi solo marginalmente l’organizzazione della vita quotidiana rispetto a chi padre non è: «L’attività di cura dei padri avviene nel tempo lasciato libero dal lavoro che, a differenza di quello delle madri, non appare toccato dagli impegni di una paternità accudente» (Saraceno, 2005). Per le donne, al contrario, la nascita di un figlio comporta un’impennata del tempo dedicato ai carichi familiari, che assorbono tre ore in più. «È vero che tra una rilevazione e l’altra è aumentato il tempo dedicato dai padri alla cura dei figli (da 27 a 45 minuti) ma oltre i 3/4 del tempo dedicato dalla coppia al lavoro familiare continua ad essere assorbito dalla donna (78,3%). Le madri dedicano mediamente il 62% del tempo dedicato al lavoro familiare ai lavori domestici; i padri solo il 36,5%» (Sabbadini, 2005).
Congedo parentale. Per quanto riguarda, in particolare, l’utilizzo del congedo parentale introdotto dalla legge 53/2000, i dati Inps relativi agli anni 2002-2003 mostrano come la quasi totalità dei congedi erogati direttamente dall’Istituto Nazionale di Previdenza siano stati utilizzati dalle madri e come la già scarsa percentuale di padri che hanno usufruito della misura sia scesa, nel biennio considerato, dal 4,7% al 3,8%. Per quanto riguarda, in particolare, il 2003, appena 590 dei complessivi 15.448 congedi erogati dall’Inps sono stati utilizzati dai padri. Una maggiore tendenza ad utilizzare la misura si registra tra i padri in presenza di figli al di sopra dei tre anni. La percentuale di congedi utilizzati dai padri, pari ad appena lo 0,8% in corrispondenza di bambini tra 0 e 11 mesi, sale a 21,6% in presenza di bambini di 2 anni, raggiunge il 44% qualora il figlio abbia 3 anni e sfiora il 70% nei casi in cui il bambino abbia almeno 5 anni.
I dati confermano la resistenza culturale verso il superamento di una divisione di ruoli rigidamente dicotomica, ma vanno spiegati anche tenendo conto dello svantaggio economico per la coppia derivante dal fatto di rinunciare al 70% del salario più elevato, costituito, appunto, generalmente, da quello maschile. Diversamente, nei paesi scandinavi, dove si ha diritto al 100% dello stipendio durante tutto il primo anno di congedo, la percentuale di padri che fa uso dello strumento è aumentata. Un cambiamento culturale è possibile ma a patto che venga realmente sostenuto. Difficilmente potrà essere perseguita una più equa distribuzione dei ruoli tra i sessi e la condivisione del lavoro di cura se il contesto ed i vincoli esterni alla coppia continuano a penalizzare quanti – uomini o donne che siano – la sostengono. Tale mancata evoluzione costringe le donne ad un difficile gioco di equilibrismo tra lavoro e famiglia, che le vede penalizzate in partenza. Il risultato è, sempre più, la scelta forzata tra la rinuncia alla maternità (in un solo decennio le coppie con figli sono scese dal 48% al 42%, mentre tra il 1971 e il 2001 l’incidenza dei bambini tra 0 e 6 anni sul complesso della popolazione si è dimezzato, passando dal 10% al 5%) o al lavoro.
Conciliazione impossibile? Le statistiche certo non incoraggiano: una donna su cinque tra quelle occupate al momento della gravidanza (il 20,1%) non lavora più dopo il parto: perché si licenzia (nel 69% dei casi), perché è scaduto un contratto che non le è stato rinnovato (23,9%) o perché è stata licenziata (6,9%). Risorse preziose per l’azienda fino al momento della maternità, le donne sono infatti considerate dopo la nascita di un figlio quantomeno dei casi problematici. È quanto emerso da una ricerca condotta su 1.536 aziende in tutta Italia: l’80% dei datori di lavoro intervistati, infatti, ritiene la maternità un problema, in quanto le donne – nel complesso considerate lavoratrici più determinate e affidabili rispetto ai colleghi uomini – tornano al lavoro meno motivate e disponibili. Il principio delle pari opportunità, sposato con generosità dagli imprenditori intervistati – il 66,3%, si dice disposto ad affidare un ruolo di responsabilità ad una donna, mentre appena l’8% esclude la possibilità di farlo –, sembra crollare davanti alla prospettiva di un figlio. La maternità è considerata un vero e proprio handicap dal 77,3% degli imprenditori intervistati, secondo cui diverse sono le problematiche ad essa legate: una minore disponibilità della madre lavoratrice (indicata dal 37,9% del campione), le assenze dovute alle malattie del bambino (23,8%), la presenza incostante sul luogo di lavoro (22,9%), i costi aggiuntivi sostenuti dall’azienda (34,4%), la difficoltà di mantenere il posto di lavoro da parte della madre lavoratrice (22,3%), l’assenza di servizi pubblici esterni all’azienda (22,7%).
Non stupisce, in questo quadro, che il tasso di occupazione femminile della fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni, pari al 56% per le donne senza figli, scenda al 53,6% per le donne con un figlio, crolli al 47% tra quante ne hanno due ed al 33,7% tra quelle che ne hanno almeno tre. Così come non stupisce l’allargamento dell’area dell’inattività, attribuibile in gran parte all’effetto scoraggiamento delle donne, in particolare quelle meridionali, che hanno rinunciato ad intraprendere concrete azioni di ricerca del lavoro. Il peso delle donne sul complesso degli inattivi, pari al 66%, raggiunge il 68,1% al Sud, dove si concentra il 45,6% delle inattive.
Nel terzo trimestre 2005 il numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito del 4,1% rispetto allo stesso periodo del 2004, mentre è aumentato il numero degli inattivi (+294.000 unità, il 2% in più rispetto all’anno precedente). L’incremento dell’area dell’inattività è stato particolarmente spiccato al Sud (+3%), dove le inattive sono cresciute del 2,9% e le donne in cerca di occupazione sono diminuite dell’1,8%. Va tuttavia evidenziato come al Nord le donne in cerca di occupazione abbiano registrato un decremento ancor più significativo, pari a 10,9 punti percentuali rispetto allo stesso periodo del 2004.
Contrariamente a quanto avvenuto al Centro, dove tra il 3° trimestre del 2004 e il 3° trimestre del 2005 il restringimento dell’area della disoccupazione (-0,3% per le donne) si è accompagnato ad un aumento dei livelli di partecipazione femminile al mercato del lavoro (il tasso di attività è cresciuto dello 0,5%) che ha portato il tasso di occupazione femminile al 50,8%, al Sud le donne hanno rinunciato a considerarsi forza lavoro e sono uscite dal mercato dell’offerta – il tasso di attività femminile è diminuito dell’1,5% – mentre il tasso di occupazione ha perso 1,4 punti percentuali, crollando ulteriormente al 29,3%.
Appare opportuno evidenziare infine come tra le collaboratrici, la quota di donne che si trovano in una età decisiva in relazione alla scelta della maternità è elevatissima: i dati relativi ai collaboratori contribuenti alla Gestione separata Inps, mostrano, infatti, come ben il 65% delle lavoratrici para-subordinate abbia un’età inferiore ai 39 anni e come il 53,2% appartenga alle classi di età 30-39anni (32,7%) e 25-29anni (20,5%).