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La ripresa che non c’è

Il quadro della situazione è noto da tempo, ma è utile riassumerne gli aspetti salienti. In base ai dati contenuti nel quarto rapporto sull’Industria elaborato dall’ufficio studi della Cisl tra il 2005 e il 2006 le situazioni di crisi industriale, ovvero le aziende coinvolte in chiusure o ristrutturazioni, hanno subito in Basilicata una impennata di oltre il 20 per cento. Nel 2006 oltre 8 mila lavoratori sono stati coinvolti in crisi o ristrutturazioni industriali (erano 6.304 nel 2005) e più di 6 mila quelli che hanno usufruito di ammortizzatori sociali (oltre un migliaio in più rispetto al 2005). Sul piano qualitativo è del tutto evidente che il sistema produttivo lucano continua a soffrire di una serie di fattori strutturali di debolezza: sottodimensionamento, bassa capacità di innovazione, scarsa propensione alla internazionalizzazione, assenza di centri decisionali locali. Fattori che hanno funzionato da moltiplicatore della crisi.

Gli interventi messi in campo finora sono risultati appena sufficienti a tamponare la situazione nel breve periodo e del tutto inadeguati a ridefinire la missione di lungo periodo del nostro apparato produttivo. La progressiva apertura e globalizzazione dei mercati internazionali è stata forse vissuta dalla maggioranza delle nostre imprese, specie quelle labour intensive impegnate nei settori tradizionali del manifatturiero, come uno spauracchio dal quale difendersi piuttosto che una opportunità da cogliere per allargare il proprio bacino di azione. È mancata in sostanza una politica in grado di accompagnare le imprese lucane sul sentiero della modernizzazione. Così, della globalizzazione, abbiamo sperimentato solo l’onta della deindustrializzazione e della delocalizzazione produttiva, con effetti sociali dalla portata devastante. Ormai non si contano le aziende che hanno messo i lucchetti ai cancelli, casomai dopo aver largamente usufruito di contribuiti pubblici, mentre anche sulle aziende meglio attrezzate alla competizione internazionale, come il polo del salotto, aleggia più di qualche interrogativo.

Per rimettere in piedi le nostre imprese serve una terapia in due tempi. Nel breve periodo la scossa promessa dal governo Prodi, attraverso il più volte annunciato taglio del cuneo fiscale, è a nostro avviso una scelta quasi obbligata, non potendo più gestire la leva monetaria, a patto che il taglio sia concentrato, come ha opportunamente osservato il nostro segretario Raffaele Bonanni, nelle regioni del Mezzogiorno che negli ultimi due anni hanno visto allargare il divario dalle aree più dinamiche del paese. Perché se il Mezzogiorno non riparte, il paese continuerà a viaggiare con il freno a mano tirato. Ma è sulla strategia di lungo periodo che si gioca il destino della nostra economia. Riformare il sistema degli incentivi in senso più selettivo, investire in ricerca e innovazione, dotare il Sud di una rete infrastrutturale degna di un paese moderno, aiutare le imprese a raggiungere una dimensione di scala adeguata ad una economia globale rappresentano, insieme, una sfida ed una necessità improrogabile. Prima si parte, meglio è.

Su un punto, però, è bene essere chiari: la ragionevolezza del sindacato non può essere scambiata per accondiscendenza. A livello regionale è tempo di esigere il credito concesso alla classe politica. O si riprende, seriamente, la via maestra della concertazione, ridotta ormai a rango di “dialogo sociale”, ovvero è facile prevedere una impennata della mobilitazione. Le premesse per un autunno socialmente bollente ci sono tutte. C’è un tempo per il dialogo e c’è un tempo per la lotta. Alla politica l’onere della scelta.