Quadra il bilancio, ma calano le pensioni. Nel 2004, dopo 40 anni, il saldo complessivo del bilancio Inps è stato di 3.912 milioni di euro, con un saldo di parte corrente pari a 3.983 milioni di euro e in conto capitale pari a -71 milioni di euro, contro il saldo complessivo del 2003 pari a -897 milioni di euro. Tali risultati della gestione 2004 sono stati raggiunti grazie ad alcuni fattori, quali: la crescita dell’occupazione e, dunque, degli iscritti alla previdenza (in particolar modo i parasubordinati con 493.032 iscritti in più e gli immigrati); l’incremento delle aliquote contributive; la nuova Gestione per gli associati in partecipazione; i proventi scaturiti dall’alienazione del patrimonio Inps; la flessione delle pensioni di anzianità, mediante l’incentivo del super-bonus; la politica di contenimento del bilancio, disposta dalla circolare del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 51/2003 e dalla legge n.191/2004, che ha posto in essere le condizioni necessarie e sufficienti per il riordino della spesa pubblica, attraverso la riduzione delle spese di rappresentanza e di funzionamento, con un risparmio di oltre 30 milioni di euro.
Le entrate contributive sono aumentate del 7,3%, passando da 106.103 milioni di euro del 2003 a 113.184 milioni di euro del 2004, mentre sono scesi i trasferimenti attivi (-2,8%) e le altre entrate correnti. Il totale delle entrate è risultato essere quindi pari a 217.424 milioni di euro, 10.159 in più rispetto al 2003, ed il risultato di esercizio pari a 5.264 milioni di euro, contro i 405 del 2003. Dall’altra parte, le prestazioni istituzionali ammontano a 171.042 milioni di euro (+4,9% rispetto al 2003), con un rapporto di copertura (contributi/prestazioni) del 66%, mentre l’incidenza della spesa pensionistica Inps sul Pil nominale è del 10,93%, rispetto al 10,89% del 2003 e al 10,56% del 2002.
Per quanto riguarda il bilancio di previsione per l’anno 2005, il risultato economico, che è stato stimato per 2.142 milioni di euro, appare determinato dalla continua emersione dall’evasione e dall’elusione, ma ancor più dagli introiti attesi dalle operazioni di cartolarizzazione (la sesta) del patrimonio Inps, per un valore di circa 3 miliardi di euro. Le entrate contributive sono state stimate per un ammontare pari a 117.093 milioni di euro, mentre le prestazioni istituzionali per 176.007 milioni di euro, con un rapporto di copertura pari al 66,5%. Pietra angolare del bilancio di esercizio rimane sempre il popolo dei parasubordinati, che registra, secondo le stime, un incremento degli iscritti alla Gestione Separata dell’11,1% rispetto al consuntivo 2004.
Per il 2006, si prevede un risultato di esercizio pari a 726 milioni di euro ed un patrimonio netto di 25.116 milioni di euro. Aumentano anche le entrate contributive di 3.129 milioni di euro, arrivando a quota 120.222, ma soprattutto le prestazioni istituzionali, che ammonterebbero a 180.190 milioni di euro, di cui 155.185 milioni di euro costituiti da pensioni.
Il rapporto di copertura presenta un trend crescente nel triennio 2003-2006, passando dal 65% al 66,7%.
Riforma previdenziale: innalzamento dell’età pensionabile e super-bonus. La riforma previdenziale, regolata dalla legge 243/2004, sarà operativa dal 1° gennaio 2008 e poggia prevalentemente su due pilastri fondamentali: l’innalzamento graduale dell’età pensionabile; lo sviluppo della previdenza complementare.
Per quanto riguarda il primo pilastro, si è voluto incrementare il tasso di attività lavorativa a causa del trend in costante crescita del processo di invecchiamento della popolazione italiana innalzando, dal 2008 al 2009, l’età per la pensione di anzianità (o pensione anticipata) a 60 anni per i lavoratori dipendenti e 61 per gli autonomi, più 35 anni di contributi. Dal 2010 al 2013 i dipendenti e gli autonomi possono smettere di lavorare rispettivamente a 61 e 62 anni, avendo versato 35 anni di contributi; mentre dal 2014 i primi potranno percepire la pensione a 62 anni e i secondi a 63, avendo 35 anni di contribuzione. In tutti i casi si può andare in pensione con 40 anni di contribuzione, indipendentemente dall’età. Per le donne, anche dopo il 2008, sono previsti 57 anni di età, più 35 anni di contributi.
Dal 2008, per ottenere la pensione di vecchiaia, l’età pensionabile viene innalzata a 65 anni per gli uomini e 60 per le donne, previo un minimo di 5 anni di anzianità contributiva, ovvero 40 anni di contributi indipendentemente dall’età. La riforma prevede però delle eccezioni per i lavoratori che svolgono attività usuranti, lavoratori precoci e lavoratrici madri, per i quali è previsto un regime agevolato.
Un ulteriore incentivo a posticipare il conseguimento della pensione di anzianità è stato il cosiddetto super-bonus, che ha indotto molti lavoratori del settore privato (con i requisiti di 57 anni e 35 anni di contributi, ovvero 38 anni di contributi indipendentemente dall’età), prossimi alla pensione anticipata (entro il 31.12.2007), a continuare la loro prestazione lavorativa, a fronte di trasferimenti (esentasse) dei contributi previdenziali, destinati all’Inps, in busta paga, per un ammontare pari al 32,7% dello stipendio lordo (o del 33,7% per redditi superiori a 38.641 euro). Il bonus decorre a partire dall’apertura della prima finestra d’uscita (1° gennaio o 1° luglio) valida per la pensione.
La pensione di chi ha usufruito del bonus sarà calcolata in base ai contributi versati al momento della decorrenza dell’incentivo ed indicizzata ai tassi d’inflazione durante il periodo di proroga dell’attività lavorativa. I lavoratori, che da gennaio 2008, opteranno per l’incentivo, otterranno inoltre un supplemento di pensione. Dai dati si evince chiaramente come, all’aumentare del reddito cresca altresì il bonus, e quindi la motivazione a posticipare la pensione. L’incremento retributivo, infatti, ammonta al 42,5% per uno stipendio mensile netto di 1.000 euro, mentre sale al 58,38% per chi percepisce uno stipendio mensile netto di 5.000 euro.
In questi mesi l’introduzione del bonus sembra aver quasi dimezzato le richieste di pensione di anzianità, che scendono dalle 64.796 richieste del 2004, alle 30.088 stimate per il primo trimestre 2005, con grande sollievo dell’Istituto Nazionale di Previdenza che per la fine del 2005 prevede di erogare 18.087.198 pensioni (+ 0,6%), contro 17.977.537 del 2004 (+1,5% rispetto al 2003), incluse quelle di invalidità. Al 31.12.2005 l’ammontare delle pensioni di vecchiaia e anzianità è pari a 15.960.591, ossia 30.000 pensioni in meno rispetto al 2004. A dicembre 2004, sono pervenute all’Inps 28.318 domande di incentivo, ma solo 13.971 sono state accolte, di cui 7.614 appartengono al ramo Industria, 3.064 al Credito e 2.854 al Commercio. La maggior parte degli iscritti (3.233) si colloca in una classe di reddito compresa tra i 20.001 e 30.000 euro. Le domande pervenute all’Inps ad aprile 2005, sono state invece 36.602 e quelle accolte 25.966, il 62,6% delle quali con reddito superiore a 30.000 euro annui. Il 54% delle richieste proviene dal Settentrione e il 55,3% dal settore dell’Industria. A settembre 2005, le richieste di incentivo sono state 51.066, di cui 45.807 (89,7%) uomini e 5.262 (10,3%) donne, che appartengono per lo più a classi di reddito elevate e ricoprono posizioni dirigenziali.
La fine delle pensioni: il ruolo del Tfr e dei fondi pensione nella previdenza complementare. Benché il sistema contributivo abbia posto le basi per l’inizio di una certa equità attuariale, ossia il bilanciamento tra i contributi versati e le prestazioni attualizzate, con esso si assiste, altresì, ad una tendenziale riduzione delle pensioni. Secondo una ricerca del CAPP, Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche del Ministero del Lavoro, il 2020 segnerebbe l’inizio del conto alla rovescia del sistema pensionistico contributivo. Infatti, in base alle proiezioni, il rapporto di sostituzione, cioè la relazione tra pensione e ultimo stipendio, comincerebbe a scendere, raggiungendo nel 2050 un valore pari al 30%, rispetto al 65% del 2002. In tale contesto entra in gioco il secondo pilastro della riforma previdenziale, ovvero lo sviluppo della previdenza complementare, al fine di supportare quella pubblica, ormai prossima al collasso. Infatti, secondo alcune proiezioni della COVIP, un lavoratore che inizi a versare contributi presso una forma previdenziale complementare dal 2006 con un’aliquota del 9% e decida poi di andare in pensione a 60 anni, con un’anzianità contributiva di 35 anni e un tasso di rendimento lordo del 3,5%, il tasso di sostituzione (calcolato come il rapporto tra la prima annualità di pensione e l’ultima retribuzione), per la sua pensione complementare sarebbe pari al 2,3% nel 2010 e al 16,6% nel 2050. Qualora, invece, scegliesse di ritirarsi a 65 anni, il tasso di sostituzione salirebbe al 18,8%, mentre a 70 anni ammonterebbe al 21,9%.
In base alle proiezioni poco ottimistiche, ma purtroppo molto verosimili, del CAPP e della COVIP, nella migliore delle ipotesi la pensione futura delle odierne generazioni ammonterebbe al 30% del reddito (previdenza pubblica obbligatoria), al quale si aggiunge un 20% scarso (previdenza complementare). La cumulazione delle due forme previdenziali non sarebbe sufficiente a mantenere il livello del 65% del 2002: da ciò deriva la necessità di lasciare aperta anche la strada della contribuzione privata (il terzo pilastro del welfare).
Per incentivare i lavoratori a costituire una pensione integrativa, il D.Lgs. 252/2005 ha introdotto l’applicazione del principio del silenzio-assenso per trasferire il trattamento di fine rapporto (o retribuzione differita) in un fondo pensione, qualora il lavoratore non abbia comunicato esplicitamente come intenda impiegare il suo TFR entro sei mesi dal 1° gennaio 2008 o, se neoassunto dopo tale data, entro sei mesi dalla decorrenza del contratto di lavoro. Il datore di lavoro, in caso di adesione dei lavoratori ad una forma pensionistica o in applicazione del silenzio-assenso, trasferisce il TFR maturando dei dipendenti alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, oppure a quella dove abbia aderito la maggioranza dei lavoratori (art. 8, comma 7, del D.Lgs. 252/2005). Qualora non siano applicabili le due opzioni, il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando alla forma pensionistica complementare a contribuzione definita, istituita presso l’Inps (art. 9 ).
Con riferimento al regime tributario delle forme pensionistiche complementari, secondo quanto riportato dall’art. 17, «i fondi pensione sono soggetti ad imposta sostitutiva delle imposte sui redditi nella misura dell’11 per cento, che si applica sul risultato netto maturato in ciascun periodo d’imposta», mentre sulla «parte imponibile delle prestazioni pensionistiche comunque erogate è operata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali» (art. 11). I contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro alle forme di previdenza complementare sono deducibili dal reddito complessivo fino a 5.164,57 euro (art. 8, comma 4).
È previsto, inoltre, ex art. 11, comma 7, che «gli aderenti alle forme pensionistiche complementari possono richiedere un’anticipazione della posizione individuale maturata in qualsiasi momento, per un importo non superiore al 75 per cento, per spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche».
Ma a quanto ammonta il rendimento del TFR in azienda e quello percepito nei fondi pensione? È meglio la liquidazione o il trasferimento nei fondi pensione?
Secondo dati COVIP, il rendimento generale netto dei fondi pensione a un anno ha raggiunto nel 2004 valori del 4,5% (fondi negoziali) e del 4,3% (fondi aperti), contro una rivalutazione netta del TFR mantenuto in azienda pari al 2,5%. Salendo però l’orizzonte temporale da 1 a 6 anni, la rivalutazione netta del TFR arriva ad un rendimento del 19,4%, mentre il tasso di rendimento dei fondi pensione aperti varia tra il 15,4% e il 23%.
La relazione positiva tra il tasso di rendimento e l’orizzonte temporale si spiega tenendo presente che i fondi aperti, come pure le Polizze Individuali Pensionistiche (PIP), presentano alti costi all’apertura della posizione previdenziale, con un’incidenza degli oneri complessivi sul patrimonio compresa tra l’1,9% e l’8,1%.
Il Dipartimento Welfare della Cgil ha esaminato i tassi di rendimento e l’incidenza degli oneri gestionali di alcuni strumenti di previdenza complementare, evidenziandone le enormi disparità di costo e quindi di prestazione previdenziale. In base ai dati COVIP, il Dipartimento ha calcolato il rendimento di fondi negoziali, fondi aperti e Fip (o Pip), al netto degli oneri complessivi, che variano dallo 0,45% dei fondi negoziali all’ 8,10% dei Fip. Ipotizzando un versamento iniziale di 1.000 euro, un incremento annuo del versamento dell’1,80% ed un rendimento annuo netto del 3,50%, in tre anni, a fronte di un capitale versato di 3.054,32 euro, si percepiscono 3.242,30 euro nei fondi negoziali, 3.154,81 euro in fondi aperti e 2.767,25 euro nei Fip.
Le prospettive non sembrano migliorare nemmeno al 35° anno, quando i rendimenti dei fondi negoziali sono di gran lunga superiori ai Fip. È importante notare come, nel lungo periodo, gli oneri gestionali, sebbene possano sembrare non molto alti, incidano in maniera rilevante sulle pensioni: pertanto il tasso di sostituzione, secondo stime COVIP, in presenza di costi di gestione dello 0,45% ammonterebbe al 16,6%, mentre con costi pari all’1,3% e al 2,3% scenderebbe rispettivamente al 14,7% e al 12,6%. Ciò significa che un lavoratore, che aderisse ad una forma pensionistica con oneri di gestione pari all’1,3%, per raggiungere il medesimo tasso di sostituzione, che invece avrebbe in un altro fondo con spese dello 0,45%, dovrebbe, a parità di età di pensionamento, aggiungere 4 anni di contribuzione, mentre nel caso di commissioni del 2,3% dovrebbe contribuire ancora per almeno 7 anni.
Inoltre un’indagine condotta dalla Cgil, mostra una serie di dati comparativi dei principali Pip (Mediolanum, Ergo previdenza, Generali, etc.), tutti caratterizzati da elevati costi di caricamento (ossia costi di attivazione delle posizioni previdenziali). Infine vengono riportati anche i risultati di un fondo negoziale che presenta un costo medio annuo dello 0,45%, ed in tre anni eroga un capitale superiore agli altri strumenti previdenziali.