Il fenomeno delle liste d’attesa. Nel quadro interpretativo dei dati di realtà che testimoniano il mancato conseguimento dell’uniformità assistenziale e l’ipoteticità dei livelli essenziali di assistenza come fattore di garanzia per tutti i cittadini, l’elemento “durata dei tempi di attesa” per ottenere determinate prestazioni rappresenta un indicatore quanto mai significativo. La significatività del dato scaturisce da una pluralità di elementi che esso sottende. Nella sua composizione, infatti, sono presenti tre ordini di fattori: le determinanti soggettive, relative alle persone che debbono ricevere le prestazioni; le determinanti organizzative, relative alle istituzioni che mettono in relazione le richieste con le strutture e/o i professionisti deputati a fornire le prestazioni; la determinante strutturale, relativa alla consistenza e alla funzionalità dei presidi e/o dei professionisti che in concreto forniscono le prestazioni richieste. Il Servizio sanitario nazionale non ha istituito rilevazioni sistematiche sul fenomeno, per cui non si dispone al riguardo di cifre ufficiali. Tuttavia, l’esistenza del fenomeno e la sua rilevanza sono sufficientemente dimostrati dai dati che il Tribunale per i diritti del Malato pubblica da qualche anno, desumendoli dalle segnalazioni che ad esso giungono da parte dei cittadini per lamentare i ritardi nell’ottenere le prestazioni. Partendo da tali dati, l’Associazione CittadinanzAttiva ha svolto approfondimenti in varie realtà locali, distribuite su tutto il territorio nazionale, ricavandone indicazioni utili per capire l’entità e la serietà del fenomeno e la sua origine. Con un approccio più tecnico anche un gruppo di lavoro coordinato dall’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (ASSR) ha svolto nel 2003 un’indagine campionaria su alcune Asl, finalizzata in particolare a sperimentare e mettere a punto una metodologia di rilevazione dei tempi d’attesa, riferiti ad alcune prestazioni tipo, in vista di una possibile generalizzazione di sistema nel SSN. Da ultimo, nel corso dei lavori di una Commissione di studio attivata dal Ministero della Salute sulla qualità delle prestazioni e sull’adeguatezza delle richieste è stato presentato un modello del fenomeno che ha messo in evidenza altri aspetti, non considerati, del problema. Si tratta di aspetti sostanziali che dilatano la criticità del fenomeno e ampliano, di conseguenza, il campo di osservazione dello stesso.
L’utile ruolo del “controllo sociale”. La prima rappresentazione del fenomeno “liste di attesa” non è opera dell’istituzione pubblica, ma è l’espressione del controllo sociale che una componente importante dell’associazionismo di comunità, il Tribunale per i diritti del Malato, rete diffusa dell’Associazione CittadinanzAttiva, capillarmente svolge sul funzionamento del Servizio sanitario nazionale nelle sue manifestazioni operative, nel territorio e nei presidi. Si può dissentire dalla impostazione del modello di stato sociale auspicato dall’Associazione, in quanto anch’essa tende a sottovalutare gli aspetti economici del problema, con lo slogan “Prima i diritti e poi i soldi”. Tuttavia, va riconosciuta pienamente la validità dell’azione di monitoraggio compiuta sul funzionamento dei servizi, il valore del sostegno assicurato ai cittadini in sede locale contro le inadempienze dei servizi sanitari, pubblici e privati, e l’utilità degli stimoli forniti alle istituzioni con le denunce, le segnalazioni e le proposte continuamente formulate. Nell’attività dell’Associazione è realizzato in pieno lo spirito dell’articolo 14 della riforma sanitaria del 1992, dedicato alla “Partecipazione e tutela dei diritti dei cittadini”. Pur partendo da presupposti diversi in tema di livelli essenziali d’assistenza – la cui fissazione e gestione vengono interpretate negativamente dal Tribunale per i diritti del Malato come un’operazione per ridurre le prestazioni garantite dal servizio pubblico – si può convenire con esso sulla necessità, affermata nella 6ª edizione di “PIT Salute – Cittadini e servizi sanitari”, di «riportare al centro del dibattito la riflessione sui diritti e sulla tutela, sforzandosi di trovare soluzioni innovative per coniugare diritti e sostenibilità. Una utile occasione per interrogarsi su quali prestazioni debbano essere garantite a tutti, su tutto il territorio nazionale». Il dibattito sicuramente ci sarà a livello di Paese, anzi è già in atto ed è quello, ineludibile, sul ripensamento del welfare. In esso avranno un peso rilevante la crisi economica, la scarsità delle risorse, le esigenze prioritarie del rilancio produttivo del sistema Italia: ciò imporrà sacrifici, ripensamenti, rimodulazioni dei diritti e intensificazione dei doveri. Per quanto concerne i livelli essenziali d’assistenza, l’occasione servirà a precisare, rispetto alle diversità evidenti nel Paese – che proprio il Tribunale dei diritti del Malato ha contribuito e contribuisce ad evidenziare – quali livelli compatibili di tutela della salute, localmente determinati rispetto alle esigenze e priorità locali, possano effettivamente essere garantiti ai cittadini sanzionando le eventuali inadempienze.
Che la situazione sia diversificata nel Paese, anche rispetto ai tempi di attesa, misurati su alcune prestazioni emblematiche, risulta di tutta evidenza dai seguenti dati.
Tempi massimi d’attesa registrati per alcune prestazioni: qualche dato. Dall’elaborazione Eurispes su dati del Tribunale per i diritti del Malato, (Rapporto PIT Salute 2002) emerge quanto segue: ci vogliono 365 giorni di attesa per una mammografia nell’azienda sanitaria locale di Pordenone; segue l’Asl di Udine con 231 giorni di attesa per una colonscopia, 183 per una RMN e 77 per un’esofagogastroduodenoscopia. Presso l’Asl di San Benedetto del Tronto per un ecolordoppler bisogna invece attendere 220 giorni, mentre nell’Asl di Brindisi 172 giorni per una ecografia addominale e mammaria. L’Asl di Bologna 154 per una TAC. Chiude l’Asl di Nuoro con 100 giorni di attesa per una ecografia ginecologica e osterica.
Questi dati si riferiscono al Rapporto PIT Salute del 2002, ma la loro validità resta confermata dalla permanenza del fenomeno. Nel recente Rapporto PIT Salute, presentato nel febbraio del 2005, infatti, il Tribunale per i diritti del Malato riferisce: «Anche quest’anno si conferma l’estensione del fenomeno delle liste d’attesa: dalle prestazioni diagnostiche e specialistiche a quella degli interventi chirurgici programmati. Restano lunghi i tempi d’attesa per le principali prestazioni di diagnostica strumentale e raramente vengono rispettati i tempi massimi individuati e fissati dalle Regioni. I cittadini segnalano, sempre più irritati, il ricorso all’intramoenia per aggirare le lunghe liste d’attesa, ma il sistema si conferma poco trasparente rispetto alla possibilità di accedere a rimborsi se si è costretti a pagare di tasca propria per prestazioni di diagnostica strumentale e specialistica che il Servizio pubblico non è stato in grado di garantire. Per quanto riguarda gli interventi chirurgici programmati, permangono lunghissimi i tempi per la chirurgia ortopedica (sino a 18 mesi per un intervento di impianto di protesi d’anca o di artroprotesi del ginocchio o del femore) sulla quale si concentra il grosso delle segnalazioni da parte dei cittadini, e per la chirurgia odontostomatologica (sino ad un anno d’attesa). Ma si aspetta anche per operare una prostata (sino ad un anno) o una tiroide (sino a nove mesi). Peggiorano i dati relativi alla chirurgia oculistica (sino ad un anno per un intervento di cataratta). Ma soprattutto ci si può trovare ad affrontare una lista di attesa di più di tre mesi per un intervento oncologico. Le segnalazioni provengono prevalentemente dalle regioni del Centro-Sud e dalle Isole ma, pur registrando tempi di attesa più ragionevoli nel Nord del Paese, ci sembra di poter dire che nessuna regione, al momento, può considerarsi completamente immune dal problema. Il rispetto del diritto al tempo dei pazienti, inteso come diritto a ricevere i trattamenti in un arco temporale veloce e predeterminato, e applicato ad ogni fase del trattamento, ci sembra in larga misura ancora da raggiungere».
La questione scottante della libera professione intramuraria. Tra le formule adottate per ridurre i tempi d’attesa vi è quella dell’esercizio libero-professionale consentito all’interno delle strutture pubbliche, al di fuori dell’orario di servizio. L’obiettivo auspicato, secondo il Ministro della Sanità dell’epoca, Rosy Bindi, che ha promosso l’iniziativa, era quello di contribuire a snellire le liste di attesa. Ciò si sarebbe ottenuto consentendo alle Asl di acquistare pacchetti di prestazioni “intramoenia”, a favore degli assistiti in lista d’attesa, negoziandoli con i professionisti dei presidi, al di fuori dell’orario di servizio e a condizioni economiche più convenienti rispetto all’assunzione di nuovo personale per potenziare il complesso dell’offerta. In realtà le cose sono andate diversamente. Nella generalità dei casi le Aziende hanno preferito addossare ai cittadini il carico economico delle prestazioni rese in libera professione intramoenia. Di questa decisione hanno beneficiato solo i medici, che hanno visto aumentare i propri guadagni, e i cittadini in grado di pagare le prestazioni, che hanno potuto aggirare l’ostacolo delle liste d’attesa e ottenere le prestazioni nel giro di pochi giorni. In molti casi la presenza dei due regimi ha provocato, addirittura, un calo di produttività durante le ore di servizio, a detrimento dei cittadini rimasti in lista d’attesa.
Dai dati del Rapporto “PIT Salute” del 2005 risulta che la situazione permane preoccupante perché la durata delle attese è ancora lunga, in molti casi oltre il termine massimo previsto dagli accordi sottoscritti in sede centrale, con l’aggravante che in un certo numero di Aziende sanitarie, per nascondere il dato della lunghezza effettiva dell’attesa per ottenere delle prestazioni, la lista delle prenotazioni viene “chiusa” in corrispondenza del termine massimo ufficialmente concordato. Gli estensori del Rapporto “PIT Salute” si sono preoccupati di precisare che i dati forniti hanno valore emblematico e non statistico, in quanto il campione utilizzato non è statisticamente ponderato, il che l’avrebbe reso rappresentativo della realtà nazionale. Esso è stato determinato empiricamente in base alle segnalazioni ricevute: inoltre i valori indicati si riferiscono alle punte massime di disservizio e non al valore medio delle realtà effettive. Pur ammettendo che si è trattato di una scelta opinabile – e in effetti contestata dagli addetti ai lavori – essa è stata ugualmente utilizzata in quanto riferita ad un reale problema di accesso alle strutture, ossia ad una delle espressioni principali del diritto alla tutela della salute.
La correttezza metodologica delle rilevazioni. La questione della correttezza metodologica nelle rilevazioni è stata, viceversa, al centro dell’attenzione del gruppo tecnico di monitoraggio dei tempi d’attesa, costituito dalla Conferenza Stato-Regioni e coordinato dall’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (ASSR).
Dopo una prima rilevazione che ha interessato tutte le Regioni e ha mostrato soprattutto la disomogeneità e l’incompletezza dei dati raccolti nelle sedi locali, esso ha messo a punto un disciplinare standardizzato di rilevazione, che è stato utilizzato come prototipo in sei Aziende sanitarie locali (1. Asl Cremona – 2. Asl Genova 3 – 3. Asl Benevento – 4. Asl Brindisi – 5. Asl Empoli – 6. Asl Valle d’Aosta).
Il lavoro del gruppo ha quindi prodotto due tipi di informazioni: quelle iniziali riferite alla situazione nazionale (parzialmente incompleta e poco significativa, anzi addirittura in controtendenza con l’esperienza pratica, in quanto i risultati peggiori sembrano essere quelli riguardanti le Regioni notoriamente più efficienti e più sensibili alle esigenze degli assistiti), e quelle relative all’indagine prototipale presso le sei aziende segnalate. Nell’intento di fornire una descrizione sintetica, efficace e chiara delle situazioni aziendali e regionali di fenomeni complessi, nei quali intervengono fattori causali estremamente diversificati, il gruppo tecnico ha proposto di adottare lo strumento del Box-Plot (o grafico a “scatola con baffi”), le cui connotazioni di lettura sono riportate all’interno della scheda a cui si rimanda.
È sufficiente la percezione plastica delle immagini riprodotte per confermare, anche con questa più puntuale e rigorosa metodologia di rilevazione, che la situazione permane profondamente differenziata nel Paese. L’indicatore dei tempi d’attesa contraddice la pretesa di uniformità assistenziale, che da oltre trent’anni viene inutilmente perseguita dal Servizio sanitario nazionale e vanifica il fondamento dei livelli d’assistenza come strumento di garanzia per i diritti dei cittadini.
I tempi d’attesa all’interno del percorso assistenziale. Nel corso dei lavori di un gruppo di esperti nominati dal Ministero della Salute per approfondire i temi della qualità delle prestazioni e dell’adeguatezza delle richieste formulate dai medici, è stato presentato un modello del “percorso assistenziale” che ha messo in evidenza altri aspetti riguardanti il problema dei tempi d’attesa, non considerati dalle rilevazioni precedenti. Secondo il modello, il percorso assistenziale tipo si svolge attraverso una successione di quattro fasi: l’espressione del “bisogno” sanitario; la traduzione del “bisogno” in “domanda” di prestazioni; l’erogazione delle “prestazioni”; l’“esito” che le stesse prestazioni determinano nella condizione di benessere del cittadino-paziente. Ogni fase del percorso presenta sue proprie connotazioni temporali (espresse nella fascia alta del modello); implica aspetti percettivi soggettivi e valutazioni oggettive (espresse nella seconda fascia del modello), indagabili con apposite e differenziate tecniche di rilevazione; si svolge secondo le tappe descritte nella fascia centrale del modello e in ogni tappa si determina una interazione con categorie di eventi dei quali è doveroso tenere conto. La disponibilità di informazioni (non necessariamente generalizzate) sui due periodi in questione potrebbe consentire di valutare, in un caso, l’efficienza e l’adeguatezza dei servizi d’assistenza primaria – e di contrastare, all’occorrenza, il fenomeno del ricorso improprio ai Pronto soccorsi ospedalieri – , e nell’altro la funzionalità dei servizi che erogano le prestazioni. In questa seconda ipotesi, è necessario infine tener presente che il soddisfacimento della domanda di prestazioni formulata dal medico richiedente, specie in materia di accertamenti diagnostici, non avviene nel momento dell’effettuazione dell’accertamento strumentale o del prelievo di materiali biologici, ma solo quando l’esito degli accertamenti viene comunicato al paziente e/o al medico curante. Il protrarsi del tempo tra l’effettuazione dell’esame e la sua refertazione e successiva consegna al cittadino-paziente può essere sintomatico di una disfunzione tecnico-burocratica da correggere.

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