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[ ANNO II – MAGGIO 2006 – NUMERO 18 ] PROGETTO DI VITA O UNA VITA A PROGETTO?

Attualmente in Italia si contano, in base alle stime dell’Ires, oltre 4 milioni di lavoratori atipici. Si tratta soprattutto di lavoratori assunti con contratto a tempo determinato (1,6 milioni, il 39,6% del complesso) e collaboratori coordinati e continuativi o a progetto (1.117.000, il 27,7% del totale) e, in misura minore, di lavoratori assunti con contratto di somministrazione (502mila), collaboratori occasionali (106mila), collaboratori con partita Iva (311mila) e associati in partecipazione (400mila).
Per quanto riguarda, in particolare, i lavoratori parasubordinati, appare opportuno evidenziare come, a partire dall’istituzione del Fondo speciale Inps per la Gestione separata si sia registrato un aumento esponenziale dei collaboratori iscritti, cresciuti a ritmi sensibilmente più elevati rispetto ai lavoratori standard. In particolare, il boom degli iscritti alla Gestione separata è avvenuto nei primi anni – con incrementi percentuali del 31% tra il 1996 e il 1997 e del 20% l’anno successivo – e in corrispondenza all’introduzione della legge 30 e del suo decreto attuativo 276/30. Nel dicembre 2003, a pochi mesi dall’entrata in vigore delle disposizioni contenute nel decreto attuativo, si registra infatti un incremento degli iscritti del 18,6% rispetto all’anno precedente, cui segue, nell’anno di piena operatività della riforma, un aumento del 17,4%, sempre su base annua. Nel solo biennio dicembre 2002-dicembre 2004, il numero degli iscritti alla gestione separata è cresciuto di oltre 900mila unità. Il dato consente di rilevare, come, lungi dall’operare un ridimensionamento del fenomeno delle collaborazioni, la riforma del mercato del lavoro abbia favorito una esplosione del lavoro parasubordinato. Il peso del lavoro parasubordinato sul complesso dell’occupazione ha ormai assunto dimensioni rilevanti: mentre nel 2000 i Co.Co.Co. costituivano il 9% degli occupati, attualmente sono pari al 14,9%. Pur trattandosi di stime, si può comunque osservare che l’incidenza del lavoro “atipico” sull’occupazione totale è più accentuata al Centro (17,3%) e al Nord (16%), mentre al Sud rappresenta una realtà più contenuta ma non marginale (11,1%). La tendenza alla femminilizzazione nel parasubordinato è più evidente nel Centro-Sud, dove l’incidenza delle “collaboratrici” sul complesso delle occupate è più elevata rispetto al Nord, in cui, ricordiamo, c’è la maggiore concentrazione di questi lavoratori. La banca dati dell’Inps consente di analizzare le caratteristiche dei lavoratori iscritti alla Gestione separata. Vediamo innanzitutto come la maggior parte di essi lavori al Nord (54,9%); al Centro lavora il 23,6% dei co.co.co. mentre al Sud il 21,5%. Va evidenziato, tuttavia, come nel Mezzogiorno il lavoro atipico riguardi prevalentemente le donne, per le quali il contratto di collaborazione rappresenta in numerosi casi una modalità di lavoro permanente, difficilmente sostenibile nel lungo periodo.
La maggioranza dei lavoratori parasubordinati è tutt’altro che giovanissima. Oltre il 54% degli iscritti alla Gestione separata Inps appartiene infatti alla generazione dei trentenni (il 32,8% del complesso) o a quella dei quarantenni (21,3%). Il 15,6% ha già compiuto almeno 50 anni, mentre uno su cinque ha meno di trent’anni (il 20,2%). L’analisi dei dati per sesso consente di osservare che per gli uomini lo status di lavoratore parasubordinato si accompagna ad una fase di avvicinamento verso l’uscita dal mercato del lavoro molto più spesso che per le donne (il peso degli over 49 è rispettivamente del 33,1% e del 17,2%).
Tra quest’ultime, diversamente, è più elevata la percentuale di quante vivono la condizione di collaboratrice non solo durante l’ingresso nel mercato del lavoro ma anche nella fase centrale delle propria vita personale e lavorativa (le donne tra i 30 e i 49 anni sono il 57,7% delle parasubordinate, contro il 51,1% degli uomini). Per la componente femminile dei lavoratori parasubordinati, il lavoro atipico si configura più frequentemente come modalità strutturale di stare sul mercato del lavoro. Questo è vero soprattutto al Sud, dove le difficoltà occupazionali riducono drasticamente le probabilità di passare ad un contratto standard: «Il lavoro atipico nel Mezzogiorno, dunque, rappresenta per molti lavoratori una condizione permanente (…), anziché un mezzo per ottenere un lavoro stabile, traducendosi così in una prolungata instabilità lavorativa con ricadute negative sulla vita privata e professionale dell’individuo.
“Co-pro”. Come sottolineato in una recente indagine dell’Ires – Nuovo contratto. Stessi problemi – sugli effetti della legge 30 nel passaggio dalle collaborazioni coordinate e continuative al lavoro a progetto, alla fine del 2004 appena il 4,9% di quanti un anno prima avevano un contratto di collaborazione coordinata e continuativa è transitato tra i lavoratori standard, mentre la stragrande maggioranza di essi (l’88,2%) è rimasto nell’area della parasubordinazione, senza peraltro assistere a una evoluzione delle proprie condizioni di lavoro in termini di autonomia rispetto al proprio datore di lavoro. Fallito il tentativo dichiarato dal legislatore di agevolare la stabilizzazione dei co.co.co e di contrastare l’uso improprio delle collaborazioni da parte delle imprese, la maggioranza dei collaboratori ha cambiato definizione senza cambiare datore di lavoro e/o condizioni lavorative. È quanto emerso dall’indagine, condotta su 640 lavoratori che tra giugno e agosto 2005 avevano un contratto di collaborazione – occasionale, co.co.co o co.pro – o che avevano lavorato con uno di questi contratti a giugno 2004. Monocommittenza, rispetto di un determinato orario di lavoro e presenza quotidiana in sede continuano a caratterizzare le modalità di lavoro dei collaboratori a progetto, in maniera del tutto simile ai co.co.co. L’83,4% dei co.pro (contro il 78,7% dei co.co.co) è tenuto a rispettare un determinato orario di lavoro; il 76,8% (l’83,5% tra i coordinati e continuativi) è tenuto a garantire la propria presenza quotidiana sul posto di lavoro ed il 79,3% (contro l’85,6% dei co.co.co) lavora presso la sede aziendale. È possibile osservare, inoltre, come i 3/4 dei collaboratori coordinati e continuativi e dei lavoratori a progetto lavori per un solo datore di lavoro; una condizione che non favorisce la creazione di reti professionali capaci di agire da cuscinetto in caso di mancato rinnovo del contratto e perdita dell’unica fonte di reddito, soprattutto in contesti dove le possibilità occupazionali sono limitate: «La monocommittenza rappresenta, per i collaboratori nel Mezzogiorno, un elemento addizionale di vulnerabilità, giacché le probabilità di non trovare lavoro nel caso di interruzione della collaborazione sono più elevate qui che nel resto del Paese». La contraddizione, legata al fatto di essere dipendente socio-economicamente dall’impresa per cui si lavora e di lavorare per essa con modalità del tutto simili a quelle del lavoro subordinato senza tuttavia godere delle tutele e del sistema di garanzie sociali da questo previste, caratterizza dunque la maggioranza dei collaboratori, e anche da molto tempo. La letteratura sul tema ha infatti evidenziato ampiamente come il lavoro flessibile molto spesso non rappresenti una modalità transitoria di stare sul mercato del lavoro. La ricerca dell’Ires lo conferma: 2/3 dei collaboratori intervistati lavorano presso l’attuale impresa da 2-3 anni (36,7%) o da oltre 4 anni (29,9%), sebbene con contratti che spesso non superano l’anno. Questa condizione espone i lavoratori atipici ad uno stato di incertezza permanente rispetto al proprio futuro. La cronicizzazione dello status di atipico investe tanto la sfera economico-professionale quanto quella sociale ed esistenziale. Il fatto che, come si è avuto modo di osservare, la maggioranza dei collaboratori appartenga alla generazione dei trentenni, aggiunge probabilmente ulteriore complessità al problema in quanto la condizione di arroccamento sul presente che caratterizza la vita di questi lavoratori rende ardua sia la tutela del proprio futuro – ben il 41% dei collaboratori intervistati nell’indagine dell’Ires afferma di essere consapevole dell’insufficienza dell’attuale copertura previdenziale ai fini pensionistici ma di non potersi permettere di ricorrere alla previdenza integrativa – che la costruzione di una famiglia, con costi individuali e sociali altissimi. Il fatto che l’82% del campione non abbia figli e che non ce li abbia, in particolare, il 58,3% delle collaboratrici maggiormente esposte al rischio di non poter più scegliere la maternità (le donne tra i 35 e i 39 anni) può dar conto, meglio di qualunque altro dato, il prezzo che sarà pagato dai collaboratori e dalla collettività in assenza di una ridefinizione organica delle politiche del lavoro e del sistema di tutele e ammortizzatori sociali.
Quali politiche?
Nel nostro Paese, appena 1/5 dei disoccupati beneficia di trasferimenti statali in caso di perdita del posto di lavoro – in molti paesi europei i trattamenti di disoccupazione coprono l’80% dei potenziali beneficiari – né esiste (anche in questo caso in controtendenza rispetto al resto d’Europa) un sistema di protezione di ultima istanza. Ben diversa la situazione in Danimarca, dove il lavoratore è scarsamente protetto dal licenziamento ma in caso di perdita di lavoro può fruire di un sussidio di disoccupazione che gli garantisce i 3/4 del salario anche dopo tre anni. Questo avviene grazie ad una spesa pubblica per i disoccupati pari al 2,8% del Pil, vale a dire sette volte di più rispetto allo 0,4% destinato dal nostro Paese per questa voce di spesa. La Danimarca spende infatti per la rete di protezione sociale il 30% del Pil – contro il 26,1% dell’Italia che si colloca all’11° posto nella Ue a 15 – assorbita per il 9,2% dalle misure rivolte ai disoccupati. A questa voce di spesa il nostro Paese destina appena l’1,7% della spesa complessivamente destinata alla protezione sociale, meno di tutti gli altri.