Atipici: una categoria in crescita. Secondo i numeri forniti dall’Inps, gli iscritti alla Gestione Separata sono saliti dai 974.087 del 1996 a 3.330.319 al 31.12.2004. Nel 2005, in base ai dati non ancora consolidati, l’ammontare degli iscritti sarebbe pari a 3.658.143. In dieci anni, il processo di “atipicizzazione” è cresciuto del 275%, con variazioni annue comprese tra l’8,6% e il 31%: purtroppo si assiste tuttora ad una cristallizzazione del mercato del lavoro in strutture atipico-precarie. Tali forme contrattuali, pensate per risolvere il problema della disoccupazione frizionale, sono diventate l’antidoto par excellence alla disoccupazione strutturale. Infatti, dal giugno 2004 ad oggi, il 75,3% dei collaboratori a progetto mantiene ancora lo stesso contratto, il 6,3% non lavora più oppure lavora in nero, e solo il 5% ha un contratto a tempo indeterminato. Più sconcertante il destino dei co.co.co. che, dal 2003 ad oggi, mantengono nel 23% dei casi lo stesso contratto, mentre il 46% ha stipulato un contratto a progetto e il 6% ha aperto la partita Iva: solo il 7% ha siglato un contratto a tempo indeterminato e il 6% a tempo determinato. Anche tra i collaboratori occasionali, la maggioranza è stata assorbita nella categoria a progetto (38,3%), mentre solo un’esigua parte di essi (2,1%) ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Diversa la sorte dei collaboratori con partita Iva che nel 73,4% dei casi mantengono ancora tale formula contrattuale, mentre il 10% è ora a progetto ed il 3,3% a tempo indeterminato.
Atipici: chi sono e dove vanno? Secondo un’indagine Ires (2005) oggi il mondo degli atipici è formato da trentenni (il 37% di età compresa tra i 30 e i 34 anni ed il 18,3% tra i 35 e i 39), per lo più donne, con un profilo professionale medio e medio-alto. Le professioni intellettuali costituiscono il 39,5%, quelle tecniche il 42,9% e quelle impiegatizie il 15%. Il 46% degli atipici possiede un diploma universitario o una laurea, e il 23,8% possiede una specializzazione post-lauream. Il 76,3% è monocommittente (contro un 23,7% pluricommittente), con un’età compresa per lo più tra i 29 e i 34 anni, con una durata massima del contratto di un anno (56,5%) o più difficilmente di due anni (15,2%). Il 79,3% lavora presso l’azienda committente, con presenza quotidiana (74%) oppure saltuaria (5,9%), mentre il 20,1% svolge la sua attività altrove. Più della metà dei lavoratori parasubordinati supera le 38 ore di lavoro settimanali: il 60,6% di essi sono lavoratori a progetto ed il 75,8% lavoratori con partita Iva. Tuttavia, le retribuzioni mensili non sono molto alte: infatti il 21,8% non supera i 1.000 euro al mese, mentre solo un esiguo 6% guadagna più di 2.000 euro. Oltre il 75%, inoltre, percepisce il reddito regolarmente, ogni mese, mentre il 5,7% dopo i due mesi ed il 7% con cadenze incerte ed irregolari. La grande insoddisfazione degli atipici per la loro condizione precaria li spinge alla ricerca di un lavoro dipendente, con maggiori redditi e tutele. L’86,1% infatti vorrebbe un contratto di lavoro subordinato, in modo particolare i collaboratori monocommittenti (63%) che lavorano presso l’azienda committente con contratto co.co.co. o a progetto, mentre la propensione al lavoro subordinato risulta essere minore per i collaboratori con partita Iva, per lo più pluricommittenti. Pertanto il 50,1% dei collaboratori sono alla ricerca continua di un lavoro migliore, mentre il 22,8% non è interessato ed il 9,6% non riesce a trovarlo.
La triste aritmetica delle pensioni atipiche. I collaboratori atipici, benché di fatto si comportino come lavoratori dipendenti (presenza sul posto di lavoro, monocommittenza, 38 e più ore di lavoro settimanali, regolarità dei pagamenti), non hanno ancora la piena cittadinanza sociale. I parasubordinati, infatti, percepiscono redditi inferiori del 40-50% rispetto a quelli dei loro pari dipendenti (e per le stesse mansioni non sono agganciati ai compensi minimi dei contratti nazionali di lavoro), non sono tutelati dal rischio di mercato, non hanno diritto ad indennità di disoccupazione e presentano ingenti necessità di tutela sociale. Inoltre, non viene tutelato il diritto alla formazione, come auspicato dalla Costituzione e dall’Ue, ma soprattutto l’accesso al credito, con le ineluttabili conseguenze che ne derivano. Secondo uno studio Nidil (2004) un parasubordinato, privo di contributi al 31.12.1995 (e cioè soggetto a sistema contributivo), iscritto alla Gestione Separata Inps senza altre coperture previdenziali, con un reddito di 12.000 euro lordi annui, dopo 40 anni di contribuzione potrebbe percepire a 65 anni una pensione annuale di 12.751,56 euro, pari a 980,89 euro mensili che attualizzati ammonterebbero a 453,12 euro. Con 35 anni di contributi lo stesso collaboratore percepirebbe una pensione annuale di 8.503,30 euro, pari ad una pensione mensile di 654,10 euro, che attualizzata ammonta a 333,61 euro. Considerando che l’assegno sociale 2005 è pari a 4.874,61 euro (maggiorato del 20% ammonta a 5.849,53 euro annuale e 450 euro mensile), ci si rende subito conto che le pensioni future sono prossime all’assegno e, quindi, che il sistema contributivo spinge ad andare in pensione ad una età più elevata poiché i coefficienti di trasformazione crescono con l’età pensionabile. Infatti, un collaboratore che abbia cominciato a lavorare a 18 anni, dopo 40 anni di contribuzione, percepirebbe una pensione annuale di 10.099,83 euro, inferiore a quella di un lavoratore con le stesse caratteristiche che decide, però, di andare in pensione a 65 anni: per avere la stessa pensione, dunque, tale collaboratore dovrebbe lavorare 46 anni. Qualora si incrementasse l’aliquota di computo di 5 punti, salendo dal 20% al 25%, la condizione migliora, ma non di molto.