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[ ANNO II – GENNAIO 2006 – NUMERO 04 ] VERSO L’EDILIZIA SOCIALE

Una recente ricerca del Cresme rileva che la quota di abitazioni sociali presenti sul territorio italiano è molto al di sotto della media europea, con un’incidenza percentuale del 4% sul patrimonio abitativo e del 21% sulle locazioni. Solo Spagna e Portogallo hanno un’incidenza percentuale inferiore a quella del nostro Paese. Il confronto con i paesi europei è poco confortante anche per quello che concerne i sussidi governativi per la casa: la percentuale sul Pil è dell’1,9% in Francia, dello 0,73% in Spagna, dello 0,70% in Svezia, dello 0,60% in Olanda, dello 0,50% in Portogallo, dello 0,30% in Germania, dello 0,20% in Belgio, dello 0,10% in Irlanda e dello 0,07% in Italia; solo la Grecia ha una percentuale più bassa.
Il disimpegno pubblico in tema di costruzioni si evince chiaramente anche dai dati Istat: dalle 34mila abitazioni costruite con sovvenzioni pubbliche nel 1984 si scende alle circa 2mila nel 2004, con un forte decremento soprattutto tra il 1988 e il 1993 (da circa 22mila a 6mila costruzioni). I trasferimenti per cassa dallo Stato alle Regioni per l’edilizia residenziale sono diminuiti costantemente nell’ultimo triennio, passando dagli 1,5 miliardi nel 2002 agli 808 milioni del 2004, con una riduzione del 55%. A fronte di questo evidente disimpegno del settore pubblico, si evidenzia una rilevante crescita delle imprese nella promozione di nuove iniziative immobiliari: si passa dal 32% del 1984 al 50% del 2004, mentre il pubblico scende dall’8 all’1% e il ruolo delle cooperative dal 15 al 7%. Nel corso di questi ultimi anni l’edilizia residenziale pubblica diventa una componente della più vasta visione di insieme, volta a contrastare la povertà urbana. Promuovere una politica per l’abitare rispetto ad una politica per la casa vuol dire rendere accessibili i quartieri e collegarli alla città nel suo insieme. Allo stesso tempo è necessario realizzare interventi in ambito sociale, perché la costruzione di un nuovo edificio, da sola, non soddisfa pienamente l’esigenza di migliorare le condizioni di vita.Il termine “edilizia residenziale pubblica” comincia ad essere sostituito da quello di “edilizia sociale” nell’ambito di un nuovo sistema di welfare. Tra i vari tipi di interventi complessi attuati, i “Programmi di recupero urbano” si sono proposti soprattutto di sanare i problemi, di natura fisica e sociale, che sono nati nel corso degli anni nei quartieri di edilizia residenziale pubblica. Anche i “Programmi di riqualificazione urbana” (legge 179/1992, art.2), non legati specificamente alla riqualificazione dell’edilizia pubblica, hanno avuto una rilevanza significativa in termini di quantità e qualità di edilizia sociale integrata. A partire dagli anni Novanta fino a oggi, le Regioni sono state investite progressivamente in maniera sempre più significativa di un ruolo centrale rispetto alle politiche abitative. La riforma del Titolo V della Costituzione affida la politica abitativa alle Regioni, spingendole verso l’autonomia, mentre allo Stato, anche a seguito di una progressiva riduzione di risorse, si riserva solo un ruolo di promozione delle innovazioni e delle attività di facilitazione. I Comuni, quindi, hanno assunto un ruolo decisivo nelle politiche per l’edilizia sociale, per quanto riguarda la programmazione, l’attuazione e la gestione anche nel contesto di piani strategici: sono diventati protagonisti attivi di progettazione integrata e di sollecitazione/coinvolgimento dei soggetti di offerta potenziale. La sempre crescente domanda proveniente da particolari categorie (anziani, giovani coppie, immigrati, studenti) si esprime in un momento in cui le risorse pubbliche scarseggiano a tal punto che, in numerose Regioni, nei bandi per il finanziamento di programmi integrati viene inserito un parametro che stabilisce l’obbligo di realizzare una determinata percentuale di edilizia sociale rispetto al complesso degli interventi.
Meno affitti, più mutui: cresce l’indebitamento delle famiglie. Nel corso degli ultimi anni i bassi tassi d’interesse, praticati dal mercato, hanno incentivato numerose famiglie ad acquistare l’alloggio. Le famiglie affittuarie sono scese dal 47% del 1961 al 19% del 2004, passando per il 36% del 1981: ciò implica sicuramente la necessità di ripensare e di attivare in forma decisa una politica degli affitti o di sostegni significativi per l’accesso in proprietà. Queste questioni acquistano maggiore rilevo soprattutto considerando che i canoni di affitto degli appartamenti, tra il 1998 e il 2004, sono cresciuti del 49% a livello nazionale, dell’85% nelle grandi città e del 67% nei capoluoghi di provincia (Cresme – Anci, 2005). Nello stesso lasso di tempo il sostegno all’affitto da parte dello Stato è calato del 48%. Negli ultimi cinque anni i canoni medi mensili sono cresciuti, in particolare, del 139% a Venezia, del 105% a Napoli, del 92% a Milano, del 91% a Roma, dell’86% a Genova, dell’84% a Bologna, dell’81% a Firenze e del 79% a Torino. Gli affitti medi sono molto alti in particolare nelle grandi metropoli. Nel 2004 si pagavano 1.650 euro a Milano, 1.520 a Venezia, 1.440 a Roma, 1.330 a Firenze, 1.170 a Napoli e 1.100 a Bologna. Tali valori sono ben al di sopra sia della media nazionale (500 euro), sia dei capoluoghi di provincia (860 euro). A fronte di questa evoluzione dei prezzi, insieme al basso livello dei tassi di interesse, si evidenzia una crescita dell’indebitamento delle famiglie italiane per acquistare la casa: nel 2004, le somme da restituire alle banche hanno superato i 160 miliardi di euro. Negli ultimi 5 anni tale indebitamento è cresciuto del 130%.