Numeri e aspetti della pressione migratoria. Le presenze di immigrati regolari in Italia toccano ormai i 2 milioni e 600mila. Un dato superiore a quello registrato dal Ministero dell’Interno (circa 2,2 milioni), perché comprensivo anche dei 400.000 minori, aumentati al ritmo di 65.000 l’anno. Nonostante la formalizzazione dei permessi di soggiorno e dei contratti di lavoro di coloro che avevano fatto richiesta di regolarizzazione nell’anno precedente, il 2003 è stato per l’Italia un anno di relativa chiusura: senza tenere conto dei 68.000 visti per lavoro stagionale; e se ai 19.500 visti per inserimento lavorativo come autonomi o dipendenti, si aggiungono 66.000 visti per ricongiungimento familiare, 18.000 per motivi di studio e 4.000 per motivi religiosi, il totale di ingressi ha toccato 107.500 unità.
Tre i gruppi nazionali di provenienza (Romania, Marocco e Albania), ciascuno con circa 230/240mila soggiornanti registrati, che hanno rafforzato la loro consistenza. Al quarto posto balza sorprendentemente l’Ucraina (113.000), seguita dalla Cina (100.000). Nella fascia tra le 70.000 e le 60.000 presenze troviamo Filippine, Polonia e Tunisia; ma è anche consistente il gruppo di paesi con 40.000 presenze (Stati Uniti, Senegal, India, Perù, Ecuador, Serbia, Egitto, Sri Lanka). Per quanto riguarda i Continenti si impone la presenza europea con quasi la metà del totale (47,9%), di cui solo il 7% costituito da cittadini comunitari.
Dal punto di vista “religioso”, il notevole aumento degli immigrati dell’Est Europa, in prevalenza ortodossi, ha portato i cristiani a sfiorare la metà del totale (49,5%), seguiti dai musulmani (33%, con un terzo delle presenze). I fedeli di religioni orientali si attestano sul 5%, mentre gli altri gruppi hanno una rappresentanza piuttosto ridotta (gli ebrei, ad esempio, sono lo 0,3%).
La convivenza multireligiosa in un contesto a maggioranza cristiana viene affrontata anche in riferimento ad aspetti concreti, come ad esempio quello delle classi confessionali e dei simboli religiosi, nelle scuole e negli edifici pubblici, verso i quali gli italiani si mostrano abbastanza aperti (il 70% si dichiara contrario ad una legge restrittiva come quella approvata in Francia).
Quanto alle classi di età, la stima sull’incidenza dei minori è scesa al 15,6%, anche perché gli oltre 600.000 regolarizzati oggi sono per lo più identificati come “adulti”. La classe di età tra i 19 e 40 anni (1,5 milioni di persone) incide per il 58,5% sul totale; quella di 41-60 anni per il 21,1% e gli ultrasessantenni per il 4,8%. I coniugati sono la metà del totale (49,9%), con una flessione di due punti percentuali rispetto all’anno precedente: una flessione dovuta all’aumento di quasi quattro punti percentuali dei celibi/nubili (passati al 46%).
Presenze e insediamenti territoriali. A livello nazionale, gli immigrati hanno un’incidenza del 4,5% sulla popolazione complessiva del nostro Paese. Se la presenza e l’insediamento territoriale e regionale degli immigrati si dovessero esprimere con una sorta di modulo calcistico, si dovrebbe parlare del 6-3-1: grosso modo 60% nel Nord (1 milione e 500mila immigrati, con netta prevalenza della Lombardia che ne conta 606mila), il 30% nel Centro (710mila, con epicentro nel Lazio che arriva a 369mila immigrati) e il 10% (357mila) nel Meridione, dove primeggia la Campania (121mila).
Secondo un’indagine recente (2004) presso i comuni con più di 15.000 abitanti gli interventi prioritari su cui sarebbe auspicabile far convergere gli investimenti a favore degli immigrati dovrebbero riguardare, nell’ordine: l’accesso all’abitazione (43%), il lavoro (22%), la scuola (12%), i minori non accompagnati (6%), l’associazionismo (4%), le relazioni interculturali (2%) e la diffusione della lingua italiana (1%).
I perché dell’immigrazione e il difficile percorso dell’integrazione. I due terzi (66,1%) degli immigrati sono venuti per lavoro (aumentati numericamente e in percentuale) e circa un quarto (24,3%) per motivi di famiglia. I due motivi assommano così il 90% delle presenze e mostrano la fortissima tendenza all’inserimento stabile. La quota dei soggiorni per lavoro, a seguito della regolarizzazione, è aumentata di 10 punti percentuali: da 834.000 sono passati a 1.450.000.
Complessivamente il 97% dei permessi di soggiorno viene rilasciato per motivi di insediamento e ciò relega in una dimensione decisamente anacronistica l’idea dell’immigrazione come fenomeno congiunturale. Gli immigrati presenti in Italia da lungo tempo permettono di registrare quel processo di “insediamento duraturo” che si è realizzato a partire dagli anni Novanta e che implica il radicamento nella società italiana, implementando la convivenza di tradizioni, lingue, culture e religioni differenti.
I mass media attestano la persistenza di intolleranza razziale nei confronti di cittadini stranieri. Nel corso di 5 anni, pur essendo diminuiti in termini assoluti i casi di violenza (spesso rivolta a donne singole, per lo più da parte di sfruttatori, o anche a minori), sono tuttavia aumentati quelli dichiaratamente razzisti.
Un’altra indagine mostra come il pregiudizio razziale in Italia sia più presente in regioni del Nord come Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Secondo una recente inchiesta, quasi il 50% del campione interpellato ritiene che gli immigrati debbano “tornarsene a casa loro”, soprattutto per la paura dell’“accerchiamento” o della perdita di identità e tradizioni. Altra strisciante discriminazione riguarda l’accesso all’alloggio: il 57% degli affittuari di 5 città del Nord Italia e di 7 del Centro sono contrari ad affittare a immigrati. Sembra tuttavia riscontrarsi una maggiore attenzione e disponibilità sul piano culturale: risulta, infatti, un sostanziale favore degli italiani al mantenimento delle proprie usanze da parte degli immigrati (55%). Il 63% è anche favorevole alle coppie miste tra italiani e stranieri e ben il 69% ritiene tollerabile il velo islamico in quanto paragonabile a simboli di altre religioni; anche se, al contrario, il 40% è poco o per nulla favorevole alla costruzione di nuove moschee.
Sistema produttivo e inserimento lavorativo. Gli immigrati hanno avuto un significativo impatto sull’ambito occupazionale con 771.813 casi di assunzioni a tempo indeterminato (18,9% del totale) e con 214.888 casi di assunzioni a tempo determinato (10,1% del totale). Complessivamente, una assunzione di immigrato ogni 6: al Nord si concentra il 70% di tutte le assunzioni, al Centro il 20% e al Meridione solo il 10%. Nel 2003, anno in cui sono stati registrati i contratti stipulati a seguito della regolarizzazione, l’incidenza delle donne sulle assunzioni ha toccato il 49,6%. Considerando le assunzioni per settori produttivi, il 7,4% spetta all’agricoltura, il 21,7% all’industria e il 27,2% ai servizi: resta un altro 43,7%, costituito prevalentemente da rapporti nel settore domestico. Per quanto riguarda le nazionalità e l’area geografica di provenienza, il mercato del lavoro privilegia gli immigrati provenienti da aree continentali vicine per cultura, tradizioni, formazione professionale e religione: cioè l’Europa centro-orientale e l’America Latina. Il numero maggiore di assunzioni a tempo indeterminato riguarda la Romania (14,4%), seguita dall’Albania (9,4%), dall’Ucraina (8,9%) dal Marocco (8,6%) e dalla Polonia ( 4,5%). Seguono poi l’Ecuador (con il 3,6%) e le Filippine (con il 3,3%).
Agli immigrati dell’Est Europa spetta il 45% di queste assunzioni, ai nordafricani il 15% e ai latinoamericani il 14%. Un andamento analogo si riscontra nei contratti a tempo determinato. Tra gli aspetti più dinamici della realtà lavorativa vi è il settore imprenditoriale: gli imprenditori stranieri sono risultati 71.843 (al 31 giugno 2004), con un’incidenza del 2% sul totale delle imprese.
CPT, migranti “clandestini” e altro. Ma che cosa sono i Centri di Permanenza Temporanea? In attesa dell’espulsione, gli immigrati clandestini e irregolari vengono indirizzati e trattenuti nei cosiddetti CPT (Centri di Permanenza Temporanea), dove si procede all’identificazione e al riconoscimento. Nei Cpt è previsto anche il trattenimento dei rifugiati che hanno fatto richiesta di asilo nel nostro Paese (nel caso specifico, questi centri vengono denominati CdI (Centri di Identificazione).
Normativa di riferimento per i CPT. Il sistema dei Centri di permanenza temporanea (Cpt) è stato predisposto nel 1998 con la legge 40 (Turco-Napolitano) e confermato in toto nel 2002 con la legge 189 (Bossi-Fini), eccetto per il periodo massimo di trattenimento nei Cpt, che sempre la Bossi-Fini ha esteso da 30 a 60 giorni. Il sistema è stato creato per consentire allo Stato italiano di rimpatriare i cittadini stranieri extracomunitari, entrati clandestinamente e intercettati sul territorio senza regolare permesso di soggiorno. Il trattenimento in questi Centri è necessario alle autorità per identificare lo straniero attraverso accertamenti congiunti con le rappresentanze diplomatiche del paese di appartenenza e per preparare i documenti necessari al rimpatrio.
I Cpt, chiamati impropriamente ed erroneamente centri “di accoglienza” (anche se originariamente erano siglati Cpta, ovvero Centri di permanenza temporanea e assistenza), in realtà sono luoghi “di soggiorno coatto”, “di detenzione e sospensione dei diritti”, “gabbie”, “lager “ o “prigioni”, “luoghi di detenzione militarizzati”, “luoghi della scomparsa” (questi i titoli riportati dai mass media), dove sostano coloro che devono essere espulsi dall’Italia. Nel 2003, alcuni di questi centri sono stati visitati, osservati e messi pesantemente sotto accusa da un Rapporto di Medici Senza Frontiere (Msf)-sezione Italia, reso pubblico nel 2004.
Libertà e filo spinato. È un quadro a dir poco sconcertante quello tracciato dall’organizzazione “Medici senza frontiere”. Oltre le carenze nelle strutture e i dubbi sugli stessi presupposti che hanno portato all’istituzione dei centri, nel corso delle visite, Medici senza frontiere ha tra l’altro rilevato un’eccessiva ingerenza delle Forze dell’ordine e un clima generale di tensione, che in non pochi casi va a sfociare in risse ed episodi di autolesionismo. Una situazione che si aggrava anche per via di una folta presenza (per una media del 60%, con punte fino al 95% in casi particolari) di persone che vengono dall’esperienza carceraria, e che spesso allo scadere della pena vengono nuovamente rinchiuse per poter essere poi rimpatriate. In media il 60-70% della popolazione all’interno dei Centri proviene dal carcere.
Chi gestisce i centri e i conti in tasca. Cinque sul totale dei Centri attualmente esistenti in Italia sono gestiti dalla Croce Rossa (Roma, Torino, Milano, Bologna e Caltanissetta) e 3 dalle Misericordie (Modena, Agrigento e Crotone). Mentre il Centro di San Foca (in provincia di Lecce) è gestito direttamente dalla Fondazione Regina Pacis, diretta emanazione dell’Arcidiocesi, quello di Restinco (in provincia di Brindisi) gestito dall’Associazione “Fiamme d’Argento” (vale a dire l’organizzazione dei Carabinieri in pensione); a Lamezia Terme, invece, è gestito da “Malgrado tutto”, una cooperativa di volontari della Protezione civile.
Le convenzioni firmate tra le Prefetture e i rispettivi gestori dei singoli Centri variano dai 27 euro al giorno di Restinco agli 80 euro di Bologna. Per esempio, nel caso di Bologna, i posti a disposizione sono 97, che al momento della visita di Medici senza frontiere erano tutti occupati. Se si ipotizza, ragionando per difetto, una media di 90 persone al giorno e si moltiplica per 365 giorni, viene fuori che in un anno il centro di permanenza di Bologna è costato ben 2 milioni e 680mila euro. Senza dimenticare poi che i rimpatri non sono affatto una cosa scontata. Un caso, a titolo di esempio: se nel 2003 su 14mila trattenuti ne sono effettivamente stati rimpatriati circa 6mila, si può immaginare quanto complessivamente venga a costare ogni provvedimento. La Finanziaria del 2004, infine, prevedeva 105 milioni di euro per la gestione ordinaria dei Cpt.

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