La criticità del rapporto banca-impresa. La relazione tra sviluppo dei mercati finanziari e crescita economica è da tempo oggetto di dibattito; di rilievo è il rapporto tra istituzioni finanziarie e vitalità del sistema imprenditoriale. Risulta ormai accertato che lo sviluppo dei mercati e degli intermediari finanziari influenzi positivamente la crescita del prodotto e contribuisca a spiegare le differenze nel reddito pro capite osservate nel confronto internazionale.
Le moderne teorie della crescita economica hanno dimostrato l’esistenza di una relazione positiva tra sviluppo finanziario (o intermediazione finanziaria) e crescita economica. Molti studi hanno cercato di stabilire se la “profondità” della struttura finanziaria conduca ad un miglioramento della crescita e di analizzare la solidità di tale relazione. La quasi totalità degli studi realizzati suggeriscono una forte e positiva correlazione tra sviluppo della struttura finanziaria e crescita economica, enfatizzando tuttavia differenti canali di trasmissione. I risultati degli studi empirici realizzati tendono a dare credibilità al fatto che il ruolo dell’intermediazione finanziaria sia specificamente quello di migliorare l’efficienza degli investimenti più che il loro volume. In altri termini, gli intermediari finanziari giocano un ruolo centrale nell’allocazione del capitale verso gli investimenti migliori. Goldsmith (1985), inoltre, si è preoccupato di calcolare l’indice FIR (Financial Interrelation Ratio) dato dal rapporto tra tutte le attività finanziarie emesse da istituzioni, finanziarie e non, e la ricchezza nazionale reale. Egli ha osservato come il Fir aumenti con lo sviluppo economico. L’evoluzione del Fir ha dimostrato che le fonti esterne di finanziamento sono state parte integrante del processo di industrializzazione e che i sistemi finanziari moderni si sono sviluppati durante le prime fasi dell’industrializzazione e non successivamente. Che la compenetrazione fra banche e imprese possa costituire il cardine su cui fondare lo sviluppo di un’area è fin troppo ovvio. Ma si avverte anche la necessità di riconsiderare in chiave critica il fenomeno della compartecipazione tra banche e imprese evidenziandone gli aspetti più qualificanti e preoccupandosi di fornire un valido contributo al superamento degli elementi di criticità e di frizione insiti nel fenomeno stesso.
Alcuni dati sul rapporto banca-impresa in Italia. Punto di partenza dell’analisi storico-evolutiva del rapporto banca-impresa è l’analisi delle principali voci dello Stato Patrimoniale aggregato del sistema bancario italiano, le quali consentono di far luce sulla situazione attuale e sugli elementi di maggiore problematicità. L’analisi dei dati, mostra come nel periodo intercorrente tra il 1995 e il 2002 si sia pressoché dimezzato l’assorbimento di risorse finanziarie da parte dello Stato e degli Enti pubblici. Risulta invece più che raddoppiata (passando da 50 a 124 miliardi) la domanda di finanziamenti da parte delle imprese; i prestiti alle famiglie sono anch’essi fortemente aumentati. Alla fine del 1995 le famiglie italiane possedevano 1.712 miliardi di euro di attività finanziarie. Alla fine del 2002 le attività finanziarie delle famiglie erano cresciute a 2.494 miliardi, con un aumento del 46% rispetto a sette anni prima. L’ammontare di azioni e obbligazioni emesse da imprese e detenute direttamente dalle famiglie è stimabile in 294 miliardi; il volume della sola componente obbligazionaria si è quintuplicato nei sette anni, passando da 6 miliardi nel 1995 a 30 miliardi nel 2002. Che le famiglie italiane detengano in portafoglio un maggiore ammontare di titoli azionari e obbligazionari costituisce senza dubbio un elemento più che positivo e sintomo di una maggiore cultura finanziaria delle famiglie italiane, oltre che di una maggiore propensione al rischio. Il pericolo, tuttavia, è che scandali come Cirio e Parmalat possano minare la credibilità del sistema bancario e finanziario nel collocamento di titoli di diversa specie e bloccare – o quantomeno rallentare – l’attuale trend di crescita.
Per ciò che attiene al sistema dei finanziamenti bancari alle imprese, risulta evidente come la categoria rappresentata dai prestiti a medio-lungo termine – nel decennio che va dal 1992 al 2001 – sia rimasta sostanzialmente stabile nel comparto delle imprese private, mentre risulta considerevolmente aumentata la componente rappresentata dal complesso dei debiti a breve termine. Da considerare, in questo quadro, che buona parte del finanziamento a breve termine viene investito dalle imprese in beni strutturali; ciò crea inevitabilmente una situazione di missmatching finanziario che provoca inevitabili difficoltà finanziarie delle imprese a rientrare tempestivamente del proprio indebitamento davanti a una richiesta in questo senso della banca erogante.
Grado di compenetrazione e implicazioni sulla governance delle imprese. Le imprese italiane mostrano un elevato utilizzo dei finanziamenti bancari superando abbondantemente la media dei principali paesi europei e degli Stati Uniti. L’analisi dei dati mostra come le imprese italiane abbiano un rapporto debt/equity pari a 1, superiore a quello degli Usa e quasi doppio rispetto a quello della Germania e della Francia che – negli ultimi 15 anni – ha assistito a una diminuzione di tale rapporto da oltre 1 a 0,5. Da ribadire, inoltre, che le imprese italiane sono sbilanciate verso forme di finanziamento a breve termine. Infatti, l’incidenza del debito a breve sul totale dell’indebitamento in Italia è pari al 65% contro il 25% in Francia, e il 44% in Spagna e Germania. Pur avendo una capacità di generare cassa più che soddisfacente rispetto agli altri paesi di riferimento, le imprese italiane subirebbero in tutta la loro gravità gli effetti di questo indebitamento nell’ipotesi di un più o meno brusco aumento dei tassi di interesse. Ciò sarebbe particolarmente vero per le Pmi, incapaci di attivare forme innovative di finanziamento e meno protette dal sistema bancario. In realtà l’Italia risulta configurarsi come un paese con scarse risorse e con strumenti limitati di finanziamento. Mancano gli investitori istituzionali, limitata è l’attività dei fondi chiusi e il sistema bancario risulta essere imperniato sul modello della banca commerciale. Il tentativo di recuperare efficienza – in termini di riduzione di costi – ed efficacia – in termini di più qualificati servizi alla clientela – ha indotto il settore bancario, nel corso degli anni Novanta, a una corsa spasmodica verso un processo di fusioni, acquisizioni e alleanze strategiche. La crescita dimensionale ha permesso alle banche di dotarsi di quel livello di patrimonializzazione indispensabile per l’espletamento di alcuni servizi a più alto valore aggiunto (tra cui, ad esempio, servizi di capital market) e di acquistare importanti partecipazioni nelle imprese industriali, sostituendo, in modo spesso improprio, quel ruolo di fornitore di equity che, per definizione, spetta al mercato borsistico.
L’incremento di efficienza – da riscontrarsi in un calo dei costi operativi – e di efficacia – da valutarsi attraverso l’incremento del margine di intermediazione – ha avuto palesi riscontri in capo alle banche del Centro-Nord laddove meno evidenti sono stati i benefici nelle banche del Mezzogiorno.
Il rapporto sofferenze/impieghi mostra un evidente maggiore rischiosità dell’attività bancaria nel Mezzogiorno. È fin troppo ovvio, pertanto, l’atteggiamento delle banche che preferiscono effettuare più consistenti investimenti nel Centro-Nord e trasferirvi una parte delle risorse finanziarie raccolte al Sud.
Da considerare, inoltre, la dimensione del mercato azionario italiano che risulta abbastanza modesta: l’incidenza della capitalizzazione di Borsa Italiana sul Pil è del 38% contro il 61% di quella francese e il 45% di quella tedesca. La vera anomalia che caratterizza la Borsa Italiana è rappresentata dal numero di società quotate. Nel 1907 le società quotate alla Borsa di Milano erano 171 mentre attualmente il livello raggiunto risulta essere pari a 276. Tale dato può essere maggiormente apprezzato se si considera che sia in Francia che in Germania le società quotate oggi sono circa 850.
L’Indice di interrelazione finanziaria (Fir), negli ultimi venti anni, si è pressoché raddoppiato nella media dei 6 principali paesi industriali; esso, tuttavia, nel 2002 era pari a 1,14 per l’Italia e 1,72 per la Germania.
L’alto livello di prestiti erogati dalla banche al sistema industriale fa sì che le stesse esercitino un ruolo di comando all’interno delle società finanziate con l’obiettivo di riportare su più elevati livelli di efficienza la gestione delle imprese. Unicredito, Capitalia, Banca Intesa, Bnl, Mps e San Paolo Imi rappresentano per certi versi i padroni dei gruppi industriali più indebitati, al punto da intervenire concretamente nelle scelte più delicate di governance, nella definizione dei piani industriali e in ogni decisione di finanza straordinaria.
In realtà, a determinare tale situazione di sudditanza del mondo imprenditoriale nei confronti del sistema bancario è stato l’atteggiamento delle stesse imprese che negli ultimi anni hanno privilegiato una crescita per linee esterne attraverso costose acquisizioni ed un massiccio utilizzo della leva finanziaria piuttosto che puntare su una crescita per vie interne. Un esempio è rappresentato dalla Fiat, dove gli istituti di credito hanno spinto per il cambio al vertice e sono stati coinvolti attivamente nella predisposizione del piano di rilancio del settore auto e anche nella revisione del put con General Motors. Stessa situazione di “quasi sudditanza” la si può intravedere nei gruppi Pirelli Telecom, Benetton Autostrade, Sai Fondiaria, solo per citare alcuni tra i nomi più blasonati dell’industria italiana.
In generale risulta logico asserire che le banche e le imprese debbano collaborare ed intrecciarsi. La situazione italiana si presenta però del tutto particolare, in quanto le passività finanziarie delle imprese sono legate per il 45% a prestiti bancari contro il 15% della Gran Bretagna e il 20% della Francia, mentre al contrario l’equity pesa per il 40% in Italia contro rispettivamente il 64% e il 70% degli altri due paesi. In effetti, se si guarda il funding medio delle aziende italiane, il grosso è rappresentato da mezzi di terzi, e di questi l’80-85% è delle banche. Il gearing (dato dal rapporto tra debito netto e patrimonio) è uno dei più elevati d’Europa e, se si considera che il mercato dei corporate bond in Italia è poco diffuso, le conclusioni che si possono trarre attengono a una eccessiva esposizione nei confronti del credito bancario.
Dal nostro punto di vista, è lecito notare che le banche che prestano soldi alle imprese rischiano e spesso hanno margini di guadagno ridotti. Per questo è loro diritto-dovere esprimersi sulle grandi scelte strategiche delle aziende. Ciò che va accuratamente evitato, tuttavia, è il sistematico ricorso a interventi diretti nelle scelte di gestione come troppo spesso è accaduto in passato.
Ma quali sono le banche con una maggiore propensione ad esercitare una funzione di comando nelle imprese debitrici? E quali società sono più deboli di fronte alle richieste degli istituti di credito? Cifre ufficiali non esistono perché, per legge, non è possibile sapere chi è debitore di una banca e per quale ammontare. Alcuni dati però trapelano dal mercato e permettono di effettuare alcune stime. Cifre ufficiali su Fiat dimostrano un forte peso dello schieramento delle grandi banche. Non solo la partecipazione azionaria di San Paolo Imi (2%) e di Mediobanca (2,2%), ma anche il ruolo di Banca Intesa, San Paolo Imi, Capitalia e Unicredito nel prestito convertendo, in cui sono coinvolte con Deutsche Bank, Bnl e Mps. Intesa, Capitalia e San Paolo Imi sono anche azioniste di Italenergia bis e finanziatrici di Edison. Passando al gruppo Pirelli Telecom, si può notare come Intesa e Unicredito siano azionisti di Olimpia (hanno l’8,4% ciascuna) e siano anche finanziatrici una esposizione di 520 milioni di euro ciascuna. Benetton Autogrill, dal canto suo, oltre ad avere come azionista con circa il 2% la Popolare di Milano, ha legami con Mps, San Paolo Imi e soprattutto Unicredito che, insieme a Mediobanca, ha coordinato il pool di banche che avevano finanziato a suo tempo l’Opa e che hanno di recente concesso un finanziamento enorme pari a 8,3 miliardi di euro (con rating A3 di Moody’s). Il caso più anomalo probabilmente è rappresentato dalla Fondiaria Sai, unica compagnia tanto indebitata in un settore per definizione liquido. Tutti intrecci azionari e di finanziamento che aprono la discussione sulla trasparenza della corporate governance e sui conflitti di interesse.
La situazione più controversa sembra palesemente quella della Bnl, coinvolta negli ultimi tempi in una lotta interna tra il “patto” di sindacato (che controlla il 28% dei diritti di voto) e il “contropatto” (titolare del 19,1% dei diritti di voto) dell’istituto bancario. A contendersi l’istituto di via Veneto sono istituzioni bancarie (Banco Bilbao Vizcaya) e finanziarie (Generali) oltre a una nutrita schiera di imprenditori. Una tale situazione testimonia il fatto che in Italia accanto all’influenza esercitata dalle banche sulla governance delle imprese, esistono situazioni in cui gli assetti proprietari e gestionali delle banche sono determinati da influenti famiglie del capitalismo italiano.
Ciò comporta inevitabili ripercussioni sui conflitti di interesse tra azionisti rilevanti e banche che erogano i cosiddetti crediti “di collegamento”. In effetti, di recente, lo stesso Fondo Monetario Internazionale è intervenuto per sollecitare il governo italiano e la Banca d’Italia a stabilire delle regole trasparenti sui crediti di collegamento, ovvero i prestiti che le banche concedono agli azionisti rilevanti degli stessi istituti di credito. Più in particolare, nel documento del Fondo Monetario Internazionale si richiamano due anomalie nella normativa italiana che regola i fidi: in primo luogo occorre prevedere limiti quantitativi ai crediti di collegamento; in secondo luogo, i finanziamenti devono essere concessi a tassi “di mercato” e non a condizioni “di favore”.
Responsabilità sistemiche e nuove regole da adottare. La compenetrazione banca-impresa ha, per molti versi, messo in evidenza pericoli di scarsa trasparenza nei confronti dei risparmiatori e, più in generale, di tutti gli stakeholder direttamente coinvolti nella vita delle società. In tal senso, pertanto, se si considera l’oggettiva difficoltà di attenuare questo processo di integrazione in itinere, si comprende come le Autorità di Vigilanza siano più che mai chiamate a intervenire per porre un freno e un rimedio a tutte quelle situazioni potenzialmente degenerative.
È fin troppo ovvio che in un moderno sistema finanziario le regole della vigilanza debbano essere considerate centrali al fine di garantire la necessaria trasparenza e correttezza. Non a caso, nel corso degli anni, le autorità preposte alla definizione delle regole di condotta hanno cercato nuovi percorsi e nuovi criteri in grado di interpretare le dinamiche in costante evoluzione che influenzano i mercati e i sistemi finanziari. È necessario, tuttavia, far notare che i miglioramenti ottenuti dal sistema di vigilanza in Italia non sono stati capaci di evitare degenerazioni che hanno provocato le attuali crisi d’impresa.
Il crak Parmalat – per citare un esempio emblematico – ha messo in evidenza la crisi sistemica dell’attuale modello di Vigilanza.

0 Comments

Leave a reply

associazione - progetto - collabora - identificati - note legali - privacy - contatti

Associazione Lucanianet.it c/o Broxlab Business Center | P.zza V. Emanuele II, 10 | 85100 Potenza tel.+39 0971.1931154 | fax +39 0971.37529 | Centralino Broxlab +39 0971.1930803 | ­www.lucanianet.it | info@lucanianet.it Testata Giornalistica registrata al tribunale di Potenza n° 302 del 19/12/2002 | ­C.F. 96037550769 Invia un tuo contributo tramite bonifico bancario alle seguenti coordinate IBAN : IT 31 E 08784 04200 010000020080

Log in with your credentials

Forgot your details?