Della durata del processo penale. Quanto un cittadino innocente debba aspettare per vedere riconosciuta la propria innocenza non è dato sapere, essendo assenti le statistiche sui proscioglimenti, le archiviazioni e le assoluzioni. Possiamo solo giudicare dell’efficienza della macchina penale in base alla sua reazione nei confronti dei delitti. Interessanti, da questo punto di vista sono i dati sul tempo che trascorre tra la data in cui il delitto è stato compiuto e la data della condanna di un imputato per quello stesso delitto. Non mancano le sorprese positive. Nel caso dei furti (il reato più denunciato in Italia: 1.540.619 nel 2002, pari al 54,29% del totale) ben 8.752 procedimenti esauriti con la condanna dell’imputato in primo grado si concludono a soli 3 mesi dall’avvenuto delitto, arco di tempo nel quale vanno incluse la denuncia, le indagini, l’arresto del sospetto, l’istruzione del procedimento, il suo svolgimento e la decisione. In media, tra procedimento, tipologia del reato e distretti giudiziari, nel 2002 in Italia ci volevano 34 mesi (dalla data dell’azione delittuosa) per arrivare ad una condanna di primo grado, che diventano 64 per una condanna in appello.
I dati sulla durata del procedimento penale in relazione al riconoscimento di non reità vanno presi con le molle, trattandosi di procedimenti conclusisi con la condanna dell’imputato. Un innocente, tenta il più possibile l’abbreviazione del processo, e difficilmente metterà in atto quelle «strategie ostruzionistiche e dilatorie» cui una procedura penale «ipertrofica» consente di allungare i tempi puntando, più che all’assoluzione, alla prescrizione del reato (Cordero, 2001): K., ingiustamente accusato, si presenta al processo deciso ad ottenere che «quella prima udienza sarebbe stata anche l’ultima». Non sempre il nostro diritto processuale consente tempi rapidi: a frapporsi è la montagna di fascicoli da cui sono oberati i giudici che per primi esaminano la condizione di un imputato: alla fine dell’anno 2001 i procedimenti pendenti a fine anno presso i Giudici delle indagini preliminari (GIP) e i Giudici dell’udienza preliminare (GUP) di tutta Italia sono stati 1.639.321, di cui 284.176 (il 17,33%) solo nella Procura di Napoli. Oltre a questi fascicoli, Gip e Gup napoletani, nel corso del 2002 si sono visti arrivare sulla scrivania altri 135.764 fascicoli cui era stato dato un nome, che aggiunti ai 114.055 rimasti senza autore fanno un totale di 249.819 procedimenti: i giudici napoletani ne hanno esauriti in totale 214.896, un numero notevole, che però ha lasciato un “residuo” di altri 34.923 situazioni da esaminare, portando il carico dei fascicoli pendenti a fine anno 2002 ad un totale di 319.099. Napoli è, però, un caso limite. Molte procure (soprattutto nel Centro-Sud) riescono a tenere il passo con i fascicoli che man mano si accumulano e – come si deduce confrontando il dato dei procedimenti sopravvenuti col dato dei procedimenti esauriti – riescono ad abbassare il numero dei procedimenti che restano pendenti a fine anno: è il caso di Venezia, Perugia, Ancona, L’Aquila, Campobasso, Salerno, Lecce, Taranto, Potenza, Catanzaro Palermo, Messina e Catania.
Della durata del processo civile. Altro discorso va fatto per la lunghezza del processo civile. A rappresentare un vero e proprio caso di giustizia negata è l’endemica lunghezza dei processi civili: la media italiana, dati del 2001, è di circa 4 anni e 5 mesi (1.610 giorni: 1.570 giorni tra iscrizione a ruolo e decisione, più altri 40 giorni per la pubblicazione della sentenza). E si parla solo del primo grado di giudizio. Nel caso di un ricorso in appello bisogna aggiungere altri 3 anni e 6 mesi (media italiana) per raggiungere una sentenza (1.293 giorni: 1.244 tra iscrizione e decisione, altri 49 per la pubblicazione della sentenza). In tutto sono quasi 8 anni: nel frattempo gli interessi e i beni coinvolti nei giudizi restano in sospeso, attendendo che il giudice decida delle ragioni o dei torti, sempre che una delle due parti non si rivolga alla Cassazione. Gli orvietani sono fortunati: tra Tribunale (643 giorni) e Corte d’Appello (253 giorni), devono aspettare meno di 3 anni. Ultima viene Messina: nonostante una buona produttività (4.758 cause decise), tra Tribunale (2.601 giorni) e Corte d’Appello (2.984 giorni) un messinese deve aspettare 15 anni per vedere decisa la sua causa.
Buona parte della terribile situazione della giustizia civile in Italia è dovuta all’accumulo delle cause negli anni precedenti, che, col passare del tempo, hanno creato una vera e propria emergenza. Nonostante il positivo andamento degli indicatori – a giudicare dai dati del 2001, i giudici di primo grado di tutti i distretti di Corte d’Appello italiani riescono a ridurre, chi più (Reggio Calabria è la migliore: -28,66%; bene anche Firenze, -14,58%, Roma, -14,51%, Sassari, -13,96, Catania, -13,45%) chi meno (Bolzano: -3,71%; ma anche Perugia, -3,84%, Salerno, -5,01%, Bologna, -6,77%, Milano, -6,78%), il carico dei giudizi pendenti a fine anno – rimangono ben 1.288.573 di fascicoli aperti, che per essere esauriti, riportando una situazione di equilibrio, richiederanno, al ritmo attuale (-10,69% di media nazionale), dagli 8 ai 10 anni.
Meno rosea è la situazione degli uffici del giudice di pace che, a parte pochi casi (Cagliari, -23,79%, Campobasso, -21,39%, Taranto, -7,08%, Ancona, -3,82%, Caltanissetta, -1,25%), hanno visto un aumento, a volte drammatico (Bolzano, +41,53%, Palermo, +40,15%, Sassari, +38,86%), dei fascicoli pendenti a fine anno.
Del termine, «ragionevole» e non. Nonostante gli sforzi del legislatore, la giustizia italiana ha continuato a subire un gran numero di condanne della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per l’eccessiva lunghezza dei suoi processi (si veda in merito il Rapporto Italia 2003). Il principio del «termine ragionevole del processo» è sancito dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani, art. 6 comma 1, che è diventato un vero e proprio incubo per il sistema giudiziario italiano, incapace di tenere il passo con lo standard europeo di «termine ragionevole del processo». Ai rimbrotti europei sono seguite le raccomandazioni, cosicché anche la legislazione italiana è stata adeguata alla legislazione europea, e, a maggior vincolo per una Corte di Cassazione che fino ad allora aveva mostrato qualche riflesso frondista nei confronti dei richiami europei, ha inserito il principio del «termine ragionevole» nella Costituzione della Repubblica con la riforma dell’art. 111 sul cosiddetto «giusto processo», rafforzandone poi la presenza con una legge ordinaria, la n. 89 del 24 marzo 2001 (detta «legge Pinto»). La legge, all’art. 2, illustra i criteri di definizione del «termine ragionevole» la cui mobilità è influenzata dalla «complessità del caso», dal «comportamento delle parti», «del giudice del provvedimento» e di «ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione». I termini sono opinabili, ma porre un termine fisso (poniamo: tre anni) non avrebbe rappresentato una soluzione migliore. A discrezione del giudice adito (entro il termine perentorio di 4 mesi, art. 3), viene giudicato l’eventuale superamento della ragionevole durata, oltre la quale il cittadino ha diritto ad un risarcimento. L’analisi riporta i procedimenti aperti specificamente in base alla legge Pinto per l’anno 2002. I procedimenti non sono ancora moltissimi: tra tutte le corti d’appello italiane nel corso del 2002 si sono aperti solo 5.411 fascicoli di richieste d’eque riparazioni, ben 5.867 sono stati decisi lasciando solo 3.161 giudizi aperti in tutta Italia. Alcune piccole notazioni sui numeri meno scontati. A Napoli, nonostante i procedimenti aperti tra tribunale civile e tribunale penale siano nell’ordine delle centinaia di migliaia, le richieste di risarcimento sono solo 164; basso (105) è anche il numero dei procedimenti aperti presso la Corte d’Appello di Messina che ha i tempi più lunghi nel processo civile; irrisori i numeri di tribunali «congestionati» come Milano (26) e Palermo (47). D’altra parte è impressionante il numero di Perugia che, con 881 richieste presentate, rappresenta un sesto del totale. La legge Pinto, però, affronta solo un lato del problema, ovvero, indennizza i cittadini per i ritardi della macchina giudiziaria. Le ragioni di quei ritardi (una massa di cause pendenti) richiedono una risposta rapida, poiché la giustizia italiana vive un momento di stasi: i giudici delle sezioni stralcio stanno andando a esaurimento (il loro mandati scadono, proroga compresa, nel novembre 2005), i giudici di pace non riescono a smaltire tutti i procedimenti pendenti, i concorsi per circa 700 nuovi uditori giudiziari sono fermi, così come i progetti di legge per l’istituzione di nuovi tribunali o di sezioni distaccate, senza dire del nostro diritto processuale, che offre innumerevoli ripari per chi è interessato alle tattiche dilatorie. Le materie d’intervento sono tante: mettere mano alle procedure, far funzionare le sezioni stralcio, assumere nuovi giudici ordinari, aprire nuove sezioni e isituire nuovi tribunali anche se tutto questo, notoriamente, costa.
Il cittadino entra nel processo. «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». L’incipit potrebbe adattarsi alla storia di tanti imputati arrestati per sbaglio, per prevenzione, per prudenza (la limitazione della libertà personale prima della definizione del procedimento giudiziario è misura «cautelare», lib. 4 C.p.p.), e costretti a passare periodi più o meno lunghi di detenzione (dalle 24 ore per il fermo di polizia, ex art. 386 C.p.p., al massimo di 6 anni di custodia cautelare, art. 303 C.p.p.) nel caso in cui il giudice tema il verificarsi di una, o più, delle condizioni che giustificano la detenzione preventiva: il reiterarsi del reato, l’inquinamento delle prove, la fuga dell’imputato (art. 274 C.p.p.). Presa in ipotesi la reale innocenza dell’imputato, visto che qui interessa il discorso ai fini dell’errore giudiziario, possiamo dire che l’arrestato sia persona alquanto sfortunata. Tabelle dell’ultimo annuario Istat di statistiche penali alla mano, su 2.837.109 delitti denunciati all’autorità pubblica nel 2002, 2.295.419 (81% circa) rimangono di autore ignoto. I restanti 541.690 hanno trovato in totale 541.413 persone denunciate. La discrasia tra questi numeri va spiegata: un stessa persona, nell’ambito di un’azione criminosa, potrebbe aver commesso una serie di reati (art. 84 C.p.), oppure aver reiterato uno stesso reato stante una possibile «abitualità» della sua condotta criminosa graduata fino alla vera e propria professione (artt. 99-109 C.p.).
Un innocente che finisca in una simile compagnia può esperire tutti i mezzi per liberarsene, ricorrendo al Gip (art. 299 C.p.p.), al tribunale del riesame (309 C.p.p.); nel caso questi gli neghino la scarcerazione o una misura alternativa l’imputato può rivolgersi alla Cassazione (311 C.p.p.). Nelle statistiche di quest’ultima per l’anno 2002, tra misure cautelari personali e reali (5.754 decisioni che nel conteggio statistico ci sarebbe piaciuto vedere separate, trattandosi nell’un caso di limitazione della libertà personale, nell’altro di sequestri di beni), misure concernenti l’esecuzione della pena e la materia penitenziaria in genere (3.623 procedimenti esauriti) e misure di prevenzione (474 procedimenti esauriti) la Cassazione ha deciso 9.851 ricorsi. Se dobbiamo considerare l’accoglimento del ricorso come una decisione in favore dell’imputato (anche se sempre ex art. 311 C.p.p. anche il Pubblico ministero può ricorrere contro una decisione del Giudice) dobbiamo pensare che nel giudizio della Cassazione esiste un 20% di margine di errore o di decisioni sproporzionate del giudice in materia di misure cautelari e reali (su 5.754 decisioni, 1.049 sono di accoglimento dell’istanza). Margine che si abbassa a circa il 17% se si parla di esecuzione della pena (505 ricorsi accolti su 3.623) e a meno del 10% se si tratta di misure di prevenzione (43 accolti su 474).

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