Nonostante i numerosi interventi del legislatore volti affannosamente a tentare di arginare la situazione emergenziale della giustizia in Italia, ancora oggi i cittadini si trovano di fronte ad un apparato giudiziario inefficiente. Le disfunzioni e le carenze dell’amministrazione della giustizia, oltre a costituire una costante doglianza dei cittadini, fanno anche ormai tristemente parte della quotidiana cronaca giornalistica, sia televisiva sia stampata. Le riforme della legge sostanziale e processuale, molte delle quali approvate tra il 2000 ed il 2004, non si sono dimostrate idonee a colmare le carenze del “sistema giustizia”. Il settore penale, per molti aspetti più delicato e complesso, appare maggiormente in sofferenza rispetto al settore civile che, invece, ha evidenziato miglioramenti significativi, seppur ancora inadeguati. La giustizia italiana è in crisi e le ragioni vanno ravvisate sia nella sua scarsa efficienza sia, soprattutto, nella eccessiva durata dei processi. Tuttavia, prima di prospettare possibili soluzioni, è necessario fare il punto della situazione analizzando distintamente lo stato e le problematiche della giustizia penale e di quella civile.
La Giustizia penale. I due “cancri” che devastano la giustizia penale sono, come ormai è tristemente noto, la scarsa efficienza e l’eccessivo numero dei processi sub iudice, fattori che, inevitabilmente, congestionano l’intero sistema. Solo nell’ultimo anno sono stati svariati i provvedimenti legislativi che a tutto hanno portato tranne che ad un effettivo miglioramento del pessimo stato di salute della giustizia penale, evidenziando come in tale settore manchino radicali ed efficaci riforme di sistema volte a garantire un processo penale più breve, ma allo stesso tempo capace di fornire ai cittadini la dovuta protezione contro le aggressioni di una criminalità ogni giorno più dilagante.
La competenza penale del Giudice di pace: una strada sbagliata. La maggiore novità intervenuta negli ultimi anni nell’ambito della giustizia penale ha riguardato sicuramente il giudice di pace. Si è cercato di risolvere il problema relativo all’eccessivo numero dei processi attribuendo competenze penali al giudice di pace, con un risultato semplicemente disastroso. La nuova normativa si è inserita ex abrupto nel sistema procedural-penalistico vigente dal quale non ha ereditato tutti gli istituti ed i princìpi generali, ma solo parte di essi per cui l’operatore del diritto si trova costretto ad una continua opera di adattamento e di interpolazione. La riforma ha altresì eliminato, sempre in un’ottica deflativa, la figura del giudice per le indagini preliminari, affidando i provvedimenti relativi a questa fase al giudice di pace del luogo dove ha sede il Tribunale del circondario in cui è compreso il giudice competente per territorio. Ma ciò che veramente sorprende della riforma sono le due modalità alternative della vocatio in ius davanti al giudice di pace: la citazione a giudizio disposta direttamente dalla polizia giudiziaria ed il ricorso immediato al giudice presentato dalla persona offesa dal reato. Nella prima ipotesi il pubblico ministero, formulata l’imputazione, autorizza la polizia giudiziaria a citare, con atto proprio, l’imputato per una data udienza. Nel secondo caso, invece, e qui il giurista che ha una visione tradizionale del processo penale non può che rimanere sgomento, è la stessa persona offesa dal reato, costituenda parte civile, la quale, previo il filtro formale del pubblico ministero ed esclusivamente per i reati procedibili a querela, richiede direttamente al giudice di pace la citazione a giudizio dell’imputato. Il giudice, nell’ipotesi in cui dichiari ammissibile e non manifestamente infondato il ricorso presentato dalla persona offesa, emetterà un decreto di convocazione delle parti fissando la prima udienza dibattimentale. In tal modo viene saltata la fase delle indagini preliminari ed il cittadino offeso si sostituisce, di fatto, alla magistratura inquirente, con buona pace di quelle (già poche) garanzie difensive concesse all’indagato nella fase, delicatissima, delle indagini preliminari. Tale anomala forma di citazione a giudizio suscita evidenti ed innumerevoli perplessità soprattutto in ordine a quella che dovrebbe essere la rassicurante imparzialità dell’organo giudicante, imparzialità cristallizzata altresì nell’articolo 111 della Costituzione. Se l’istituzione del giudice unico di primo grado, con la soppressione e l’assorbimento delle preture e delle relative procure della Repubblica nei tribunali ordinari e corrispondenti procure, può definirsi riforma efficace (in quanto ha snellito, seppur in minima parte, il carico giudiziario senza alcuno svilimento del processo), lo stesso, purtroppo, non può dirsi per la riforma che ha attribuito la competenza penale al giudice di pace. Questa volta la finalità del legislatore di realizzare una giustizia più veloce, più semplice e più lineare è andata a scapito dell’essenza stessa del processo penale e questo non tanto o non solo per le critiche (e sono diverse) che tecnicamente possono muoversi alla nuova normativa, ma soprattutto per il fatto che il processo penale, in virtù degli interessi che nello stesso vengono tutelati, richiede che il giudice ed il pubblico ministero siano persone altamente qualificate. Il giudice di pace penale non è un magistrato togato; è un giudice onorario il quale non ha superato alcun pubblico e selettivo concorso che valuti, nei limiti del possibile, la idoneità del concorrente ad esercitare quell’alta funzione che spetta ad un magistrato giudicante, cioè quella di stabilire se un essere umano è colpevole o innocente. L’unica strada percorribile verso un alleggerimento del carico dei processi è invece quella di dare concreta attuazione al principio di sussidiarietà del diritto penale. Tale principio fornisce l’idea dello strumento penale come extrema ratio, giustificando il ricorso alla pena criminale, e quindi al processo penale, esclusivamente quando gli altri strumenti di natura civile ed amministrativa risultano insufficienti. Il legislatore non è riuscito ancora pienamente a recepire tale principio, elaborato e condiviso dalla migliore dottrina penalistica, e continua con affanno a ricercare vie alternative, come quella di attribuire competenze penali al giudice di pace, creando in tal modo solo ulteriore confusione nella già caotica e compromessa situazione della giustizia italiana.
No all’appello del pubblico ministero nei confronti dell’imputato assolto in primo grado. Una concreta prospettiva di riforma volta a decongestionare il carico dei processi penali è quella, attualmente oggetto e fonte di un acceso dibattito politico-dottrinale, che prevede una modifica al Codice di rito nel senso di impedire al pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato. La congestione del sistema giudiziario ed il sovraffollamento degli istituti penitenziari sono problemi che possono innanzi tutto risolversi con la depenalizzazione di molti reati ed in secondo luogo attraverso l’emissione dei provvedimenti di clemenza, anche se le amnistie e gli indulti, pur avendo sicuramente una forte efficacia deflativa, evidenziano l’inadeguatezza e l’inefficienza di una giustizia penale sempre più in affanno. Un cospicuo “sfoltimento” del carico giudiziario si otterrebbe altresì qualora venisse inibita al pubblico ministero la possibilità di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione pronunciate nel processo di primo grado. Rispetto al tema del divieto di appello per il pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione, illustri giuristi hanno sostenuto che tale proposta di riforma, qualora divenisse operativa, sbilancerebbe l’equilibrio e la parità tra il pubblico ministero e la difesa dell’imputato, poiché soltanto ad una parte processuale sarebbe consentito esperire il gravame dell’appello. La realtà è che, al di fuori di ogni ipocrisia, il processo accusatorio italiano non è realmente un “processo di parti”. Pubblico ministero e difesa non potranno mai, se non in modo assolutamente teorico, essere posti sullo stesso piano; ci sarà sempre un disequilibrio fisiologico (in particolar modo nella fase delle indagini preliminari) dovuto soprattutto al fatto che il pubblico ministero, e non il difensore, può disporre in modo diretto ed esclusivo di una longa manus tecnico-operativa, ossia dell’apparato di polizia giudiziaria. Inoltre, con particolare riferimento alla prospettata impossibilità per il pubblico ministero di appellare la sentenza di assoluzione, è necessario considerare come il processo penale sia sempre una esperienza (comunque) dolorosa esclusivamente per l’imputato, il quale è l’unico soggetto processuale a rischiare la privazione di un bene primario quale la libertà personale. Anche per questa ragione è auspicabile l’introduzione nel nostro ordinamento del principio per cui, terminato con una assoluzione il processo di primo grado, l’imputato non dovrebbe essere sottoposto ad una nuova ed ulteriore sofferenza. Ma v’è di più; se si considera che il giudice può emettere una sentenza di condanna solo nel caso in cui non abbia il benché minimo dubbio sulla colpevolezza dell’imputato e che in appello, salvo casi straordinari, vengono valutate le stesse prove del processo di primo grado, diventa complesso, anche tecnicamente, comprendere come sia possibile per un secondo giudice condannare un individuo che, fino a quel momento, un altro giudice aveva considerato innocente.
La nuova legge sul reato di maltrattamento degli animali: una “farsa mediatica” senza precedenti. Fulgido esempio di come la maggioranza di governo (qualsiasi essa sia) spesso strumentalizzi, anche e soprattutto dal punto di vista mediatico, i provvedimenti in materia di giustizia penale è rappresentato dalla nuova legge sul maltrattamento degli animali. Nel corso dell’estate 2004 tutti i quotidiani, tutti i telegiornali, tutte le trasmissioni televisive di approfondimento e di attualità hanno “osannato” il Parlamento per l’approvazione della legge 20 luglio 2004 numero 189 concernente le nuove disposizioni penali sul divieto di maltrattamento degli animali. Lo spirito della legge 189 del 2004 è nobile ed altamente condivisibile (nell’ultimo anno sono stati oltre 30.000 i cani ed i gatti uccisi barbaramente) ma, come è stato evidenziato, dovrà inevitabilmente fare i conti con la realtà di una società in cui gli uomini hanno costituito rapporti con gli altri esseri viventi strutturalmente ispirati all’antropocentrismo. Il punto che preme sottolineare, tuttavia, riguarda le modalità con le quali tutti (si sottolinea ancora tutti) i mezzi di informazione hanno pubblicizzato e “sbandierato” la riforma, elogiando il Governo per l’approvazione di una legge tanto attesa a seguito della quale, si è detto in modo unanime, finalmente gli autori di tale delitto oltrepasseranno la soglia del carcere scontando la pena della reclusione all’interno delle patrie galere. Nulla di più falso; si è trattato di “farsa mediatica” che non ha precedenti nella recente storia giornalistica del Paese. La novella del 2004 non assicurerà alla giustizia gli autori di questi ignobili reati ed i colpevoli non sconteranno mai in carcere la pena loro inflitta. Infatti, le pene previste dalla riforma consistono, nella ipotesi più grave di uccisione dell’animale, nella reclusione fino a diciotto mesi e nella multa fino a 15.000 euro. Un trattamento sanzionatorio così lieve, in virtù di quanto disposto dal Codice di procedura penale, non consente neanche di operare l’arresto in flagranza o il fermo di indiziato di delitto. Infatti, per disporre l’arresto è necessario che il reato doloso sia punibile con almeno tre anni di reclusione mentre gli anni di reclusione devono essere almeno due affinché possa essere operato il fermo. Di conseguenza, agli autori del delitto di maltrattamento di animali non potranno neanche essere applicate misure cautelari personali come la custodia in carcere, gli arresti domiciliari o l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. La gravità di molti delitti previsti dal nostro Codice non è più avvertita socialmente come tale ai nostri giorni. Svariate questioni alle quali la coscienza collettiva è particolarmente sensibile non sono adeguatamente trattate sotto il profilo penale; si pensi, oltre agli animali, ai reati ambientali, alla “tratta” dei minori, alla clonazione, alla genetica, all’eutanasia ed all’informatica.
La riforma dell’Ordinamento giudiziario: una grande occasione mancata. Il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha rinviato alle Camere il testo della legge di delega al Governo per la riforma dell’Ordinamento giudiziario. Per mezzo della riforma si poteva (e si doveva) far molto per iniziare ad alleviare le sofferenze della giustizia penale. Le note caratterizzanti la novella legislativa riguardano, in primo luogo, le carriere, i concorsi e la formazione dei magistrati. In ordine alle carriere, la riforma non prevede la separazione ma rende solamente più complicata la possibilità di passare dalla funzione di magistrato giudicante a quella di magistrato inquirente. Relativamente ai concorsi, la riforma li prevede separati per le funzioni di giudice e di pubblico ministero, ma, sostenendo un ulteriore concorso, si può passare da una carriera all’altra. Per quanto riguarda la formazione professionale, la legge prevede un’unica scuola per tutti i magistrati i quali dovranno, in un secondo momento, scegliere la carriera da intraprendere. Queste innovazioni hanno suscitato le accese proteste non solo di tutti i magistrati, ma anche degli avvocati penalisti, i quali, da oltre 20 anni, si battono per ottenere non la separazione delle funzioni, ma la netta separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, concorsi separati senza possibilità di passare successivamente da una carriera all’altra e scuole professionali che prevedano una formazione comune per magistrati ed avvocati, i quali si dovranno poi specializzare in un secondo momento. Tuttavia, i veri nodi della progettata riforma riguardano non solo il macchinoso sistema di concorso previsto per le carriere dei magistrati, ma anche l’erosione dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura e la rigida gerarchizzazione degli uffici della Procura della Repubblica. Analizzando le innovazioni della proposta di riforma dell’Ordinamento giudiziario, si riscontrano obiettivamente alcuni aspetti che attentano al dettato costituzionale, nella specifica direzione dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura. La prima censura che si deve muovere al progetto di riforma è quella relativa alle indicazioni delle “linee di politica giudiziaria per l’anno in corso” che il Ministro della Giustizia dovrebbe inserire nella sua relazione annuale al Parlamento sulla amministrazione della giustizia. Tale norma, infatti, è in palese contrasto non solo con l’articolo 101 della Costituzione, in forza del quale i giudici sono soggetti solamente alla legge, ma anche con l’articolo 104 nel quale è cristallizzato il principio per cui la magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato. Un altro aspetto di dubbia costituzionalità è quello relativo alla possibilità, per il Ministro della giustizia, di ricorrere al Tribunale amministrativo regionale avverso le delibere del Consiglio Superiore della Magistratura. In tal modo, infatti, il Governo potrebbe sindacare dinanzi al giudice amministrativo le nomine dei magistrati dirigenti non “graditi” e ciò in violazione dell’articolo 134 della Costituzione per cui è la Consulta a dover giudicare su eventuali conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, compresi quelli tra il Ministro ed il Consiglio Superiore della Magistratura. Per quanto riguarda il macchinoso sistema dei concorsi, accadrà che i magistrati maggiormente preparati “faranno carriera” mentre gli altri, quelli “più scarsi”, rimarranno ad occuparsi dei processi di primo grado, nei quali solamente, occorre rammentarlo, si svolge l’attività più importante del giudizio penale, ossia l’istruttoria dibattimentale.
L’organizzazione della “macchina” Giustizia. È tuttora privo di soluzione l’annoso problema relativo agli organici del personale di magistratura ed amministrativo dei singoli uffici giudiziari. La mancata copertura delle piante organiche del personale negli uffici requirenti e giudicanti ha contribuito alla formazione progressiva di elevate pendenze, che di anno in anno divengono sempre più preoccupanti. Il costante deficit di personale produce effetti molto gravi. Va segnalato anche un sufficiente stato di “informatizzazione” degli uffici giudiziari, ferma restando l’esigenza di un’azione costante per una sempre maggiore diffusione della cultura informatica non solo tra i magistrati, ma anche tra i dirigenti e tra tutto il personale amministrativo, da accompagnare con un continuo arricchimento ed aggiornamento dell’hardware e del software.
La Giustizia civile. Anche se ancora molto resta da fare, la giustizia civile ha evidenziato qualche miglioramento e ciò in modo particolare con riferimento al processo di primo grado. La crisi della giustizia civile è rappresentata soprattutto dal fatto di non essere in grado di affrontare il progressivo aumento dei nuovi procedimenti. Sono necessarie riforme radicali, coraggiose e realmente innovative; solo in tal modo si può tentare di decongestionare il sistema dal pesante arretrato, tenendo anche conto del principio della ragionevole durata del processo, principio fondamentale per una sentenza la quale possa dirsi realmente “giusta”. Come è noto all’Italia sono state inflitte dalla Corte di Strasburgo numerose condanne per violazione del diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo. La legge stabilisce che sia il giudice italiano a dover valutare la ragionevole durata del processo e, in caso di eccessiva durata del contenzioso, è previsto espressamente un risarcimento da parte dello Stato nei confronti del soggetto leso. Attualmente sono pendenti migliaia di richieste per ottenere l’equa riparazione al danno subito ed è assai facile immaginare che impatto tali richieste avranno, una volta accolte, sul bilancio dello Stato. Relativamente al contenzioso in materia di lavoro, va registrata una riduzione delle pendenze di primo grado e quindi viene confermata la bontà di quel modello processuale datato 1973 che, in maniera pressoché costante, ha consentito negli anni di ottenere giustizia con tempi inferiori rispetto a quelli relativi alle controversie civili ordinarie. Anche tale settore, tuttavia, è suscettibile di miglioramenti ed infatti si è tentato, ma con scarso successo, di introdurre degli strumenti deflativi finalizzati ad incentivare e valorizzare procedure conciliative per una definizione stragiudiziale delle controversie. In ordine ai processi civili di separazione personale e di scioglimento del matrimonio, nel confermare la costante crescita numerica di tali procedimenti, va segnalato come le separazioni consensuali e i divorzi congiunti rappresentino circa i due terzi del relativo contenzioso. Questa tendenza conferma l’importanza e la consapevolezza che l’accordo tra i coniugi, specialmente in presenza di figli minori, sia sempre e comunque preferibile ad una decisione giudiziale, tenuto conto altresì dei tempi processuali di gran lunga inferiori che garantisce la procedura consensuale. Va segnalata inoltre la crescita dei procedimenti civili relativi alla decadenza e limitazione dell’esercizio della potestà genitoriale, al riconoscimento o dichiarazione di paternità e maternità naturale, all’adozione internazionale ed all’affidamento eterofamiliare. Permane in tale settore l’annoso problema della divisione frammentaria di competenze tra giudice civile e giudice minorile ed il disegno di legge che prevedeva la riunione delle competenze in un solo giudice non è stato approvato dal Parlamento e quindi, allo stato, la situazione rimane “congelata”.
La problematica fase esecutiva del processo civile ed il conseguente malcontento sociale. Sebbene vi sia la necessità di una riforma generale del processo civile a fronte di tre milioni e mezzo di cause arretrate, è difficile ritenere che tale riforma verrà attuata entro questa legislatura e pertanto, come spesso accade, si procederà solamente con misure parziali. Se l’obiettivo è quello di rafforzare l’economia processuale non si potrà prescindere da un rafforzamento della fase esecutiva. La procedura civile, nella fase esecutiva del processo, comporta una serie di attività complesse e dispendiose le quali si articolano in diversi passaggi, molti dei quali risultano essere inutili e dispendiosi. In tale fase spesso si assiste ad un continuo “rimpallo” tra ufficiale giudiziario, cancelleria e giudice e ciò ha per conseguenza un allungamento notevole dei tempi ed un aumento dei costi, per cui si può affermare come l’unico soggetto processuale svantaggiato sia il creditore procedente.

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