È ormai evidente la crisi profonda del sistema di garanzie che aveva assicurato la vita della Repubblica fino all’avvento del sistema elettorale maggioritario. Tutte le Istituzioni sono oggetto di polemiche violentissime. E c’è chi arriva a sostenere che saremmo vicini all’instaurazione di un vero e proprio “regime”. È una affermazione ardita, alla quale si ricorre sempre più di frequente, esasperando i toni e con una carenza di memoria storica, grave in un paese che ha conosciuto il fascismo. In realtà, viviamo in una democrazia malata: è questo è già grave, senza il bisogno di evocare lo spettro di un regime. Ma un tema, soprattutto, sembra destinato ad avvelenare il clima politico del Paese nei prossimi mesi: è la cosiddetta “devolution”. Una riforma costituzionale che la maggioranza di centro-destra ha fatto approvare in prima lettura dai due rami del Parlamento. Questa riforma modifica radicalmente la Carta Costituzionale e lascia aperti alcuni interrogativi preoccupanti: quanto costerà in primo luogo? Alcuni economisti indipendenti stimano in trenta miliardi di euro il costo della riforma a regime per le finanze pubbliche. Una cifra enorme per le casse dello Stato. E ci sono anche giuristi di varia tendenza che prevedono che la riforma aprirà un conflitto permanente tra i poteri dello Stato e le Regioni, tale da poter paralizzare perfino l’azione dei futuri governi: soprattutto si obietta che una novità così grande ed importante non dovrebbe essere introdotta senza un accordo tra maggioranza ed opposizione, giacché la Repubblica deve essere la Casa di tutti gli italiani. È dunque il centro-destra che tende a vanificare l’idea delle garanzie comuni attraverso le quali la lotta politica anche aspra non sconfina in una rissa tra opposti manicheismi? Non è così. Infatti anche in questo caso il primo cattivo esempio venne dalla maggioranza di centro-sinistra che, proprio sul finire della scorsa legislatura, adottò con appena cinque voti di scarto la riforma del Titolo quinto della nostra Costituzione, modificando sostanzialmente la forma della nostra Repubblica. Questa riforma non è stata ancora attuata compiutamente, ed ora il centro-destra si propone di accrescerne la portata, accentuando ulteriormente lo strappo della passata Legislatura.
La Repubblica Italiana è come un cantiere aperto nel quale si avvicendano architetti diversi con progetti contrapposti. Si tirano su muri che il futuro architetto promette già di demolire. Così, gran parte del centro-sinistra ha già annunciato che tutte le riforme attuate dal centro-destra verranno cassate non appena l’attuale maggioranza sarà stata sconfitta. Di questo passo il cantiere della Repubblica rimarrà aperto per un tempo indefinito, generando una instabilità permanente: un susseguirsi di riforme e controriforme. È possibile azzardare una spiegazione? Probabilmente non ha ancora preso corpo nel nostro Paese una cultura del sistema maggioritario e del bipolarismo che esso ha suscitato. Prevale una visione infantile, una sorta di guerra tra “i ragazzi della via Paal”, combattuta purtroppo da adulti e perciò con inesorabili guasti reali. Nei sistemi bipolari e maggioritari maturi, per esempio negli Stati Uniti o nell’Inghilterra, il Presidente o il Primo Ministro esercitano in pieno il potere di governare ma non possono disporre del Parlamento a loro piacimento. In Italia invece il bipolarismo e il maggioritario si sono risolti fino ad ora in un esercizio populista e plebiscitario della “leadership”. L’autonomia dei parlamentari rispetto al capo del governo è infatti la prima garanzia per il corretto funzionamento delle democrazie. Ed è proprio questa la prima garanzia che è venuta meno in questi ultimi anni in Italia. Nei sistemi maggioritari che funzionano, i parlamentari sono l’espressione dei collegi e rispondono direttamente ai loro elettori.
In circostanze storiche particolari (la caduta dei partiti della Prima Repubblica, le conseguenti riforme elettorali) Sivio Berlusconi ha costruito un nuovo modello di leader politico: con la sua immagine “fora” gli apparati tradizionali e si collega direttamente ai cittadini. Ne trae la convinzione di non essere solo il capo del governo ma anche il capo della maggioranza e il capo dei suoi parlamentari e, in definitiva, l’azionista di comando della sua intera maggioranza. Sul versante opposto Romano Prodi sembra ispirarsi proprio allo stesso modello: non si propone come il futuro Presidente del Consiglio ma come il capo assoluto delle formazioni che lo stanno candidando. Questa semplificazione si giova dell’insofferenza degli italiani nei confronti dei partiti e della loro tentazione a “rifugiarsi” sotto un capo. Ma uccide il dibattito politico, elimina la riflessione, tende a semplificare problemi complessi e ad immaginare soluzioni illusorie. E tuttavia l’opinione pubblica comincia a manifestare una disaffezione crescente e uno scetticismo sempre più diffuso nei confronti di entrambi gli schieramenti. Eppure il sistema politico dovrà trovare la forza di rigenerarsi. Uno sbocco potrebbe essere forse costituito dalla convocazione di una Assemblea costituente, eletta con il metodo proporzionale, e separata dalle Assemblee parlamentari. Si potrebbe dire che è necessaria una camera di decantazione dai veleni sparsi nella vita politica italiana. È possibile immaginare che l’Assemblea costituente potrebbe pensare alle riforme della Costituzione che si giudicassero necessarie in una visione organica e ordinata dello sviluppo della vita democratica del Paese. Mentre finora le riforme non hanno avuto un collante e sono apparse come tasselli di “puzzle” misterioso.
Secondo le regole dello “spoil system”, i governi nominano e revocano, a loro piacimento, tutti gli alti gradi della Pubblica amministrazione. Questo meccanismo ha dispiegato tutti i suoi effetti. Perciò un bilancio è possibile. La burocrazia è diventata più efficiente? La nostra democrazia è più trasparente? Purtroppo la risposta ad entrambi gli interrogativi è negativa. Infatti, tutta l’alta dirigenza dello Stato è in pratica ridotta a un parcheggio di precari che i Ministri possono spostare a loro piacimento. Con la conseguenza che l’alta dirigenza è ormai ridotta a vivere in una condizione di instabilità permanente: quanti hanno perso il posto quando il centro-sinistra è stato sconfitto alle elezioni? E quanti lo perderanno se la prossima volta le elezioni dovessero perderle il centro-destra? È facile immaginare che così si sta perdendo, nell’Amministrazione, il senso della programmazione, quella progettualità burocratica indispensabile a garantire la corretta applicazione delle leggi e dei decreti emanati dai Ministri e dal Parlamento. Ma per questa via l’Amministrazione ha dovuto anche abdicare, che lo volesse o no, al suo ruolo di garanzia nei confronti di tutti i cittadini, giacché la diretta dipendenza dal potere politico la rende di fatto un organo di parte.
Semplificare, ridimensionare, separare.
Era comunque evidente che una battaglia così sproporzionata vedesse soccombere, alla fine, la burocrazia come in realtà è avvenuto con l’attuazione della delega contenuta nella legge n.421 e che si è sviluppata, con l’accordo pieno delle forze di governo e di opposizione, attraverso la legge n.59 del 1997 e tutte le altre che hanno preso il nome di “leggi Bassanini”.
Tre sono state le linee direttrici, corrispondenti ad altrettante parole d’ordine: semplificare, ridimensionare, separare. La semplificazione nasceva dall’esigenza di ridurre il numero di leggi ritenuto eccessivo e considerato una delle cause principali dell’elefantiasi burocratica dell’azione amministrativa con un costo occulto per le imprese e i cittadini. Il rimedio è stato il cambio della natura dell’atto (da legge a regolamento) ma senza incidere significativamente sui processi se non, addirittura, aggravandoli attraverso la richiesta di nuovi atti. Il ridimensionamento si riferiva al numero delle strutture burocratiche (Ministeri, Enti, Aziende, ecc.) dalla cui riduzione, e con il contestuale trasferimento alle Regioni, si riteneva di aver realizzato una vera e propria panacea. Il risultato attuale è che i Ministeri si sono numericamente ridotti ma sono state moltiplicate le Direzioni generali ovvero i Dipartimenti e il trasferimento alle Regioni, in assenza di chiare e condivise regole di “governance”, hanno prodotto un forte appesantimento se non addirittura una paralisi nel funzionamento delle strutture regionali e nell’offerta alle comunità locali, tranne alcune lodevoli eccezioni. La separazione, infine, doveva riguardare il rapporto tra il potere politico e l’alta dirigenza, la cui presunta commistione aveva prodotto i deprecabili fenomeni sfociati in Tangentopoli. Si è introdotta la precarizzazione del rapporto che è passato, nel corso del tempo, da durate medie di 3/5 anni a rapporti che oggi possono addirittura durare 6 mesi/1 anno. La precarietà genera dipendenza, la dipendenza manipolazione! Ci si trova oggi di fronte ad una classe dirigente ad un tempo indissolubilmente legata all’organo politico che ne determina durata, stipendio, obiettivi e, soprattutto, futuro e spesso non adeguatamente formata per i rilevanti compiti attribuiti se non, addirittura, priva di alcuna esperienza di amministrazione. In definitiva le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la burocrazia è andata perdendo il ruolo di garanzia e cerniera tra lo Stato-comunità e lo Stato-istituzione; i servizi offerti alla comunità non hanno realizzato un miglioramento qualitativo; il ricorso a strutture esterne all’Amministrazione (outsourcing) è notevolmente aumentato (la Corte dei conti lo denunzia periodicamente, inascoltata) con costi che sono vieppiù cresciuti; la sensazione percepita è che il raggiungimento del potere ad ogni livello (centrale, locale) sia più importante del governare; l’iperattività riformista prevale sulla gestione delle riforme stesse e, in conclusione, comincia a diffondersi una condizione di instabilità e, soprattutto, un sentimento di instabilità. La strada sbagliata verso l’efficienza ha avuto come conseguenza il venir meno della funzione di garanzia che una Pubblica amministrazione deve poter offrire ai cittadini, alle imprese e a tutte le aggregazioni sociali. E quello che gli anglosassoni chiamano “civil service” rischia sempre più di diventare servizio alla classe politica e non servizio allo Stato con la garanzia della imparzialità della legge. In nessuna delle grandi democrazie dell’Occidente l’Amministrazione pubblica è ostaggio della classe che in quel momento è al governo.
Ma l’Amministrazione non è solo una macchina o un mero apparato produttivo. Essa è anche il punto di saldatura, la cerniera tra sistema politico e società civile. Essa canalizza i bisogni sociali verso le fonte e i mezzi della loro soddisfazione e insieme porta in sé gran parte delle ragioni di successo o di insuccesso delle richieste di lealtà e di consenso che la società politica rivolge ai cittadini. Non si può quindi fondare una riorganizzazione dell’Amministrazione sui semplici standards di una più alta produttività. La “governance” pubblica che si sta profilando, a seguito del consolidarsi del livello di decisione politica sia dell’Unione europea sia di quello regionale e locale, ha bisogno di avere a fondamento una Amministrazione pubblica autonoma e capace di ispirarsi ai valori della cooperazione interistituzionale e della coesione sociale. Su questi ideali che interiorizzano quello di efficienza, si possono porre le basi di una Amministrazione fatta a misura non della relazione verticale con il potere ma della relazione orizzontale con i cittadini. Relazione che faccia sì che l’Amministrazione si senta e sia effettivamente, come vuole la Costituzione, a servizio esclusivo della nazione. Da questa prigione costruita con le norme della riforma di Bassanini e consolidate dalle politiche del centro-destra bisognerà uscire con una autentica inversione di marcia in grado di conseguire l’efficienza della Pubblica amministrazione, ma con una sua autonomia e neutralità rispetto alla lotta politica. Questa impresa non riuscì nel corso della Prima Repubblica sul versante della efficienza ma venne almeno salvata l’autonomia dell’alta Amministrazione. Col tempo sono state distrutte l’autonomia e la funzione di garanzia senza raggiungere l’efficienza. Perché destra e sinistra sono d’accordo di mantenere in vita la strada intrapresa con Bassanini? Sarebbe bello se questa volontà fosse il frutto di una idea condivisa sulla vita democratica del nostro Paese. Si tratta invece di una convergenza che sembra fondata solo sulla difesa di interessi e spazi da occupare a turno. Sembra solo una questione di posti da distribuire.
Eppure una forte, autonoma ed efficiente Pubblica amministrazione è la condizione per realizzare quella “governance” che sia il modello di governo democratico più adeguato e all’economia globalizzata e alla società della conoscenza. La promozione di forme di “governance aperte” è l’elemento che risponde ai bisogni visibili di rafforzamento della democrazia nella società attuale e che può motivare i cittadini a partecipare al governo pubblico in modi istituzionalmente utili. Ma se è necessaria l’assunzione di una cultura più dinamica dei modelli di organizzazione della Amministrazione pubblica, essenziale è assicurare un adeguato e trasparente rapporto tra la guida politica, la “terzietà” e legalità dei vertici dell’Amministrazione e i cittadini verificando costantemente i risultati delle ricadute politico-sociali. La strada da seguire comporta un doppio ordine di impegni: per l’organo politico quello di governare l’apparato amministrativo per indirizzarlo verso l’effettiva realizzazione delle finalità previste dalle leggi e da esso volute; per l’organo dirigenziale quello di gestire le risorse finanziarie, umane e strumentali ad esso affidate, non solo per esaurire la propria funzione nell’esercizio di una attività legittima ma per realizzare risultati concreti e socialmente utili. Per ottenere gli obiettivi desiderati entrambi i livelli – politico e dirigenziale – devono dotarsi di strumenti in grado di controllare i processi affidati alla loro funzione. Il vertice politico, pur privo di poteri amministrativi specifici relativi alla gestione, ma comunque responsabile dei risultati, deve conoscere e determinare l’andamento complessivo dell’Amministrazione ed anche momenti particolari di questa attraverso i controlli strategici e di gestione, oltre che con la valutazione dei dirigenti. Solo il passaggio dal provvedimento al procedimento e da questo ad una ampia processualità politica e sociale – governance – può realizzare non solo un momento di migliore efficienza amministrativa, quasi un aggiuntivo a quello della legalità, ma un programma di misurabile adeguamento alle esigenze della società in evoluzione. Il sistema paese ha quanto mai bisogno di avere una Pubblica amministrazione che accompagni il processo di innovazione e di sviluppo economico e il raggiungimento di un più elevato livello di democrazia e di libertà. Potrebbe essere proprio questo il punto di partenza di una riflessione in entrambi gli schieramenti politici per un ritorno quanto mai urgente alla politica, intesa come confronto civile per governare i processi della Storia.