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[ ANNO I – MAGGIO 2005 – NUMERO 23 ] L’INEFFICACE SPINTA ALL’ECONOMIA ITALIANA

Difendersi dalla Cina? Il 2004 è stato l’anno della Cina. La crescita economica della Cina, è naturalmente una buona notizia: la fiducia nella propria economia ha aumentato la sua sicurezza nei confronti del mondo esterno e ne ha ridotto l’aggressività politica e militare verso i vicini e l’Occidente. La crescita economica della Cina è una buona notizia perché ci dice che centinaia di milioni di cinesi sono usciti dall’indigenza e altri ne usciranno nei prossimi anni, rendendo questo pianeta un poco meno ingiusto. La crescita economica della Cina, è una buona notizia perché ci fa sperare che altri paesi afflitti dalla povertà delle loro popolazioni riescano a seguirne l’esempio e ad uscire dal tunnel del sottosviluppo. La crescita economica della Cina, tuttavia, sembra creare problemi alla nostra (di noi europei) visione del mondo, anche se naturalmente in maniera del tutto contraddittoria: da un lato infatti vorremmo che la fame e la povertà nel mondo si riducessero, dall’altro, quando questo succede, ci sentiamo minacciati, non solo sul terreno economico ma su quello della stessa nostra identità storico-politica.
La disperata e inconcludente battaglia del Premier per rilanciare l’economia. Al di là, degli aspetti politici e con un occhio solo alle questioni economiche ci si può domandare in prima battuta: può l’Italia permettersi un taglio delle tasse, oggi? In termini macro-economici, assumendo per buoni i dati diffusi dalla Presidenza del Consiglio, nel 2005 si sposterà un flusso di spesa di 6,5 miliardi di euro (pari a 12.500 miliardi delle vecchie lire) dalle casse dello Stato alle tasche dei privati. Ed in secondo luogo la domanda alla quale deve rispondere l’economista è se e quali benefici tale trasferimento apporterà al sistema economico?
Migliorerà forse il bilancio dello Stato? Naturalmente no, dato che la manovra non modificherà il saldo complessivo, ossia la differenza fra le entrate e uscite.
Aumenterà la domanda di beni sul mercato? Non pare probabile, anzi quasi sicuramente la domanda complessiva si ridurrà, dato che il flusso maggiore (in valori assoluti) di pagamento si sposterà, come appare certo anche in attesa che la Ragioneria fornisca il dato, a vantaggio dei percettori di reddito più elevato, quelli cioè che hanno una propensione al risparmio maggiore della media. E comunque, se spesi dallo Stato, sia pure in forme improduttive, quegli euro avrebbero, nel 2005, dato vita ad un flusso di spesa superiore a quello che può essere originato dalle famiglie beneficiate dal taglio delle imposte: queste famiglie, infatti, destineranno una parte, piccola quanto si vuole (ma pur sempre di valore positivo), dell’incremento di reddito al risparmio.
Aumenteranno gli investimenti? Neppure a questo proposito sembra che la risposta possa essere positiva. Infatti, per quel che riguarda il settore privato, se non vi sono attese di maggiori profitti e/o non aumenta la domanda di beni e servizi (ed essa non può crescere finché non vi sia una spinta all’accrescimento della spesa complessiva), sembra molto arduo che gli imprenditori si lancino in nuove avventure o semplicemente all’ampliamento delle strutture e degli impianti esistenti od all’assunzione di mano d’opera aggiuntiva. Il taglio dell’Irpef non avrà quindi il potere di rilanciare, nel breve periodo, il sistema economico: potrà al massimo fornire un qualche sollievo alle famiglie le cui entrate sono composte prevalentemente da redditi da lavoro. Ciò servirà in parte a compensarle della perdita di potere d’acquisto subita negli ultimi anni.
La contrazione del potere d’acquisto delle famiglie italiane è argomento sul quale l’Eurispes ha compiuto più di una ricerca nell’anno appena trascorso e sul quale, oltre a ciò, sono stati versati fiumi d’inchiostro sui media. Persino gli statali, che in attesa di contratto, furono accusati dal Governo (complice l’ISTAT) di aver avuto nel quinquennio passato aumenti salariali superiori all’inflazione, hanno viceversa visto diminuire il proprio potere d’acquisto. Esemplare è la vicenda del rinnovo del loro contratto. L’Eurispes ha puntualmente smontato le tesi del Governo. Le rilevazioni Eurispes hanno registrato, nel solo 2002, un aumento per le spese per alimentazione del 29%, delle spese per i figli in minore età del 7%, dei premi delle assicurazioni del 15% (dopo aver mostrato una crescita simile – 14% – già nell’anno precedente).
Le imposte non sono diminuite. La riduzione delle aliquote e le modifiche delle detrazioni per i carichi familiari previsti per il 2005 dovranno ridurre quantomeno l’imposizione diretta sulle persone fisiche e, ci si augura, anche la pressione fiscale complessiva. Fino ad ora tuttavia abbiamo assistito al movimento contrario, nel senso che l’imposizione fiscale è lievitata, accrescendo il disagio delle famiglie. Non essendo ancora disponibili i dati per il 2004, si è misurata la pressione fiscale del 2003 confrontandola con quella dell’anno precedente (2002). Una prima conclusione che si può trarre è dunque quella che gli italiani nel 2003 hanno sacrificato, rispetto all’anno precedente, a vantaggio dell’erario, una quota maggiore del loro reddito.
La riforma delle pensioni. La riforma delle pensioni si è per il momento limitata al cosiddetto “incentivo” per prolungare la vita lavorativa di coloro che hanno maturato la possibilità della pensione di anzianità. Anche se non sono ancora disponibili i dati sul numero delle adesioni e soprattutto sulla sua capacità di ridurre il fenomeno delle pensioni di anzianità, la riforma rischia di avere modesti effetti in termini di bilancio dello Stato e di incontrare poche adesioni fra coloro che vogliono allontanarsi precocemente dal lavoro, e questo perché non lo troveranno così “conveniente” come si vuol far credere.
Si prenda ad esempio un metalmeccanico con uno stipendio annuo di 26.000 euro, che abbia maturato, a cinquantasette anni, il diritto alla pensione di anzianità. Per tre anni godrà di un incremento annuo di stipendio esentasse di 8.450 euro, che moltiplicati per tre raggiungeranno, quando a sessant’anni si ritirerà dal lavoro, il valore complessivo di 25.350 euro. Andrà però in pensione con una decurtazione rispetto a quella che avrebbe normalmente raggiunto a sessant’anni di oltre 4.000 euro all’anno, al netto della tassazione relativa. È facile comprendere che solo se il nostro metalmeccanico muore prima dei 65 anni sarà stato per lui conveniente aderire alla proposta del Governo. Com’è noto, la proposta del Governo rimanda al 2008 l’innalzamento dell’età minima pensionabile (65 per gli uomini, 60 per le donne) e degli anni contributivi (che non dovranno essere meno di quaranta). Questo cambiamento, di notevole portata per chi potrebbe andare in pensione, con le regole attuali, nei prossimi 5-10 anni, scatta da un giorno all’altro, e precisamente alle ventiquattrore del 31 dicembre 2007. Crediamo sia chiaro a tutti che la mancanza di gradualità nel passaggio da un’età minima pensionabile all’altra provocherà una fuga in massa nei mesi precedenti il primo gennaio 2008. Le conseguenze di ciò sul bilancio dell’Inps possono essere disastrose, anticipando nel tempo e accentuando la convessità di quella temuta “gobba” che si voleva appiattire.
Tutto va male, tranne la Borsa. L’anno che si è appena chiuso non è stato prodigo di soddisfazioni né per le imprese né per le famiglie ed in molti paesi d’Europa, compreso il nostro, comincia a soffiare il vento gelido della depressione. Fra i pochi segnali positivi del 2004 possiamo solo annoverare la crescita delle Borse nel Nuovo come nel Vecchio Continente. L’incremento degli indici di Borsa nell’ultimo anno ha interessato l’area dell’euro, del dollaro, della sterlina e dello yen, anche se la piazze dell’Europa continentale e del Giappone, con aumenti del 10% o più, hanno surclassato quelle inglesi e americane, le crescite delle quali non hanno superato l’8%. L’incremento registrato negli ultimi due mesi del 2004 è stato per Wall Street superiore a quello messo a punto nei dieci mesi precedenti. Le Borse europee, come sempre, sono state trainate da quella americana. Ma Bush non ha aiutato le Borse europee solo perché rieletto, ma anche per la sua politica di costante deprezzamento del dollaro che spinge i capitali a spostarsi dagli Stati Uniti all’Europa, con un flusso di mezzi di pagamento che sono al tempo stesso l’effetto e la causa della rivalutazione dell’euro. La Borsa del nostro Paese, come tutte le principali Borse mondiali, superati gli effetti congiunti del rallentamento planetario dell’economia, dell’attacco alle Torri gemelle e della guerra, ha messo a segno un anno del tutto positivo nella media dei diversi titoli. Il Mibtel con una crescita del 10% (9,97) in quattro mesi ha segnato un aumento medio di quasi il 2,5% al mese. Altrettanto brillante, sia pur di poco, è stato il Mib trenta, nonostante l’andamento contrastato di alcuni titoli pesanti. Quello che comunque appare rassicurante è la concordanza del segno di crescita per tutte le Borse.
Poveri benestanti. Il 2005 non si presenta roseo per l’Italia e per l’Europa. Troppe nubi si sono addensate sul cielo di quella che con termine burocratico si chiama “eurozona”. Altri paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti, ma anche la Cina, l’Argentina, la stessa India mostrano livelli di sviluppo superiori a quelli del Vecchio Continente. Certo, l’Europa continua ad essere un territorio privilegiato per livello di reddito, per abbondanza di capitale fisico e finanziario, per la qualità e la diffusione dei servizi sociali, per la cura che si comincia a porre alla tutela dell’ambiente e della natura, per la modesta presenza (relativamente ad altri territori) di disordini pubblici e di delinquenza. L’impressione è che, i redditi da lavoro siano per gli italiani del terzo millennio relativamente meno importanti (anche perché più tassati), e che soprattutto si sia persa la speranza che i nostri sforzi di studio e di lavoro garantiscano la mobilità sociale.
E, dunque, perché soffrire? E allora, quel senso di stagnazione che incombe sull’economia dell’Europa sarà anche il riflesso di un disagio sociale, dell’incapacità delle nostre istituzioni (scuola, università, aziende, media, istituzioni pubbliche) di valorizzare e premiare il lavoro, l’inventiva, la competenza?