Riforma Moratti e incremento delle iscrizioni. Il ciclo negativo delle immatricolazioni, che dal 1993 è perdurato fino al 2001, subisce una consistente inversione di tendenza in corrispondenza della data di avvio della riforma del sistema universitario italiano (a.a. 2001/02), per poi arrestarsi nuovamente nell’ultimo anno accademico (2004/05). L’aumento complessivo degli immatricolati, nei tre anni di applicazione della riforma, è stato del 19,6%, rispetto all’anno precedente l’attuazione della stessa.
In particolare, mentre dal 1993 al 2000 l’andamento delle immatricolazioni ha registrato un tasso di variazione negativo o pari a zero, con una perdita di studenti potenziali pari a circa 7.500 unità annue, dall’a.a. 2001/02 il tasso di variazione diventa positivo. Nell’a.a. 2003/04 si registrano 353mila unità di nuovi immatricolati, con un incremento di circa 6mila unità rispetto all’anno accademico precedente (pari a circa il 2%), mentre, nel 2004/05, il numero degli immatricolati (in base ai dati provvisori) risulta pressoché invariato (+0,7%) ma si consolida la scelta per i nuovi corsi introdotti a seguito della riforma (92%). Da segnalare come l’aumento dei nuovi iscritti, nel triennio successivo alla riforma, avviene malgrado una continua riduzione del numero dei 19enni, cioè di coloro che hanno l’età “normale” per iscriversi all’università. Infatti, i 19enni, nel triennio 2001-2003, sono diminuiti di circa 40.000 unità, ossia del 5,3% rispetto all’anno antecedente la riforma ma, a fronte di questo contenimento, cresce il bacino di studenti 19enni che conseguono il diploma di scuola secondaria: i “maturi”. E su questo segmento, peraltro, lievita l’incidenza di coloro che decidono di iscriversi all’università che passa dal 9% degli anni Sessanta al 27% degli anni Ottanta, per superare la soglia del 50% nei primi anni del nuovo millennio. Parallelamente, il rapporto percentuale tra gli “immatricolati” e i 19enni è passato dal 46% del 2000 al 59,7% del 2003, così come è aumentata dal 66,5% del 2000 al 76% del 2003 la percentuale degli immatricolati sui “maturi”.
Quindi, la popolazione italiana, benché contraddistinta da un maggiore invecchiamento rispetto al passato, si sta avviando verso un grado di scolarizzazione che consente al nostro Paese di aspirare ad avere una posizione più competitiva nello scenario internazionale. La maggiore attenzione riservata all’investimento in “formazione”, da parte delle famiglie e dei singoli individui, pone le basi per una presenza, all’interno della moderna società, di capitale umano qualificato in rapporto alla popolazione ed alla forza lavoro attiva. Nell’epoca della competizione globale e della mobilità delle risorse, migliorare il livello della formazione riducendone i gap (sia intra-nazionali, sia inter-nazionali) rappresenta oggi una meta irrinunciabile per tutte le economie mondiali e, in particolare, per i paesi dell’Unione europea. Elevare il grado della conoscenza e ampliarne la diffusione, promuovere un più incisivo intervento nel settore dell’istruzione (secondaria e terziaria) per arrivare ad una dotazione di capitale umano capace di affrontare le dinamiche delle moderne economie, diventa un obiettivo da perseguire ad ogni costo. In questa logica, pertanto, assume un ruolo centrale il sistema della formazione di grado più elevato (università). Passando, poi, dall’analisi puntuale fatta sui 19enni, a quella sulla composizione complessiva della domanda si osserva che la struttura per età degli immatricolati nel periodo 2000-2003, accanto allo zoccolo duro di nuovi iscritti rappresentato dai 19enni (54% degli immatricolati nel 2003), è caratterizzata da nuove iscrizioni da parte degli “ultra” 22enni che rappresentano, nel 2002/03, il 21% degli immatricolati, contro il 16% di soli due anni prima. Questo fattore è sicuramente legato alla riforma del sistema universitario che, con l’inserimento delle lauree triennali e la conseguente riduzione degli anni di studio, ha spinto coloro che negli anni precedenti avevano optato per il “non-proseguimento” degli studi ad un ripensamento.
Gli abbandoni e i fuori corso. Gli studenti che abbandonano l’università, tra il primo ed il secondo anno di corso, negli ultimi anni sono mediamente il 20% (il 21,3% negli anni accademici 1998/99 e 1999/00, il 19,3% nel 2000/01). Prendendo in considerazione i soli immatricolati nell’anno accademico 2001/02, la percentuale di quelli che hanno abbandonato l’anno successivo si attesta intorno al 22%. Nonostante il grande numero di immatricolazioni e l’incremento dei laureati, l’università italiana si caratterizza ancora per un elevato tasso di abbandono dei corsi: solo uno studente su due arriva alla laurea rispetto a quanti avevano iniziato il corso sette anni prima. Tale fenomeno si sta, comunque, ridimensionando dato che, rispetto agli ultimi 4 anni, il tasso di abbandono è sceso dal 60% del 2000 al 48% del 2003. Altro aspetto negativo del sistema è rappresentato da un incremento degli studenti fuori corso. Il numero di questi ultimi sugli iscritti passa dal 27% del 1980 al 36% del 2003; questo comporta che la durata effettiva degli studi si allunga progressivamente con un ritardo medio, rispetto alla durata legale dei corsi, di oltre tre anni e che l’età media alla laurea si attesta intorno ai 27 anni (per i vecchi ordinamenti di durata quadriennale). Ad ogni modo, complessivamente, i laureati e i diplomati universitari nel 2003 sfiorano quota 234.000 facendo registrare un incremento del 17,4% rispetto al 2002 come ultimo tratto di un trend crescente. Nel decennio 1993-2003 il numero di laureati italiani aumenta del 133%, un incremento, questo, assai notevole che rappresenta un dato significativamente positivo per la società italiana in vista dei “traguardi” europei. Analogamente aumenta il livello di produttività del sistema universitario italiano arrivando a conquistare, nell’a.a. 2003/04, la fatidica pergamena di laurea/diploma uno studente su due tra quanti avevano iniziato l’università sette anni prima. In base allo stesso Rapporto, in passato, si laureava solo uno studente su tre. La positività di questo fenomeno viene, però, attenuata dalle considerazioni sulla struttura per età dei nostri laureati. In Italia infatti ci si laurea tardi. Nel 2003 il 68% dei laureati era uno studente fuori corso, con un’età media molto alta: circa il 23% dei laureati aveva un’età superiore ai 30 anni. Anche il confronto con gli anni precedenti mostra che mediamente più del 40% dei laureati era uno studente fuori corso da oltre 3 anni. Nello specifico la percentuale di coloro che conseguono la laurea nella durata legale prevista dal corso è solo del 4% per le lauree specialistiche e del 37% per le lauree triennali.
Un confronto internazionale. Nel 2002, in Italia, ben 50 giovani di 19 anni su 100 (44% di uomini, 57% di donne) hanno deciso di iscriversi al ciclo di formazione terziaria. Si tratta di un valore perfettamente allineato ai tassi europei ed internazionali (la media nei paesi Ocse si attesta intorno al 50%), ed in alcuni casi è superiore a quello di paesi importanti, in quanto paragonabili sia da un punto di vista demografico che socio-economico, quali la Francia (37%) e la Germania (35%).
D’altra parte, analizzando i dati di alcuni paesi Ocse sul tasso di conseguimento dell’istruzione terziaria, dato dal rapporto tra gli studenti che hanno conseguito per la prima volta un titolo di istruzione terziaria e la popolazione della corrispondente fascia d’età per il conseguimento del titolo, si vede come l’Italia, escludendo la Germania e l’Austria, si trovi al di sotto della media degli altri paesi economicamente avanzati. Nel 2001, i paesi dell’Ocse hanno destinato in media il 12,7% del totale della spesa pubblica all’istruzione in tutti i suoi livelli, ed il 2,8% alla formazione terziaria. In Italia queste percentuali si riducono, rispettivamente, al 10,3% ed all’1,7%.
Il contributo delle Regioni. Gli interventi attuati dalle Regioni, attraverso gli Enti per il diritto allo studio, possono distinguersi in: interventi diretti einterventi indiretti. I primi sono destinati agli studenti capaci e meritevoli privi di mezzi, ossia che versano in condizioni di disagio economico. I secondi sono accessibili a tutti, a prescindere dalla situazione di merito di chi studia. Nei ultimi anni, oltre ad un graduale aumento del gettito derivante dalla tassa regionale (da circa 126 milioni di euro del 1997 ai quasi 156 milioni di euro del 2003), si registra un trend crescente anche nelle risorse proprie impiegate dalle Regioni, aumentate più del 100% dal 1997 al 2003 (pari a poco più di 97 milioni di euro nel 2003); l’importo delle risorse stanziate per il Fondo Statale Integrativo è caratterizzato, invece, da un trend crescente fino al 2001 (anno in cui il Fsi ha raggiunto la cifra massima di 129 milioni di euro) e da una lieve flessione negli anni successivi. Il progressivo ampliamento del totale delle risorse finanziarie destinate al Dsu ha determinato un corrispondente aumento della spesa per studente regolare (spesa pro capite) fino all’a.a. 2000/01; dal successivo anno accademico tale incidenza è andata progressivamente diminuendo in corrispondenza della ripresa delle immatricolazioni a seguito della riforma Moratti. La principale preoccupazione, espressa in varie occasioni sia dal mondo accademico sia dai singoli Governi regionali, è che il già indicato incremento delle immatricolazioni non venga sostenuto, in maniera idonea, dagli stanziamenti destinati al Fondo Statale Integrativo, al fine di mantenere inalterati almeno i livelli attuali di spesa pro capite necessari a garantire un adeguato grado di copertura delle politiche per il diritto allo studio. Se le prossime Finanziarie dovessero mantenere invariato, o addirittura ridurre, lo stanziamento per il Fsi, sarebbe necessario un maggiore impegno di risorse da parte delle singole Regioni; d’altro canto, tale “impegno” dovrà essere supportato dalla realizzazione del nuovo assetto “federalista” del sistema fiscale, senza il quale gli Enti locali non riuscirebbero a trovare le risorse finanziarie necessarie a sostenere i costi, in prospettiva crescenti, per il diritto allo studio.Il confronto tra la media delle risorse trasferite alle Regioni attraverso il Fondo Statale Integrativo e la media degli studenti iscritti in corso nello stesso periodo di tempo, offre valutazione dell’impegno locale (inteso come impiego di risorse per studente a livello regionale) in tema di diritto allo studio, nel medio termine. In alcune Regioni l’ammontare di risorse ricevute pesa sul totale nazionale in misura maggiore rispetto agli studenti iscritti: è il caso della Toscana, delle Marche e dell’Emilia Romagna. In altre Regioni il rapporto è invertito, la percentuale di studenti iscritti sul totale nazionale è superiore a quella delle risorse ricevute. Poiché i finanziamenti del Fsi sono erogati per una quota prevalente in base alla spesa per il diritto allo studio, si può dedurre che, a parità di iscritti in corso, Toscana, Marche ed Emilia Romagna, hanno speso di più per interventi a sostegno degli studenti rispetto alle altre Regioni.
Confrontando la spesa complessiva degli Enti regionali in rapporto al numero di studenti iscritti regolari, per l’a.a. 2002/03 risulta che la Campania e la Puglia sono le regioni con la più bassa “spesa pro capite”, pari rispettivamente a 178 e 208 euro per studente regolare, contro una media nazionale di 343 euro. Alcune regioni del Sud (per esempio, la Campania) hanno un livello di spesa pro capite simile ad alcune regioni del Nord (per esempio, la Lombardia); a parità di efficienza nella ripartizione della spesa complessiva degli ISU (Istituto per il diritto allo Studio Universitario), però, il livello di efficacia raggiunto dalle Regioni è diverso. A livelli simili di spesa pro capite, infatti, corrispondono diversi livelli di incidenza degli idonei alla borsa di studio sul totale degli studenti iscritti. Questo implica che in alcuni casi, come in Campania, il livello di incidenza è del 59,3% ed il grado di copertura (beneficiari su idonei) è del 42,9% evidenziando un livello di efficacia di gran lunga inferiore rispetto, ad esempio, alla Lombardia dove gli idonei sono solo il 36,7% degli iscritti regolari e, dunque, con un livello di spesa pro capite contenuto, si raggiunge la copertura dell’ 80% degli idonei.
La distribuzione della spesa. Dai dati del 2003 relativi alla distribuzione della spesa totale degli Enti regionali per interventi finanziari a favore degli studenti si rileva che, a livello nazionale, la spesa per il Dsu si concentra primariamente sulle borse di studio (60%), sul servizio di ristorazione (20%), e sul servizio abitativo (14%); seguono, in misura marginale, i contributi alla mobilità, gli interventi a favore degli studenti disabili, le collaborazioni part-time ed infine i prestiti d’onore.
Il prestito d’onore: uno strumento mai decollato. Il prestito d’onore è un finanziamento concesso agli studenti, che soddisfano determinate caratteristiche di reddito e di merito, il cui rimborso avviene ratealmente, senza interessi, a partire, in genere, da cinque anni il completamento degli studi. Un dato che dovrebbe essere oggetto di profonda riflessione è quello relativo al numero di prestiti concessi dal 1997 ad oggi, pari a circa 574 a fronte di circa 853 domande presentate. I numeri indicano chiaramente il fallimento di tale strumento, contrariamente a quanto avviene in altri paesi come la Gran Bretagna, la Norvegia o la Germania in cui è più radicata la cultura dell’investimento in capitale umano e dove il prestito d’onore rappresenta la fonte di finanziamento principale, delegando la borsa di studio alla copertura di situazioni di reale disagio economico. Un segnale positivo era stato dato con la Finanziaria del 2004 in cui si introduceva il prestito fiduciario che, rispetto al “vecchio” prestito d’onore, riservato agli studenti “capaci, meritevoli e bisognosi”, allargava la platea dei potenziali beneficiari a tutti gli studenti “capaci e meritevoli”. Si introduceva, dunque, un incentivo più flessibile, più moderno e con minore stampo “assistenzialista” rispetto al precedente. La legge 24 dicembre 2003 n.350 (Finanziaria 2004) prevedeva il finanziamento di tale istituto con un Fondo di garanzia, che per il 2004 sarebbe stato pari a 10 milioni di euro, la cui gestione veniva affidata ad una società, Sviluppo Italia Spa, interamente partecipata dallo Stato. La Consulta, con sentenza del 24 ottobre del 2004, ha dichiarato parzialmente illegittime le norme che disciplinano il nuovo prestito fiduciario “resuscitando”, di fatto, le vecchie norme sul prestito d’onore.
Le borse di studio. Le borse di studio incidono per il 60% sul totale degli interventi finanziari che vengono destinati agli studenti dagli Enti per il diritto allo studio. Tale spesa è progressivamente cresciuta su tutto il territorio nazionale, con alcune eccezioni a livello regionale, come nel Lazio dove dal 2000 ad oggi è andata progressivamente diminuendo. Il trend positivo della spesa è riconducibile sia all’aumento del numero dei beneficiari di borsa di studio, che sono più che raddoppiati dal 1997 ad oggi, sia all’aumento delle somme erogate per studente che, in media, sono passate da 2.157 euro nel 1997, a 2.684 euro nel 2003.
Permengono d’altra parte evidenti situazioni di disomogeneità tra il Centro-Nord ed il Sud Italia: nel 2002/03 il grado di copertura al Nord è stato del 90%, al Centro dell’80% ed al Sud del 57%.
Il diritto alla mobilità degli studenti. La “immobilità” internazionale ed interregionale. Nonostante i sostegni, solo un universitario su cento studia all’estero per un periodo significativo. La prevista integrazione, che si prefigge la copertura dei costi di mantenimento all’estero per il periodo di permanenza (da 3 a 12 mesi), consiste, in genere, in un contributo erogato dagli Enti per il Dsu ad incremento della borsa europea (programma Socrates-Erasmus) che, come noto, è destinata a coprire le sole spese di mobilità. Gli studenti con maggiori possibilità di trasferta provengono dalle università non statali Bocconi di Milano, Liuc di Castellanza, Luiss e Pio V di Roma, con una percentuale, rispettivamente, del 7%, del 5% e del 4% di iscritti che hanno utilizzato i fondi Socrates-Erasmus nel a.a. 2002/03 sul totale degli studenti iscritti, contro un media nazionale dell’1% circa. Gli Atenei con la minore percentuale di mobilità internazionale sono concentrati in massima parte nel Sud-Italia. Da segnalare la scarsa attrattività dei nostri Atenei all’estero: infatti rispetto ai 1,9 milioni di studenti che nel 2002, a livello internazionale, hanno deciso di studiare in un paese diverso rispetto a quello di residenza, solo l’1,5% ha scelto una università italiana contro il 31% degli Usa, il 12% della Germania e Regno Unito, il 10% dell’Australia ed il 9% della Francia. Circa metà degli studenti stranieri presenti nel nostro Paese, inoltre, proviene dall’Albania e dalla Grecia.
A livello nazionale, in media solo 2 studenti su 10 si iscrivono al primo anno in un Ateneo di una regione diversa da quella di residenza. Esistono tuttavia profonde differenze a livello regionale: in Campania, Lazio, Toscana, Emilia Romagna e Lombardia solo 1 studente su 10 esce dalla regione di residenza; in Trentino e in Calabria esce quasi 1 studente su 2, mentre 7 studenti su 10 lasciano la Basilicata. Il flusso di mobilità interregionale è caratterizzato da una migrazione Sud verso Nord – pari a circa il 20% – , in cui la regione con il più alto saldo migratorio netto (differenza tra gli immatricolati in ingresso e gli immatricolati in uscita) positivo risulta essere l’Emilia Romagna seguita dal Lazio e dalla Lombardia; le regioni con il maggiore saldo negativo sono, invece, la Calabria e la Puglia.
Il servizio abitativo. Nel 2003, erano circa 380mila gli studenti universitari provenienti da una regione diversa da quella di residenza, e circa 500mila quelli provenienti da un’altra provincia nell’ambito della stessa regione. Si stima che la domanda di posti alloggio si di circa 900.000 unità, a cui andrebbero aggiunti i ricercatori, gli studenti provenienti dall’estero con il progetto Erasmus (circa 11.000), i partecipanti ai corsi di specializzazione ed ai master universitari.
Gli ultimi dati disponibili, relativi all’a.a. 2003/04, indicano un numero di posti alloggio, a livello nazionale, pari a 33.255 gestiti dagli organismi regionali per il Dsu di cui quasi un quarto concentrati in sole cinque sedi universitarie che, o per tradizione o, come Cosenza, per una più recente scelta, rappresentano realtà di università “residenziali”: Urbino (1.412), Pavia (1.406) Cosenza (2.828), Camerino (617), Padova (1.668).
In merito al rapporto tra il numero di posti alloggio e il numero di studenti universitari iscritti, il confronto con alcuni paesi dell’Unione europea, evidenzia come il nostro Paese abbia il minor numero di posti alloggio per studente, pari al 2,9%, che, rapportato al 10% della Germania o al 7,2% della Francia (paesi che hanno un numero di iscritti simile a quello italiano), mostra la dimensione della carenza di posti letto universitari.

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