L’incidenza del lavoro dipendente sul Pil. La quota di redditi da lavoro dipendente sul Pil è un indicatore di primaria importanza per l’analisi della struttura e delle tendenze distributive del reddito nazionale, poiché costituisce un indicatore delle modalità di combinazione dei fattori di produzione a livello aggregato e aiuta a descrivere la dinamica della profittabilità delle imprese. I dati relativi alla contabilità nazionale dell’ultimo decennio evidenziano che all’aumentare del Pil non corrisponde un incremento proporzionale della quota di reddito da lavoro dipendente. Infatti, quest’ultimo, dal 1993 al 2003, ha perso quattro punti percentuali (dal 45,8% al 41,8%) sul Pil, pari a circa 50 miliardi di euro, che trasformati in risparmi e consumi rilancerebbero la domanda. L’incidenza decrescente del reddito da lavoro dipendente sul Pil dipende sia da una inadeguata politica salariale, sia da una maggiore diffusione delle forme di lavoro autonomo che non incide su questa voce economica. I redditi da lavoro dipendente in questi dieci anni sono aumentati con un livello pari a quello inflazionistico, per cui non hanno beneficiato della quota di aumento della produttività che, al contrario, è confluita al capitale e allo Stato, attraverso le imposte.
Distribuzione del reddito e della ricchezza tra le famiglie italiane. L’Eurispes ha analizzato l’evoluzione del reddito delle famiglie italiane negli ultimi anni, con riferimento alla professione del capofamiglia, e della distribuzione della ricchezza. Secondo gli ultimi dati forniti dalla Banca d’Italia (riferiti solo al 2002), il reddito familiare medio annuo, al netto delle imposte sul reddito e dei contributi previdenziali e assistenziali, è pari a 27.868 euro, 2.322 euro mensili; nel 2000 corrispondeva a 26.098 euro annui e 2.175 mensili.L’incremento percentuale medio del reddito tra il 2000 e il 2002 corrisponde al 6,8% in termini nominali e solo all’1,1% in termini reali (per l’incidenza dell’inflazione). Se osserviamo la disaggregazione dei dati per condizione professionale del capofamiglia, si evince un consistente incremento positivo del reddito per i lavoratori autonomi (il 10,1% in termini nominali e il 4,4% in termini reali), mentre il lavoratore dipendente registra una evoluzione economica piuttosto sofferta (pari al 5,7% in termini nominali e allo 0% in termini reali) che diventa critica per l’operaio e l’impiegato (addirittura di segno negativo per la variazione reale, pari a -1,8%). La suddivisione in decili delle famiglie italiane, incrociata con il reddito totale prodotto mostra che il 10% delle famiglie con il reddito più basso percepisce solo il 2,3% del totale dei redditi prodotti in Italia, mentre il 10% di famiglie con i redditi più elevati detiene il 26,5% del totale. In sintesi il 10% delle famiglie italiane percepisce un quarto del reddito complessivo prodotto in un anno.
Questa distribuzione non risulta significativamente differente a quella rilevata negli anni precedenti: infatti, nel 2002, l’indice di concentrazione di Gini (l’indice di concentrazione di Gini misura se il reddito è equidistribuito o concentrato tra le unità. E’ una misura relativa il cui campo varia tra 0 e 1, dove 0 indica la massima equidistribuzione e 1 la massima concentrazione), misurato sui redditi familiari risulta pari a 0,359 (nel 2000 corrispondeva a 0,3602 e nel 1998 a 0,3742), mentre quello misurato sui redditi equivalenti (per reddito equivalente si intende il reddito di cui ciascun individuo dovrebbe disporre se vivesse da solo per raggiungere lo stesso tenore di vita che ha nella sua famiglia) risulta pari a 0,327 (nel 2000 corrispondeva a 0,329 e nel 1998 a 0,343).
L’analisi riferita ad un panel di famiglie intervistate a distanza di due anni fornisce interessanti indicazioni sulla dinamica della posizione delle famiglie nella scala di reddito. Le famiglie vengono ordinate secondo il reddito percepito nel 2000, suddividendo il campione in cinque parti di uguale numerosità sulla base del reddito, e si opera il confronto con la posizione occupata nella partizione del 2002. Il 20% delle famiglie con redditi più bassi viene collocato nel 1º quintile, il 20% con redditi immediatamente più alti nel 2º, e cosi via. Si può osservare che a distanza di due anni, si verifica con maggiore frequenza la persistenza nella stessa classe di reddito, soprattutto nelle fasce più estreme della distribuzione: il 68,1% delle famiglie intervistate permane nella classe di reddito più contenuta e il 66,4% in quella più elevata.
Le considerazioni più interessanti si riferiscono alla mobilità delle famiglie da una classe di reddito all’altra, che si verifica soprattutto tra classi adiacenti: il 22,5% delle famiglie che nel 2000 si collocava tra il 1ºe il 2º quintile di reddito, nel 2002 scende al 1º quintile ed il 21,1% delle famiglie ha compiuto il processo inverso. Per quanto riguarda i mutamenti più significativi, da segnalare che tra coloro che nel 2000 appartenevano alla classe di reddito superiore al 4º quintile, lo 0,9% è scivolato nel 1º, il 2,5% tra il 1º e il 2º e il 5,7% tra il 2º e il 3º. Al contrario, lo 0,8% delle famiglie ha registrato notevoli miglioramenti passando dalla classe di reddito più contenuta a quella più elevata. Si è rilevata una elevata mobilità tra i quintili sia in direzione favorevole (con un incremento del reddito) sia in senso negativo (con un decremento) e purtroppo, conteggiando i singoli casi, si totalizza un numero maggiore di retrocessioni a classi di reddito più basse.
Economicamente si tratta di una mobilità rapida (in soli due anni si passa da un quintile all’altro) che può essere conseguenza di improvvisi arricchimenti e repentini rovesci di fortuna. La facilità degli spostamenti nelle diverse classi di reddito deve essere guardata con occhio critico in quanto rappresenta un ulteriore indicatore di instabilità tra le famiglie italiane. Nel 2002, la ricchezza familiare netta, costituita dalla somma delle attività reali (immobili, aziende e oggetti di valore), attività finanziarie (titoli azionari, di Stato, depositi, ecc.) al netto delle passività finanziarie (mutui e altri), presenta un valore mediano pari a 103.000 euro. Il trend della ricchezza per condizione professionale del capofamiglia evidenzia complessivamente un decremento della ricchezza sia tra i lavoratori dipendenti che autonomi (nel 2002 il valore mediano per i primi è pari al 92,2% e per i secondi al 191,6%, a fronte degli indici di partenza pari rispettivamente a 100,1% e 201%), mentre appare in leggero incremento tra le persone in condizione non professionale (nel 2002 l’84,3%, contro il 68,1% del 1991). Però, procedendo nell’analisi delle specifiche condizioni professionali del capofamiglia, si notano consistenti differenze: ad una consistente crescita della ricchezza delle famiglie con capofamiglia dirigente (nel 2002 il valore supera del doppio la mediana generale) si contrappone un andamento negativo tra i nuclei familiari con capofamiglia operaio (nel 2002 il livello di ricchezza scende al 38% circa della mediana generale). Per quanto riguarda la ricchezza familiare dei lavoratori autonomi si registra una tendenza sostanzialmente stabile, nel decennio considerato, con valori che oscillano intorno ad un livello medio pari a circa il doppio della ricchezza mediana nazionale. In significativo miglioramento le condizioni economiche delle famiglie dei pensionati (da 69,8% del 1991 all’87% del 2002), anche se il livello di ricchezza si conferma al di sotto della mediana generale.
La ricchezza presenta una concentrazione maggiore rispetto a quella del reddito, registrando un indice di Gini pari a 0,691 (0,622 nel 2000).
Quale futuro? Come primo commento dei dati riportati, relativi al reddito e alla ricchezza, possiamo affermare che si sta incrementando un fenomeno già manifestato all’inizio degli anni Novanta, ossia l’allungamento della distanza tra chi ha un tenore di vita elevato e chi non ha le basi per la sussistenza. La tendenza più grave consiste nello squilibrio nella distribuzione funzionale del reddito che va a discapito del lavoro dipendente; minori guadagni si traducono in minore potere d’acquisto.
Si prevede che «nel 2014, in Italia, i ricchi saranno più ricchi e i poveri saranno più poveri. Si verificherà una polarizzazione nella distribuzione del reddito. La disuguaglianza crescerà come in tutto il mondo». «Sia in Italia che in Europa crescerà il numero di lavoratori poveri: persone che pur lavorando in modo continuativo percepiranno retribuzioni molto basse. Saranno i lavoratori meno qualificati, giovani, con un livello di istruzione non elevato». Pertanto ci sarà un cambiamento nelle situazioni di disagio: attualmente i poveri sono disoccupati, pensionati con livelli minimi di reddito e famiglie numerose, tra dieci anni saranno povere anche alcune categorie di lavoratori.
“Povertà oscillante”. Oltre al numero delle famiglie povere calcolato dall’Istat è possibile stimare un numero di famiglie italiane che sono seriamente a rischio povertà, sulla base dei dati Banca d’Italia.
Si tratta di nuclei familiari che attualmente non vengono conteggiati tra gli indigenti poiché si collocano al di sopra delle linee di povertà standard, ma il cui reddito è talmente vicino al limite della soglia di povertà che un evento imprevisto (perdita del lavoro, malattia, perdita della casa, ecc.) potrebbe facilmente compromettere l’equilibrio economico-finanziario in cui vivono.
Utilizzando i parametri riferiti alle fasce di reddito Banca d’Italia e dati Istat, si stimano circa 2.400mila famiglie a rischio povertà, quasi l’11% delle famiglie totali e circa 7milioni e mezzo di persone.
Nel nostro Paese, come accade negli Stati Uniti, non si sta verificando solo un accrescimento del rischio di impoverimento, ma la diffusione di una nuova tipologia di povertà: la “ povertà oscillante” o fluttuante. La povertà fluttuante è uno stato di disagio occasionale, temporaneo, in periodi spesso coincidenti con crisi occupazionale o di diminuzione dei redditi che, forse per dignità personale, resta confinato nella sfera familiare o nelle micro realtà sociali, sfuggendo spesso alle rilevazioni ufficiali.
Le situazioni di povertà fluttuante sono caratterizzate da una estrema variabilità della condizione economica dell’individuo, con variazioni repentine da una classe di reddito all’altra, come evidenziato nella mobilità dei quintili di reddito classificati dalla Banca d’Italia.
Si tratta di contingenze sociali particolarmente rischiose, espressioni di una precarietà sempre più diffusa in ceti anche di livello medio che si ritenevano un tempo al riparo da queste evenienze, perché poco studiate o, addirittura, sconosciute e quindi difficili da gestire.
Una povertà fluttuante che incombe nella vita delle famiglie a rischio, come una scure sospesa sulla testa pronta a colpire in momenti di debolezza o in seguito ad eventi critici, difficili da prevedere.
Sommando i valori dei soggetti a rischio povertà a quelli già annoverati tra gli indigenti, si calcola che oltre 4.700mila famiglie italiane sono coinvolte nella morsa della povertà, circa il 22% famiglie totali e oltre 14milioni di individui.
Qualche aggiornamento sulla povertà. Ma che cosa si intende esattamente quando si parla di povertà, oggi? Non esiste una verità assoluta sul fenomeno e spesso anche quei parametri di analisi universalmente condivisi prestano il lato a critiche.
Un modo per non incorrere in errori di valutazione del fenomeno è partire dal presupposto che un approccio di analisi della povertà deve porsi l’obiettivo di quantificare non soltanto una “povertà assoluta” o una “povertà relativa”, ma uno status di povertà relativo ad una maggiore o minore esclusione di una famiglia rispetto al sistema sociale complessivo. Secondo tale impostazione, povertà non è solo trovarsi al limite di una predeterminata linea di povertà ma è anche l’impossibilità di soddisfare quei bisogni umani indotti dal sistema culturale e dalla organizzazione consumistica.
La misurazione della povertà, convenzionalmente, avviene attraverso la valutazione delle risorse economiche di un individuo rispetto agli altri (povertà relativa) o utilizzando come riferimento un paniere di beni e servizi essenziali per il soddisfacimento dei bisogni (povertà assoluta).
La povertà relativa viene calcolata in rapporto ad un indice, una media o mediana della distribuzione del benessere di una società, apportando di anno in anno dei correttivi che tengono conto della crescita dell’economia. La “soglia” della povertà relativa è calcolata annualmente rispetto alla spesa media pro capite per consumi delle famiglie; questo significa che la linea di povertà relativa si sposta di anno in anno sia a seguito della variazione dei prezzi al consumo, sia in base all’andamento in termini reali della spesa per consumi delle famiglie. In base a questi parametri, l’Istat sposta la linea di povertà di anno in anno, tenendo conto dell’ampiezza dei nuclei familiari. Adottando come parametri di riferimento le linee di povertà relativa fissate e i dati dell’indagine Istat sui consumi delle famiglie italiane, a partire dal 2001 si assiste ad una significativa diminuzione delle condizioni di povertà sia tra le famiglie sia tra gli individui, tendenza che segna una decisiva inversione di marcia rispetto al trend crescente iniziato nel 1997. Tra il 2002 e il 2003 si verifica un ulteriore decremento della povertà: infatti, nell’ultimo anno considerato, vivevano in condizioni di povertà 2.360.000 famiglie, per un totale di 6.786.000 persone. Quindi, nel 2003, ben 96mila famiglie e oltre 350mila persone hanno abbandonato la fascia di povertà.
L’incidenza della povertà, ossia il rapporto tra il numero delle famiglie povere e il totale delle famiglie residenti, nel 2003 è pari a 10,6%. L’analisi della povertà in termini di ampiezza familiare, nell’arco temporale considerato (1997-2003) evidenzia come la concentrazione della povertà tra le famiglie numerose rappresenti una costante. Nel 2002, il 23,4% delle famiglie con 5 o più componenti è in condizioni di povertà, questa percentuale scende al 20,9% nel 2003. Il trend degli ultimi anni evidenzia come, a partire dal 1997, siano state le famiglie più numerose a risentire delle difficili condizioni in cui ha versato la nostra economia. Infatti ad impoverirsi sempre di più sono state le famiglie a 5 componenti (e solo in questo ultimo anno si è verificata una inversione di tendenza) e quelle a 4 componenti (12,9% nel 1997, a fronte del 14,2% del 2001 e del 12,5% nel 2002 e nel 2003).
Le famiglie unipersonali, negli anni, sembrano avere un destino migliore in quanto la povertà incide in misura minore nei confronti di questa tipologia familiare (11,2% nel 1997, 8,8% nel 2002 e 8,7% nel 2003).