Solitamente con il termine “povertà” si intende rimarcare l’assenza o l’accentuata carenza di risorse, primariamente economiche, monetarie e di reddito, necessarie per vivere; e, talvolta, per sopravvivere. Altre volte la parola “povertà” viene invece utilizzata per definire situazioni di disagio sociale, personali e/o familiari, non sempre e non necessariamente accompagnate da assenza o carenza di risorse economiche ma contrassegnate da disagi socio-psicologici, da malessere esistenziale, incertezza e insicurezza sul proprio futuro. Quasi un coperchio adattabile ad ogni tipo di pentola. Le prevalenti definizioni ed i “contenitori” concettuali che hanno accompagnato lo studio e l’elaborazione del fenomeno povertà e delle rappresentazioni culturali e socio-politiche del disagio e dell’emarginazione sociale, vengno oggi supportate da due ulteriori approfondimenti: la “messa a fuoco” di una nuova teoria, orientata ad una “analisi dinamica della povertà”, denominata povertà oscillante; e la riflessione su una recente e contrastata tipologia concettuale, nota come povertà soggettiva o percepita.In Italia, limitando l’osservazione e l’indagine alla componente economica, i fenomeni di disagio e/o di emarginazione vengono rilevati attraverso la cosiddetta povertà relativa (con riferimento al sistema denominato ISPL-International Standard Poverty Line), secondo la quale si definiscono povere quelle famiglie di due persone la cui spesa mensile per consumi è inferiore alla spesa media per consumi pro capite.
Povertà soggettiva e percepita. Una contrastata e contestata macro-tipologia concettuale di povertà ha recentemente fatto il suo ingresso nel panorama simbolico dell’opinione pubblica, nei dibattiti dei mass media e in ambito socio-politico e culturale in genere, coinvolgendo anche Istituti di ricerca e di indagine sociologica: si tratta della cosiddetta povertà soggettiva o percepita.Se un italiano su due si guarda nelle tasche, ha la sensazione di essere povero. O comunque di non guadagnare abbastanza, di non poter disporre delle risorse necessarie per condurre una vita decorosa, per poter tirare avanti. Alla domanda “ritiene che il suo stipendio sia sufficiente per vivere senza lussi ma senza privarsi del necessario?”, il 51,4% dei nostri connazionali risponde “no”. È quanto attestano le rilevazioni realizzate nel 2003, su un campione di 24mila famiglie su base annua (2mila intervistati ogni mese). Con una puntualizzazione: quel 51,4% di persone che si dichiarano povere non lo sono oggettivamente e non rientrano negli standard di individuazione della povertà “assoluta” o “relativa”; il che, tuttavia, non impedisce, a livello soggettivo, che le persone interpellate si percepiscano tali. Inoltre l’indagine non ha mirato a «individuare una fascia di indigenza o un gruppo di soggetti che versa in una condizione economica significativamente peggiore della media della popolazione»: mirava semplicemente a far emergere «il grado di insoddisfazione rispetto ai propri livelli di reddito». Insoddisfazione e disagio percepiti in misura maggiore al Sud e nelle Isole (con tassi intorno al 57%), al Centro (intorno al 52% circa) e al Nord (dove però non va oltre il 47%).
Dall’analisi emergono diversi scaglioni di reddito minimo percepito in base all’ampiezza del nucleo familiare. Per un single (“famiglia monocomponente”), ad esempio, la base necessaria per condurre una vita dignitosa sarebbe un introito di 1.040 euro; per le coppie salirebbe a 1.360 euro, per i nuclei di tre persone a 1.650 euro (+4%) e per la famiglie più numerose a oltre 1.800 euro (+7%). Valori, che riflettono la percezione tra gli intervistati di un costo della vita in crescita vorticosa (+5,4%) rispetto al tasso di inflazione. L’incidenza della povertà soggettiva è più elevata tra le casalinghe, i pensionati e gli invalidi, tra i disoccupati del Centro e del Sud, tra gli operai e coloro che non dispongono di alcun titolo di studio o hanno la licenza elementare o media; e più in generale tra i single. All’indagine sull’Italia, se ne accompagna poi un’altra, condotta su un campione di circa 60.000 unità in 14 paesi della Ue: l’analisi evidenzia che nel nostro Paese la percentuale di famiglie che percepiscono il disagio economico toccava nel 1999 addirittura il 71,4%. Dallo studio emerge anche che la povertà soggettiva è più diffusa nei paesi dell’area mediterranea: in Grecia e in Portogallo si attesterebbe rispettivamente sull’80% e il 79,7% delle famiglie; in Spagna al 59,4%. Mentre in Olanda, Danimarca e Finlandia supererebbe di poco il 10%. Uno scarto così marcato tra i diversi paesi si può motivare solo tenendo conto di molteplici variabili sociali e statistiche nazionali; oltre, naturalmente, al livello di copertura assicurato alla popolazione da ciascun sistema di welfare.
La “povertà oscillante”: per una analisi “dinamica” della povertà. Sulla scia di nuove ricerche sociologiche, in prevalenza statunitensi ma anche europee, inglesi e tedesche in particolare, si sta facendo strada una ulteriore teoria sulla individuazione delle situazioni, dei volti e dei fenomeni di povertà, battezzata “analisi dinamica sulla povertà”: teoria e analisi che permette di far emergere e identificare quella che viene definita povertà oscillante. La povertà oscillante viene definita come una precaria condizione socio-esistenziale ed economica non “relativa” o “assoluta”, “estrema” o “immateriale” ma, appunto, “oscillante”, temporanea, instabile, talvolta occasionale, spesso ricorrente, che può comprimere e schiacciare le persone o i nuclei familiari secondo una traiettoria di più accentuata deriva-esclusione sociale verso il basso (come spesso avviene); ma che – secondo gli studiosi – potrebbe anche registrare possibili “escursioni” verso l’alto della piramide sociale (oggi pressoché impensabili); e perfino prefigurare apprezzabili e decorose fuoriuscite dal tunnel della povertà o del disagio. Dall’ottica dell’indagine, si tratta di un nuovo approccio culturale e di ricerca “dinamica” della povertà; teoria e approccio che, soprattutto in Italia, stenta ad affermarsi. Ma che, secondo gli autori, può meglio individuare e tenere sotto osservazione le dinamiche “situazionali”, strutturali ed empiriche che causano e portano all’esclusione sociale; e, quindi, approcci e dinamiche in grado di prospettare ed attivare “virtuose” e appropriate politiche sociali di prevenzione e di sradicamento, di tutela e di protezione.
Europa: verso una deriva incontrollabile? Nel Vecchio Continente risultano oltre 55 milioni di poveri ed emergono situazioni di profonde disuguaglianze, che convivono all’interno di uno stesso paese o tra diversi paesi. È quanto emerge dal 1° Rapporto sulla povertà in Europa, uno studio statistico e descrittivo della condizione sociale (con fonti Onu, Eurostat e Banca Mondiale), elaborato e reso noto da Caritas Europa. Tra gli Stati membri dell’Unione la percentuale più elevata della popolazione povera si registra in Italia (14,2%) e nel Regno Unito (13,4%). Belgio e Finlandia raggiungono il 5,2%. Ma i dati rilevati negli Stati non appartenenti all’Unione o all’epoca ancora candidati ad entrarvi totalizzano una percentuale preoccupante di poveri: nella Repubblica Ceca (12,3%), in Ungheria (10,1%), in Polonia (11,6%) e in Slovacchia (2,1%). Tra gli Stati non candidati, la Federazione russa registra il maggior numero di poveri (20,1%). Tra le cause di povertà non vanno sottovalutate le ripercussioni geopolitiche del crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Est, che ha provocato l’emergere di oltre 150 milioni di “nuovi poveri”.A ciò si deve aggiungere la disoccupazione di lungo periodo (oltre 6 mesi), una delle principali cause di povertà, a cui si devono sommare i lavoratori poveri (i cosidddetti “working poor”), fra i quali figurano anche medici, insegnanti e professionisti. In 14 paesi (Austria, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Andorra, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia, Armenia e Bielorussia) è particolarmente critica la condizione di povertà delle famiglie monoparentali, degli anziani e dei minori. Su questi ultimi, preoccupanti alcuni dati (preannunciati nell’imminente 2° Rapporto 2005) sui bambini che vivono in famiglie povere (con una media del 12,5% nei paesi membri dell’Ue): si passa dal 5% della Danimarca al 32% (4,5 milioni in valori assoluti) della Gran Bretagna: il doppio rispetto a Francia e Olanda, 5 volte in più rispetto a Svezia e Norvegia.
Poveri in giacca e cravatta e famiglie della “quarta settimana”. Ma in Italia, siamo realmente diventati quasi tutti più poveri? O ci sentiamo malauguratamente più disuguali e maledettamente insicuri? Le eventuali risposte a queste domande che interrogano la validità o meno della percezione diffusa di un peggioramento delle condizioni di vita, al di là delle possibili strumentalizzazioni “politiche” o di “ricerca” che le accompagnano, possono trovare conferma proprio nella lettura e nelle riflessioni che ne conseguono.
Sfuggente, onnipresente e indefinibile: il ceto medio in caduta libera? “Il triste declino del ceto medio”; “Ceto medio in picchiata, fine dei privilegi: ecco i nuovi “working poors”; “E la classe media andò all’inferno: impiegati impoveriti tra stipendi al palo e risparmi ai minimi”; “Lavoro: homeless in cravatta, i nuovi poveri in Usa; “Ora la crisi falcidia anche gli stipendi alti”; “Italia: stipendi più leggeri, crolla il potere d’acquisto”; “Famiglie costrette a far debiti per le spese correnti”; “I poveri che la città non vede”;”Come è normale la nuova povertà”; “È l’Italia che non ce la fa più: anche persone “normali” in fila per i pacchi Caritas”; “La minima non basta, due volte al mese vado alla Caritas”; “Noi, una coppia normale ridotta alla disperazione”. Questi titoli, apparsi e resi noti dai mass media sull’onda delle ricorrenti diatribe politico-sociali ed economico-finanziarie, alimentate da un istruttivo e salutare “conflitto di fonti e interpretazioni” sui dati e sulle statistiche fornite da sedi ufficiali, da “allineati” o “indipendenti” Istituti di ricerca, dimostrano come il 2004 si sia aperto, almeno per l’Italia, con una inusuale, accesa e rinnovata attenzione per le questioni e le problematiche sulle povertà, sulle disuguaglianze sociali, sulla questione salariale, sul calo dei consumi, sulla crisi dello sviluppo e della produzione, sull’impoverimento o sull’arretramento degli standard di vita delle famiglie italiane; in particolare quelle definite “della quarta settimana” e che non riescono, con le risorse disponibili, ad arrivare alla fine del mese.Si allargano cioè le aree sociali di implosivo ed esplosivo disagio che fanno emergere, nella maggioranza dei cosiddetti “normali”, zone di inedita vulnerabilità, accompagnate da lacerazioni e fratture dei percorsi di vita, personali e collettivi, contrassegnati da tassi di incertezza e insicurezza senza precedenti. Senza infognarsi, impropriamente e strumentalmente, in preconcetti ideologico-culturali o pseudopolitici sulla contrastata interpretazione se si tratti o meno di povertà vera e propria, di progressivo impoverimento reale o percepito, di politiche sociali assenti o più o meno frammentarie, la crisi sembra aver preso di petto e investito prepotentemente il cosiddetto “ceto medio” (Sylos Labini lo definiva “classe ubiquitaria”, sfuggente, onnipresente e indefinibile), la fascia intermedia della piramide sociale, la “spina dorsale del Paese”, compressa tra un terzo di supergarantiti, stabilmente al vertice, e un altro terzo di poveri cronici e “residuali”, costretti ad arrabattarsi per agguantare almeno la sopravvivenza.E dire che, fino ad un recente passato, proprio questa “classe media” era quella ritenuta immune da qualsiasi scivolamento verso il basso della piramide sociale; una “classe” recintata tra le élite e gli strati superiori dei supergarantiti della piramide, sempre più blindati e irraggiungibili, decisamente “andati in fuga” alla velocità del suono; e gli strati collocati a piè di pagina che stanno lì, da sempre, speranzosi e proiettati a salire al piano superiore, ma ora attoniti e preoccupati (anche loro!), che questo ceto medio, ferito, incerto e insicuro, possa o sia destinato a precipitare dentro il seminterrato della piramide.
Far finta di essere “normali”. La povertà, come si è detto, ha molte facce e spesso l’indigenza si nasconde anche in pieghe sociali meno appariscenti ed emarginate di quelle tradizionali, rapidamente individuabili, per esempio, nei senza fissa dimora, nei disagiati psichici, negli accattoni.
Dai dati elaborati dalla Caritas italiana – attiva in 223 diocesi, con Osservatori regionali sulle povertà e Centri d’ascolto disseminati nelle migliaia di parrocchie a cui si rivolgono ogni anno circa 300mila persone – oltre all’individuazione di una progressiva e aspra presenza di sacche di povertà assolute, estreme, immateriali, oscillanti e via dicendo, emerge la percezione che sono sempre più numerose le persone e le famiglie che all’improvviso si sono trovate in situazioni perlomeno “sconcertanti”, anche se non necessariamente precarie o di estrema indigenza. Questi ed altri soggetti “normali” appartenenti ad un ceto medio che arranca, anche se difficilmente identificabili (per discrezione, pudore, vergogna, dignità sociale), sono per lo più il simbolo di persone e nuclei che avevano un reddito e un lavoro, magari precario, che l’hanno perso e si ritrovano impoverite; famiglie che non riescono più a far quadrare i conti, a pagare le bollette per il mutuo, l’affitto, la luce, il gas e il riscaldamento, le spese di condominio, la retta scolastica per i figli, la spesa al supermercato o al discount; persone alle quali basta un problema di salute o un lutto in famiglia per precipitare davvero nella povertà.
Invisibili e difficilmente identificabili. Non importa se statunitensi, europei o italiani, abitanti a New York, a Londra, Parigi, Lisbona, Atene o Roma: li si può osservare in giacca e cravatta, puliti, sbarbati, con le scarpe lucide e talvolta con la valigetta in mano se trattasi di uomini e padri di famiglia; con il cappotto elegante, la gonna alla moda, il foulard e la borsetta “firmate” e un leggero trucco sugli occhi se si tratta di donne e madri. Solitamente, per vergogna, pudore o altro, sono persone che non fanno la fila a fianco dei barboni o degli immigrati che si affollano davanti alle mense, ai dormitori, alle parrocchie, alle case degli istituti religiosi maschili e femminili… Ma si avvertono, ci sono e sono tanti, anche se difficilmente quantificabili statisticamente. Chiedono con discrezione, non vogliono essere “identificati”, si sentono umiliati. Sono lavoratori o impiegate improvvisamente ex, che hanno dovuto vendere la macchina di media cilindrata, che non hanno più soldi per pagare affitto o mutuo, con carte di credito mute, piccoli conti in banca bruciati, talvolta angariati dagli usurai ai quali sono stati costretti a ricorrere. Presi a frustate dall’invadente e subdola pubblicità che sollecita a comprare e consumare, tanto «si può cominciare a pagare nel 2006 o nel 2007»: «ma a pagare con con quali soldi?», commentava ironicamente una distinta signora di mezza età in un quartiere popolare della Capitale, dopo aver letto uno di questi spot pubblicitari.
Sono persone “normali”, ma che fanno emergere un denominatore, comune e martellante, dalle molte facce: malessere diffuso e ansia per il futuro (proprio e della famiglia); incertezza e insicurezza, disuguaglianze ignorate o trascurate dalle politiche sociali, sottovalutate, differite e… pericolose.
Aspetti che emergono con prepotenza solo oggi, ma che, in qualche modo, erano stati già avvertiti e percepiti anche in un recente passato. E che forse avrebbero meritato e meriterebbero più attenzione, in ambito socio-politico ed economico e nelle fessure ancora indipendenti e attente della ricerca culturale e sociologica.