Il quadro del problema. Le dinamiche demografiche disegnano un nuovo scenario. La forbice tra la percentuale di popolazione ultracinquantacinquenne in attività sulla popolazione attiva totale e la percentuale degli anziani (oltre 65 anni) sulla popolazione in età attiva diviene, con il tempo, sempre più ampia. Se nel 2002 – secondo le stime della Commissione Europea – si contano 17 lavoratori ultra55enni e 25 anziani ogni 100 persone in età attiva, nel 2010, a fronte del progressivo invecchiamento della popolazione, non aumenterà la forbice, ma si eleveranno entrambe le percentuali, passando, rispettivamente, a un 19% e un 27%. Dal 2015 la differenza tra le percentuali comincerà ad aumentare e raggiungerà i 10 punti; dal 2035 la forbice assumerà un’ampiezza ben più elevata, che modificherà profondamente lo scenario demografico dell’Unione.
Interessante è anche constatare come la curva dell’attività di uomini e donne abbia subito profonde trasformazioni nel corso degli ultimi decenni: la parabola relativa ai maschi del 1970 era significativamente più ampia di quanto non si registri nel 2000, con un ingresso nel mercato del lavoro più anticipato e un’uscita più ritardata. Gli uomini del 1970 già a 15-16 anni erano inseriti nel mondo del lavoro e vi rimanevano saldamente fino ai 60 anni e oltre; nel caso del 2000 non solo, è posticipato l’ingresso, ma si nota una brusca caduta dell’occupazione già intorno ai 55 anni. Ovviamente diverso appare il discorso relativo alle donne, che nel 2000 conoscono tassi di occupabilità molto più elevati (eccetto, anche in questo caso, per le età più giovani); anche per loro si osserva tuttavia una brusca caduta intorno ai 55 anni e – nell’età intorno ai 60 – i valori del 1970 e del 2000 tendono ad eguagliarsi. Tra le ragioni per cui si è smesso di lavorare prevale – a livello europeo – il prepensionamento (il 29,4% dei casi), seguito dal pensionamento (27,8%) e, a notevole distanza, da ragioni di malattia e/o sopraggiunta disabilità (15,3% del totale) o episodi di licenziamento (poco meno del 12%).
Consapevole della gravità della questione, la Commissione Europea ha intrapreso diverse misure al fine di trattenere in attività gli anziani e diminuire le incontestabili discriminazioni che frequentemente ricevono. L’obiettivo indicato nel Consiglio d’Europa di Stoccolma di raggiungere un’occupazione degli ultra55enni pari al 50% nel 2010 sembra ancora lontano, soprattutto per alcuni paesi dell’Unione. Sono state a tal riguardo individuate tre misure-chiave: l’individuazione di incentivi finalizzati a scoraggiare l’abbandono prematuro del posto di lavoro; la promozione di interventi di formazione continua; la diffusione di una qualità e accessibilità del lavoro anche per gli anziani, anche attraverso misure di part-time o altre strategie.
Il caso italiano. Un trend di recupero. L’osservazione dei dati di contesto non deve tuttavia far ritenere che la situazione lavorativa degli ultracinquantenni sia omogenea a livello dell’Unione. Al contrario, i tassi di occupazione di tale fascia della popolazione presentano forti disuguaglianze tra i vari paesi dell’area. A tal riguardo, nel caso italiano il fenomeno assume proporzioni allarmanti. Il nostro Paese si configura come una delle nazioni che maggiormente tendono ad espellere i meno giovani dai circuiti professionali, senza garantire idonee opportunità di reingresso. I dati che emergono dall’analisi sono del tutto illuminanti. In Italia, ogni cento persone con un’età compresa tra i 55 e i 64 anni, ne lavorano soltanto 31, contro 41 della Francia, 43 della Germania, 57 del Regno Unito e, prima tra le nazioni europee, le oltre 70 persone della Svezia. Nonostante sin dagli anni Sessanta si sia osservato un vistoso declino occupazionale degli anziani, i dati evidenziano come per alcuni ambiti professionali il loro peso si mantiene significativo. Secondo una recente indagine, la presenza di lavoratori tra i 60 e i 74 anni resta infatti, rilevante, oltre che nella Pubblica Amministrazione (25,2%), in agricoltura (14,6%) e nel commercio (21%). Tra gli anziani prevalgono i lavoratori autonomi (61,3%) contro i dipendenti (38,7%). Il tasso di occupazione appare connesso inoltre al livello di istruzione: tra i sessantenni una persona su due in possesso della laurea è ancora occupata, contro una su tre diplomata e una su sei con la licenza della scuola dell’obbligo. A partire dagli anni Ottanta, poi, si registra una crescita netta delle retribuzioni degli anziani rispetto alle altre fasce d’età, generalmente riconducibile alla maggiore opportunità di premiare l’esperienza acquisita. Nonostante il forte ritardo tuttora registrato rispetto alle medie europee, nell’ultimo periodo si osserva – per il caso italiano – una significativa inversione di tendenza. A partire dal 1999, infatti, si registra una contrazione dei flussi di uscita dal mercato del lavoro della popolazione in età matura. Così, tra il 2002 e il 2003, pur non osservando un significativo aumento della popolazione complessiva in età 55-64, si registra un notevole +9,8 tra le forze di lavoro, contro il +4,6 relativo alla fascia 35-54. Similmente, aumentano gli occupati nella fascia di età più elevata (essi raggiungono quasi un +11%, una quota più che doppia rispetto alla fascia 35-54) e, tra i 55-64enni, diminuiscono sensibilmente, nel medesimo periodo, i disoccupati (-14,1%). I dati mostrano inoltre sopratutto come l’aumento dell’occupazione nella fascia di età 55-64 riguardi in modo sensibilmente superiore le donne; in tal caso, i valori percentuali registrati per gli uomini vengono quadruplicati: sono proprio le donne che, a un’età matura – probabilmente liberate da pressanti responsabilità familiari –, tendono a riaffacciarsi al mercato del lavoro trovando, in molti casi, strumenti idonei a un proficuo inserimento. Anche l’andamento trimestrale degli occupati della medesima fascia di età conferma quanto osservato circa le differenze tra i sessi: ponendo a 100 il dato relativo all’ottobre 2000, si può constatare come il trend relativo alle donne conosca un andamento di crescita più vistoso di quanto non accada per gli uomini; il fenomeno che i media hanno recentemente denominato come “carica dei cinquantenni” sembra, in termini proporzionali (gli uomini lavoratori sono comunque più numerosi, in termini assoluti), porsi dunque come alimentato soprattutto dalle sessantenni. Certamente, tale fenomeno è spiegabile anche nei termini di una emersione dal sommerso che, grazie ad alcuni provvedimenti di legge come il credito d’imposta per le assunzioni a tempo indeterminato (l’iniziativa è stata avviata dalla legge n.449 del 1997, poi modificata dalla legge n.448/99 e poi ulteriormente ripresa dalla legge n.338/2000), contribuisce ad alimentare la quota dei lavoratori maturi che rientrano tra gli occupati. È comunque indubbio che il trend tracciato sia favorito da alcuni provvedimenti; in tale direzione si muovono le iniziative volte a rafforzare l’istituto del part-time, che pare coinvolgere gli over 50 più di altre fasce di età e dunque sembra favorirne il reingresso nel mercato del lavoro. Soltanto tra i 30-39enni si osserva un utilizzo più elevato del part-time tra gli occupati: si calcola per questi lavoratori una percentuale pari al 67,8% contro il 64% degli ultracinquantenni. Del resto, la relazione tra diffusione del part-time e facilità di reinserimento nel mercato del lavoro di donne e anziani, sebbene non direttamente legata da un meccanismo causa-effetto, è testimoniata da molteplici esperienze. Un confronto con gli altri paesi dell’Unione mostra a tal riguardo come l’Italia conosca una diffusione ancora limitata di tale istituto: oltre due punti percentuali in meno rispetto alla media europea per gli uomini e oltre sei punti per quanto concerne le donne.
Un quadro comunque allarmante. Quanto finora delineato circa il recente trend di ritorno dei cinquanta-sessantenni sullo scenario lavorativo non deve tuttavia sottostimare le già citate difficoltà del sistema-paese nel mantenere l’occupazione ai più maturi e nel consentire loro di rientrare nel mercato del lavoro dopo una precedente uscita. Un elemento che influenza la recente maggiore permanenza degli ultracinquantenni nel mercato del lavoro è rappresentato dalla riforma Dini del sistema pensionistico che – innalzando i requisiti di età e di contribuzione per l’accesso alle pensioni e allentando il divieto di cumulo tra pensione e altri redditi – contribuisce a trattenere i lavoratori sul posto di lavoro. Tale dinamica tende a controbilanciare, e se vogliamo anche a celare, una esattamente opposta, connessa alla crisi dei grandi gruppi industriali, la quale configura invece un ampio ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni (CIG) e a varie forme di uscita prematura del personale più anziano.
Così, le ore complessive di Cig ordinaria e straordinaria sono sensibilmente aumentate negli ultimi due anni, crescendo del 162% dal 2001 al 2003. L’aumento – particolarmente sensibile per la Cig straordinaria, cresciuta dell’82% dal 2001 – è accelerato dall’estendersi delle aree di crisi in ambiti prima non coinvolti. Si possono ricordare, tra gli altri, i nuovi casi di Ferrania, Rolam, acciaierie di Terni (ThyssenKrupp), Genova e Taranto (Ilva Laminati Piani/ gruppo Riva), Finmek, Alcatel, Montefibre, Alitalia, Cesame, Sanremo, Fiat Avio, Calabrese Metalmeccanica, Celestica, i Nuovi Cantieri Apuani di Massa Carrara, il settore tessile della Calabria, il polo chimico e la cantieristica.
Le difficoltà nell’occupabilità degli ultracinquantenni permangono – al di là dei recenti trend – del tutto elevate, e tali sono anche nelle percezioni dei cittadini. Una recente indagine condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana mostra come una cospicua percentuale di italiani ritenga che il mondo produttivo tenda a liberarsi, quando possibile, degli ultraquarantacinquenni. Ciò configura un “alto” allarme sociale per il 46% del campione, e un allarme “basso” soltanto per un intervistato su sei.
Gli intervistati evidenziano, infine da un lato, la tendenza delle aziende a licenziare i lavoratori meno giovani, dall’altro la difficoltà per coloro che si trovano in tale condizione a trovare non solo un’occupazione equivalente, ma, tout-court, un nuovo lavoro. Tutto questo contribuisce, per due intervistati su tre, a connotare la nostra come una società “che rende sempre più incerta e precaria la vita dei lavoratori”.

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