L’Eurispes ha realizzato un’indagine su un campione rappresentativo di 446 lavoratori atipici di età compresa tra i 18 e i 39 anni. La scelta di circoscrivere la rilevazione ad un segmento specifico dei lavoratori “flessibili” è stata dettata dall’intento di verificare l’impatto delle diverse modalità di lavoro atipico sulla capacità progettuale di quanti – collaboratori occasionali, a progetto, coordinati e continuativi, interinali o subordinati part-time – si trovano nella fase di maturità anagrafica durante la quale generalmente si compiono scelte di vita importanti, a volte difficilmente procrastinabili (ad es., fare un figlio, sposarsi, andare a vivere per conto proprio). La rilevazione ha inteso, altresì, verificare i percorsi lavorativi e le concrete condizioni lavorative dei lavoratori atipici, il livello di soddisfazione o insoddisfazione rispetto a determinati aspetti del proprio rapporto di lavoro, nonché l’impatto della flessibilità sullo stato di benessere psico-fisico dei lavoratori. La stragrande maggioranza del campione (l’89,7%) è celibe o nubile; appena il 6,5% è sposato, l’1,3% convive ed il 2,5% è divorziato o separato. Estremamente contenuta, tra i lavoratori atipici intervistati, la genitorialità: appena il 6,5% ha uno (3,4%) o più figli (3,1%).
I percorsi lavorativi e le condizioni lavorative. In relazione alla tipologia di contratto, il 27,9% degli intervistati lavora “a progetto”, il 22,9% ha un contratto occasionale ed il 20,9% è un collaboratore coordinato e continuativo. Risulta abbastanza importante, tra gli intervistati, anche la quota di quanti hanno un contratto di tipo subordinato a tempo parziale (13,2%), mentre l’8,5% lavora tramite agenzie interinali ed il 5,4% tramite contratto d’inserimento. Oltre i 3/5 degli intervistati (il 61,7% degli uomini e il 62,8% delle donne) affermano di aver sempre lavorato con contratti atipici. Il lavoro flessibile non rappresenta, dunque, per la maggior parte di loro, un’opportunità di primo inserimento lavorativo. Colpisce, in particolar modo, come abbiano sempre lavorato con contratti atipici non solo la maggior parte (il 57,3%) dei lavoratori più giovani (tra i 18 e i 25 anni), ma anche e soprattutto gli intervistati che hanno ormai raggiunto la piena maturità anagrafica: il 66,9% di quanti hanno un’età compresa tra i 26 e i 32 anni ed il 67,8% di quanti hanno tra i 33 e i 39 anni, per i quali l’atipicità ha assunto un carattere permanente. I dati relativi al titolo di studio mostrano, inoltre, come lo status di lavoratore atipico abbia sempre caratterizzato anche la maggior parte del segmento più qualificato dell’offerta di lavoro: il 55,9% degli intervistati in possesso di master o specializzazione post-laurea e l’83,2% dei laureati. Eppure la maggior parte degli intervistati ha già raggiunto una certa maturità professionale. Si tratta, infatti, di persone per la maggior parte dei casi pienamente inserite nel mercato del lavoro. Solo il 31,1% del campione lavora da un periodo relativamente breve: dai 6 mesi a un anno (16,1%) o da non oltre i 2 anni (15%). Il 38,6% vanta un’esperienza lavorativa pluriennale, tra i 2 e i 3 anni (20%) o tra i 4 e i 5 anni (18,6%), mentre il restante 30,3% lavora da un periodo di tempo ancora più lungo: 5-10 anni (22%) o anche più (8,3%).
In relazione al tipo di contratto, vantano un’esperienza di un anno o più con l’attuale datore di lavoro sia il 47,4% degli interinali ed il 61% dei lavoratori impiegati tramite un contratto subordinato part-time (i quali godono comunque dei diritti e delle tutele spettanti ad un lavoratore subordinato), che la stragrande maggioranza dei lavoratori impiegati con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa (61,3%), a progetto (58,5%) o occasionale (52,9%). La percentuale di quanti svolgono l’attuale lavoro da tre anni o più, pari al 12,7% tra i lavoratori occasionali, raggiunge il 26% tra i lavoratori a progetto ed il 26,9% tra i collaboratori coordinati e continuativi. Sembra plausibile parlare, in relazione a questi lavoratori, di uso distorto e strumentale delle modalità di lavoro atipiche da parte dei datori di lavoro, che hanno utilizzato (ed utilizzano) il rinnovo continuo dei contratti a termine per fornire continuità al rapporto di lavoro instauratosi con una risorsa abbondantemente collaudata senza dover pagare i costi aggiuntivi della stabilizzazione.
Quanto sopra affermato trova conferma nei dati relativi alle condizioni di lavoro degli intervistati che lavorano con contratti di collaborazione (occasionale, a progetto o coordinata e continuativa), i quali confermano chiaramente come la maggior parte di essi abbia nei fatti instaurato con il proprio datore di lavoro un rapporto di tipo subordinato: i 2/3 (il 66,7%) lavorano per un unico datore di lavoro; al 55,3% è richiesta una presenza quotidiana sul luogo di lavoro ed il 54,7% svolge, in termini di impegno richiesto, un lavoro a tempo pieno. La subordinazione caratterizza soprattutto le condizioni di lavoro dei collaboratori coordinati e continuativi e dei lavoratori a progetto, mentre riguarda una parte minoritaria dei lavoratori occasionali. In particolare, è possibile osservare come tra i co.co.co. ben il 78,5% lavori per un unico datore di lavoro, il 73,1% svolga un lavoro a tempo pieno e come al 71% sia richiesta una presenza quotidiana (appena il 12,9% gestisce in modo del tutto autonomo i modi e i tempi del proprio lavoro). Tra i lavoratori a progetto, la percentuale di quanti hanno di fatto instaurato con il proprio datore di lavoro un rapporto di natura subordinata è inferiore, ma comunque estremamente maggioritaria: il 67,5%, infatti, lavora per un solo committente, il 60,2% svolge un lavoro che lo impegna a tempo pieno ed il 65% si reca a lavoro tutti i giorni. È leggermente più elevata, tra i lavoratori a progetto, la percentuale di quanti gestiscono in totale autonomia il proprio lavoro, pari al 15,5% del complesso. Diverse le condizioni di lavoro degli occasionali: sebbene, infatti, la maggior parte di essi (il 54,9%) lavori per un unico datore di lavoro, al 68,6% è richiesto, in termini effettivi di impegno, un part-time, mentre la percentuale di quanti gestiscono in maniera del tutto autonoma i tempi del proprio lavoro sale al 41,2%, per quanto una parte considerevole di essi (il 29,4%) sia al contrario tenuta a recarsi in sede tutti i giorni. Il 71,5% dei lavoratori atipici intervistati percepisce lo stipendio mensilmente, mentre il 10,8% viene pagato ogni 2/3 mesi, lo 0,7% ogni 4/5 mesi ed il 5,2% alla consegna del lavoro. L’11,2% del campione, invece, viene pagato senza una cadenza periodica regolare. A confrontarsi con l’irregolarità dei pagamenti è, in particolare, la componente femminile (12,2%, contro il 9,8% degli uomini) e giovanile (15,5% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni, contro il 3,4% dei 33-39enni) del lavoro atipico. In relazione al titolo di studio e al settore d’impiego, sono pagati senza una cadenza periodica regolare soprattutto quanti sono in possesso di un elevato titolo di studio (in particolare, il 14,1% dei laureati ed il 20,6% di coloro che sono in possesso di un master o di una specializzazione post-laurea) e quanti lavorano nel settore del commercio e della ristorazione (18,4%) o nell’ambito dei servizi alle imprese e alle persone (17,8%). La totalità dei lavoratori interinali e di quanti sono impiegati con un contratto d’inserimento percepisce lo stipendio mensilmente, così come l’89,8% dei lavoratori part-time. Va evidenziato, tuttavia, come venga pagato con cadenza mensile anche il 92,5% dei collaboratori coordinati e continuativi, il 59,4% dei lavoratori a progetto ed il 37,3% degli occasionali. È presumibile ipotizzare che si tratti di risorse interne all’azienda, che vengono pagate regolarmente in virtù di un effettiva condizione di subordinazione socio-economica nei confronti dell’impresa, come del resto dimostrano i dati relativi alle condizioni di lavoro dei collaboratori. Sul fronte opposto, la percentuale di collaboratori che riceve il compenso pattuito senza una cadenza periodica regolare, pari al 7,5% tra i co.co.co. sale al 12,2% tra i lavoratori a progetto ed al 24,5% tra gli occasionali. Va evidenziato, ancora, come il 20,7% dei coniugati ed il 20% dei lavoratori con un figlio percepiscano lo stipendio senza una cadenza periodica regolare.
L’irregolarità dei pagamenti, che ostacola la capacità progettuale di quanti la subiscono e li espone al rischio concreto di cadere in uno stato di precarietà economica difficilmente gestibile, assume probabilmente nei confronti di questi lavoratori connotazioni più gravi. Oltre i 3/4 dei lavoratori atipici (il 76,5%) percepiscono una retribuzione mensile che non supera i 1.000 euro netti. Il dato acquista particolare rilevanza considerando che la maggior parte di essi lavora per un unico datore di lavoro, che rappresenta l’unica fonte di reddito. La distribuzione dei dati per sesso consente di evidenziare come sia la componente femminile ad essere maggiormente penalizzata: ben l’82,9% delle lavoratrici atipiche, infatti, non supera tale livello retributivo, contro il 67,9% degli uomini. Nello specifico, è possibile osservare come il 30% delle donne percepisca non oltre i 400 euro netti mensili (contro il 20,2% della componente maschile), e come i 3/5 delle lavoratrici atipiche non superi gli 800 euro (a fronte di un dato maschile del 48,2%). La retribuzione si attesta sui 1.000-1.400 euro per il 17,1% degli uomini ed il 15% delle donne. Da evidenziare, in particolare, come appena l’1,2% delle lavoratrici atipiche percepisca un compenso più elevato e come nessuna abbia una retribuzione superiore ai 2.000 euro netti mensili. Al contrario, tra gli uomini, ben il 17,5% percepisce oltre 1.400 euro mensili: tra questi, il 5,7% ha una retribuzione compresa tra i 2.000 e i 3.000 euro (2,6%) o superiore (3,1%). In relazione alla tipologia di contratto, gli atipici che si attestano su un compenso mensile netto inferiore ai 400 euro sono numerosi non solo tra i lavoratori part-time (23,7%), ma anche tra i co.co.co. (28%) e i collaboratori occasionali (46,1%). La percentuale di lavoratori atipici che non superano la soglia dei 1.000 euro netti mensili, pari al 42,1% tra gli interinali, è nettamente maggioritaria sia tra i lavoratori part-time (79,6%), che tra quanti hanno un contratto d’inserimento (75%), a progetto (70,7%), di collaborazione coordinata e continuativa (76,3%) o occasionale, tra i quali tale percentuale raggiunge addirittura il 93,1%.
La maggior parte dei lavoratori interinali (il 57,1%) percepisce un compenso mensile compreso tra i 1.000 e i 1.400 euro netti, così come, il 25% di quanti hanno un contratto d’inserimento ed il 5,1% dei lavoratori part-time. Tra i collaboratori si attesta su questo livello retributivo poco più del 15% dei co.co.co. e dei lavoratori a progetto ed il 6,9% degli occasionali. Quasi nessuno, tra gli intervistati, percepisce oltre i 2.000 euro, eccetto il 4,1% dei lavoratori a progetto, che si attestano tra i 2.000 e i 3.000 euro, ed il 10,2% dei lavoratori part-time, che superano i 3mila euro netti mensili. Lo scorporo dei dati per anni di esperienza lavorativa consente di evidenziare come la retribuzione mensile non superi i 400 euro per il 47,2% di quanti si sono inseriti nel mercato del lavoro da un periodo compreso tra i 6 e i 12 mesi, ma anche per il 35,1% di coloro che vantano un’esperienza ultradecennale. Tra questi ultimi la maggior parte (il 40,6%) riceve un compenso compreso tra gli 800 e i 1.000 euro, ma nessuno supera la soglia dei 1.400 euro. La maggior parte degli intervistati che hanno 1-2 anni di esperienza lavorativa percepisce una retribuzione mensile inferiore ai 400 euro netti (25,4%) o compresa tra gli 800 e i 1.000 euro netti (23,9%), mentre tra quanti lavorano da 2-3 anni la maggior parte (il 58,4%) ha una retribuzione compresa tra gli 800 e i 1.400 euro netti. È possibile osservare, infine, come tra coloro che hanno un’esperienza lavorativa di 3-5 anni è maggioritaria (31,3%) la quota di quanti percepiscono un compenso mensile compreso tra i 600 e gli 800 euro netti, mentre tra gli intervistati che lavorano da 5-10 anni la percentuale più elevata (25,5%) è quella di quanti hanno una retribuzione mensile compresa tra gli 800 e i 1.000 euro netti.
L’insoddisfazione verso il livello retributivo e verso alcuni aspetti del lavoro atipico. Si è avuto modo di osservare come i livelli retributivi dei lavoratori atipici siano, mediamente, estremamente modesti. Non stupisce, pertanto, che circa i 2/3 degli intervistati (il 65,9%) affermino di essere poco (30,5%) o per niente soddisfatti (35,4%) del proprio compenso economico e che appena il 4,7% si dica, al contrario, molto soddisfatto. Sono soprattutto le donne a lamentare una retribuzione insoddisfacente: ben il 72,5% di esse si ritiene, infatti, poco (36,8%) o per niente (36%) soddisfatta, contro il 57% degli uomini. La distribuzione delle risposte per tipologia contrattuale evidenzia come, eccetto gli interinali, prevalentemente abbastanza soddisfatti (65,8%) del proprio livello retributivo, e dei lavoratori part-time, abbastanza (39%) o molto (15,2%) soddisfatti nel 54,2% dei casi, tra gli altri lavoratori atipici l’insoddisfazione rispetto al proprio compenso sia maggioritaria e, in alcuni casi, molto acuta. In particolare, è possibile osservare come tra i collaboratori coordinati e continuativi ben il 51,6% si ritenga per niente soddisfatto del proprio livello retributivo e come il 30,1% si dichiari poco soddisfatto, contro il 18,3% che si dichiara, al contrario, abbastanza (15,1%) o molto (3,2%) soddisfatto. Del tutto insoddisfatti anche il 39,2% degli occasionali, il 35,8% dei lavoratori a progetto, il 33,9% dei lavoratori part-time ed il 25% di quanti hanno un contratto d’inserimento. Nel complesso, la percentuale di quanti si ritengono poco o per niente soddisfatti supera l’80% sia tra quanti lavorano tramite contratto d’inserimento (87,5%) che tra i co.co.co (81,7%), ed è molto elevata anche tra i collaboratori occasionali (73,5%) e tra i lavoratori a progetto (63,4%). L’insoddisfazione verso il proprio livello retributivo sembra accentuarsi in presenza di figli. L’analisi delle risposte rispetto alla presenza o meno di figli rileva, infatti, come la totalità di quanti hanno più di un figlio siano per niente soddisfatti del proprio livello retributivo, percentuale che scende all’80% tra quanti hanno un solo figlio. Prevalentemente scontenti, tuttavia, anche gli intervistati che non hanno figli, i quali si ritengono poco (32,6%) o per niente (31,7%) soddisfatti nel 64,3% dei casi.
Una serie di domande, all’interno del questionario d’indagine, ha inteso esplorare il “vissuto” dei lavoratori atipici rispetto al proprio contratto. Quali aspetti del proprio rapporto di lavoro possono rimandare ad una flessibilità “buona”, in qualche modo vantaggiosa, in grado di agevolare personali esigenze di conciliazione, e quali, al contrario, rinviano ad una flessibilità subìta, vissuta come precarietà lavorativa ed esistenziale? È possibile osservare, nella tabella seguente, come la maggior parte del campione (il 54,7%) apprezzi del proprio tipo di contratto la possibilità di avere del tempo libero per sé. Diversamente, la percentuale di quanti riconoscono al proprio contratto di fornire la possibilità di dedicare più tempo alla famiglia è minoritaria, pari al 37,7%. Minoritaria anche la percentuale di quanti si ritengono soddisfatti rispetto alla possibilità di conciliare studio e lavoro (42,6%), o in relazione all’opportunità di avere rapporti di lavoro con più committenti (41,9%). Rispetto alla possibilità di avere del tempo libero per sé, il 58,5% delle donne ed il 49,7% degli uomini si ritengono soddisfatti, mentre esprimono insoddisfazione il 41,5% della componente femminile del campione, ed il 50,3% degli uomini. In relazione al contratto, è possibile osservare come siano insoddisfatti rispetto a questo aspetto la maggioranza dei lavoratori interinali (60,5%), dei lavoratori a progetto (57,7%) e dei collaboratori coordinati e continuativi (50,5%), mentre si ritenga soddisfatto del tempo che il proprio contratto di lavoro lascia per interessi o esigenze personali la maggioranza dei collaboratori occasionali (72,5%), dei lavoratori part-time (72,9%) e degli intervistati con contratto d’inserimento (58,3%). Maggiore insoddisfazione si registra rispetto alla possibilità di conciliare famiglia e lavoro (si dichiarano insoddisfatti il 63,7% degli uomini ed il 60,1% delle donne). Affermano, infatti, di essere insoddisfatti del proprio contratto in relazione a questo aspetto oltre i 4/5 dei co.co.co, il 76,3% degli interinali, il 75% di quanti lavorano con un contratto d’inserimento ed il 70,7% dei lavoratori a progetto, mentre, anche in questo caso, prevalgono i sentimenti di soddisfazione sia tra i collaboratori occasionali (60,8%) che tra i lavoratori part-time (67,8%). Il proprio contratto permette di conciliare studio e lavoro per una quota minoritaria di donne (39,1%) e di uomini (47,1%). In relazione alla classe d’età, si dichiarano soddisfatti rispetto a questo aspetto la grande maggioranza degli intervistati più giovani (81,6% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni), contro il 36,4% di quanti hanno un’età compresa tra i 26 e i 32 anni ed il 20,7% degli intervistati più maturi (33-39enni). La distribuzione delle risposte in base alla tipologia di contratto consente di evidenziare come la percentuale più elevata di insoddisfatti riguardo la possibilità di conciliare studio e lavoro si registri tra quanti hanno un contratto d’inserimento (87,5%), seguiti dai co.co.co. (76,3%), dai lavoratori interinali (73,7%) e dai collaboratori a progetto (60,2%). Diversamente, si ritengono prevalentemente soddisfatti anche rispetto a questo aspetto sia i lavoratori part-time (55,9%) che i collaboratori occasionali (71,6%). Anche rispetto all’opportunità di lavorare per più aziende prevalgono i sentimenti di insoddisfazione, sia nella componente maschile (53,4%) che femminile (57,7%) del campione. In relazione alla classe d’età, esprime soddisfazione rispetto a questo aspetto la maggioranza degli intervistati più giovani (66%), contro appena il 39,7% di quanti hanno un’età compresa tra i 26 e i 32 anni ed il 27,6% degli intervistati più maturi (33-39 anni). Diversi gli aspetti del proprio contratto verso cui gli intervistati manifestano insoddisfazione. In primo luogo, l’incertezza del posto di lavoro. L’instabilità del rapporto di lavoro, lungi dal rappresentare un’opportunità di arricchimento professionale, è vissuta in modo negativo da quasi i 4/5 del campione (79,6%).
Va evidenziato, ancora, come una minoranza significativa del campione, il 34,3%, lamenti anche l’irregolarità dei pagamenti, nonché, nella maggioranza dei casi, la mancanza di adeguate tutele sociali (malattia, maternità, sicurezza sul lavoro) e sindacali (inerenti, ad esempio, il diritto di sciopero). In particolare, ben il 68,7% del campione afferma di essere insoddisfatto del proprio tipo di contratto sul piano delle tutele sociali ed il 61,7% si dice insoddisfatto delle tutele sindacali. I lavoratori atipici, dunque, si vedono prevalentemente così: precari e poco protetti. Non stupisce, pertanto, che circa i 2/3 degli intervistati lamenti la difficoltà di fare progetti o effettuare determinate scelte. Per il 66,1% del campione, infatti, la flessibilità non genera un maggiore controllo sulla propria vita; piuttosto, ostacola la capacità progettuale, minando alla base la possibilità di operare qualsiasi pensiero sul futuro. Come ha osservato Sennet (1999), «com’è possibile perseguire obiettivi a lungo termine in un’economia che ruota attorno al breve periodo?» e, ancora, «Come può un essere umano sviluppare un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita in una società composta di episodi e frammenti?». È soprattutto la componente femminile del campione a “denunciare” come il fatto di essere un lavoratore atipico ostacoli la capacità progettuale e la possibilità di fare determinate scelte di vita: ben il 76,3% delle donne, ma anche il 52,8% degli uomini, esprime insoddisfazione rispetto a questo aspetto del proprio contratto. In relazione alla classe d’età, le conseguenze della precarietà lavorativa sulla progettualità esistenziale pesano soprattutto agli intervistati che hanno sempre lavorato con contratto atipico (al 70% di essi, contro il 33,9% di quanti hanno al contrario lavorato anche con altri tipi di contratto) e ai meno giovani, che avvertono in maniera più forte ed evidente lo scollamento tra la raggiunta maturità anagrafica e la difficoltà di compiere importanti scelte di vita. Non è attribuibile alla casualità, del resto, il fatto che l’89,7% del campione sia celibe e che il 93,5% non abbia figli. La percentuale di quanti lamentano la difficoltà di progettare ed operare scelte di vita, pari al 51,5% tra i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 25 anni, raggiunge il 74% tra gli intervistati di età compresa tra i 26 e i 32 anni ed il 74,7% tra quanti hanno tra i 33 e i 39 anni. In relazione al tipo di contratto, vive questa precarietà esistenziale la stragrande maggioranza degli intervistati impiegati tramite contratti d’inserimento (91,7%), dei lavoratori interinali (il 73,7%), dei collaboratori a progetto (72,3%) e degli occasionali (64,7%), nonché il 57,6% dei lavoratori part-time ed il 52,7% dei co.co.co. In relazione al quadro di tutele sociali previste nel proprio contratto, è il segmento femminile e la componente più matura del campione ad esprimere insoddisfazione. In particolare ben il 77,5% delle donne, contro il 57% degli uomini, dichiara di essere insoddisfatta delle tutele sociali previste.
Si sentono insufficientemente protetti in relazione a diritti fondamentali, quali la maternità, la malattia, la sicurezza sul lavoro, anche una parte maggioritaria degli intervistati più giovani (59,2%) e, soprattutto, la stragrande maggioranza dei 26-32enni (72,4%) e di quanti hanno un’età compresa tra i 33 e i 39 anni (82,7%). In relazione al tipo di contratto, esprime insoddisfazione rispetto alle tutele sociali la stragrande maggioranza (l’82,9%) dei lavoratori a progetto , i 3/4 degli intervistati con contratto d’inserimento ed il 72,5% dei collaboratori occasionali. Si lamentano dell’inadeguatezza delle tutele sociali previste anche una quota maggioritaria dei lavoratori interinali (68,4%) e dei collaboratori coordinati e continuativi (67,7%). Fanno eccezione i lavoratori part-time, i quali si dichiarano soddisfatti rispetto a questo specifico aspetto del proprio contratto nel 72,9% dei casi. Come osservato in relazione alle tutele di tipo sociale, anche rispetto alle tutele sindacali sono soprattutto le donne a denunciare (il 71,1%, contro il 49,2% degli uomini) un modesto ed inadeguato livello di protezione. Anche in questo caso la percentuale di insoddisfatti, pari al 58,3% tra gli intervistati più giovani, raggiunge valori più elevati in corrispondenza della classe 26-32 anni (64,4%) e 33-39 anni (70,1%). La mancanza di adeguate tutele di tipo sindacale è avvertita dalla maggioranza degli intervistati, indipendentemente dalla specifica tipologia contrattuale, ma è lamentata in particolar modo dai collaboratori a progetto (75,6%).
L’incertezza del posto di lavoro è l’aspetto su si concentra la maggiore insoddisfazione degli atipici, in relazione a quasi tutte le tipologie contrattuali analizzate. Sono soprattutto i lavoratori interinali ad esprimere insoddisfazione verso il proprio contratto su questo aspetto (il 92,1%!), seguiti dai collaboratori a progetto (90,2%), e da quanti hanno un contratto d’inserimento (87,5%, i quali tuttavia avevano lamentato soprattutto – 91,7% dei casi – la difficoltà di fare progetti ed operare importanti scelte di vita). L’incertezza del posto di lavoro è lamentata anche dalla stragrande maggioranza dei lavoratori part-time, dei collaboratori coordinati e continuativi (73,1%) e dei collaboratori occasionali (68,6%, insoddisfatti del proprio contratto soprattutto in materia di tutele sociali, aspetto verso cui ben il 72,3% di essi aveva espresso scontento). Assolutamente significativa la quota di intervistati che manifestano insoddisfazione rispetto all’irregolarità dei pagamenti: addirittura maggioritaria tra i collaboratori a progetto (50,4%) e occasionali (52%), è pari al 23,7% tra i collaboratori coordinati e continuativi, al 18,4% tra gli interinali e al 15,3% tra i lavoratori part-time. Fanno eccezione gli intervistati che lavorano tramite contratti d’inserimento, soddisfatti della regolarità dei pagamenti nella totalità dei casi. Sembra plausibile pensare che, mentre una parte degli intervistati che manifestano insoddisfazione per l’irregolarità dei pagamenti faccia riferimento al fatto di non essere pagata con cadenza mensile, una parte di essi si riferisca, diversamente, all’irregolarità economica dovuta all’alternarsi di periodi di lavoro con periodi di sottooccupazione o disoccupazione. È quanto suggeriscono, in particolare, i dati relativi ai co.co.co. e agli interinali. La quota percentuale di quanti esprimono insoddisfazione per l’irregolarità dei pagamenti è sensibilmente maggiore a quella di quanti hanno dichiarato (come precedentemente osservato) di percepire lo stipendio con una cadenza diversa dalla mensile (appena il 7,5% dei co.co.co e nessuno tra gli interinali).
Una sezione d’indagine è stata specificatamente dedicata all’impatto della flessibilità sulla capacità progettuale dei lavoratori e sulla possibilità di accedere a determinati servizi. L’analisi delle risposte rileva chiaramente che, ad avviso di una parte significativa del campione, il fatto di essere un lavoratore atipico ha rappresentato un fattore discriminante sotto diversi aspetti, ostacolando a volte scelte esistenziali. La flessibilità lavorativa pone una parte significativa di lavoratori atipici in una condizione di vulnerabilità sociale in relazione a diversi aspetti della propria vita. In particolare, il 71,3% degli intervistati afferma che il fatto di essere un lavoratore atipico ha influito molto (51,8%) o abbastanza (19,5%) sulla possibilità di comprare una casa ricorrendo a un mutuo. Per i 2/3 del campione, il contratto atipico ha influito molto (33,4%) o abbastanza (33,2%) sulla possibilità di accedere al credito e per il 58,8% ha condizionato negativamente perfino la possibilità di prendere in affitto un appartamento. Inoltre, il 34,1% del campione lamenta il fatto che l’atipicità della propria forma contrattuale ha influito molto (19,5%) o abbastanza (14,6%) sulla possibilità di iscriversi a un corso di formazione o aggiornamento. Un dato particolarmente critico se si pensa che il segmento atipico del lavoro è quello senza dubbio maggiormente esposto a richieste di eclettismo professionale, in virtù del carattere instabile del rapporti di lavoro, che impone una modifica continua della propria mappa di competenze, moltiplicando i fabbisogni formativi. La flessibilità è poi, per un parte significativa del campione, vulnerabilità economica e sociale, in grado di ostacolare scelte importanti di vita, come andare a vivere per conto proprio o sposarsi. In particolare, ben il 56,3% degli intervistati afferma che il fatto di essere un lavoratore atipico ha influito molto (26,5%) o abbastanza (29,8%) sulla possibilità di tagliare il cordone ombelicale con la famiglia d’origine, andando a vivere per conto proprio (a questo proposito continuare a parlare della generazione dei trentenni come tardo-adolescenti appare una comoda mistificazione), e il 31,2% ritiene che il fatto di lavorare con un contratto atipico abbia influito molto (12,1%) o abbastanza (19,1%) sulla possibilità di convolare a nozze. Il dato più preoccupante è tuttavia quello relativo al 30,2% di intervistati per i quali la vulnerabilità economica e la mancanza di tutele adeguate ha condizionato negativamente la scelta della maternità o della paternità. Circa 3 lavoratori atipici su 10, infatti, hanno affermato che l’essere un lavoratore atipico ha influito molto (16,1%) o abbastanza (14,1%) sulla possibilità di fare un figlio. Il fatto di essere un lavoratore atipico ha condizionato negativamente soprattutto la componente femminile del campione, in relazione a quasi tutti gli aspetti presi in considerazione, a partire dalla possibilità di iscriversi a un corso di formazione o aggiornamento (38,4%, contro il 28,5% degli uomini).
La maggioranza delle donne e degli uomini intervistati ritiene che la forma contrattuale del proprio rapporto di lavoro abbia influito molto o abbastanza sulla possibilità di comprare un appartamento ricorrendo a un mutuo, accedere al credito o prendere in affitto un appartamento. Maggioritaria tra le donne, anche la percentuale di quante affermano che l’essere lavoratrici atipiche ha influito molto (32%) o abbastanza (35,2%) sulla possibilità di andare a vivere per conto proprio, pari, complessivamente, al 67,2% (contro il 42% degli uomini). La precarietà lavorativa condiziona più le scelte di maternità che quelle di paternità. La percentuale di donne che ritengono che l’atipicità del proprio rapporto di lavoro abbia influito molto (17,1%) o abbastanza (9,9%) sulla possibilità di fare un figlio è infatti pari al 32,8%, a fronte di un dato maschile del 27%. Al contrario, sono soprattutto gli uomini ad affermare che il fatto di essere un lavoratore atipico ha condizionato molto o abbastanza la possibilità di sposarsi (34,1%, contro il 28,8% delle donne).
I dati confermano ampiamente le note difficoltà per i lavoratori atipici di usufruire di prestiti e facilitazioni per partecipare ad attività di formazione e aggiornamento, comprare o affittare un appartamento, o semplicemente aumentare le proprie possibilità di consumo. Nello specifico, in relazione alla tipologia contrattuale, il fatto di essere un lavoratore atipico ha ostacolato molto o abbastanza la possibilità di comprare un appartamento ricorrendo a un mutuo per la maggioranza degli intervistati, in percentuale variabile dal 57,9% dei lavoratori interinali all’87,5% di quanti hanno un contratto d’inserimento. Ha inoltre influito molto o abbastanza sulla più modesta possibilità di prendere in affitto un appartamento per la maggioranza degli intervistati con contratto d’inserimento (75%), dei collaboratori a progetto (72,3%), dagli occasionali (57,8%) e dei lavoratori interinali (52,6%), nonché per il 48,3% dei co.co.co. e il 40,6% dei lavoratori part-time.
Emerge, con forza, ancora, la difficoltà di accedere al credito incontrate da una parte maggioritaria del campione: lo status di lavoratore atipico ha influito molto o abbastanza sulle personali possibilità di accedere al credito per una quota percentuale estremamente elevata di intervistati con contratto d’inserimento (87,5%), collaboratori occasionali (80,4%), collaboratori a progetto (75,6%), lavoratori interinali (60,5%), lavoratori part-time (57,6%) e collaboratori coordinati e continuativi (47,3%). Significativa, infine, la quota percentuale di atipici che lamentano la difficoltà di partecipare ad un corso di formazione /aggiornamento, soprattutto tra i lavoratori interinali (42,1%), i collaboratori occasionali (38,2%) ed i collaboratori a progetto (35,8%), più modesta tra i lavoratori part-time (25,5%). L’appartenenza alla schiera dei lavoratori flessibili non ha agevolato per una parte estremamente elevata dei lavoratori atipici tra i 18 e i 39 anni la possibilità di andare a vivere per conto proprio. Al contrario, il fatto di essere un lavoratore atipico ha influito molto o abbastanza sulla ricerca di un’indipendenza “materiale” dal nucleo familiare per circa i 3/5 degli intervistati di età compresa tra i 18 e i 32 anni e per il 51,7% di quanti hanno tra i 33 e i 39 anni. Più che di tanti Peter pan o Tanguy, si tratta di persone la cui vulnerabilità economica e precarietà lavorativa costringono a ritardare il distacco dalla famiglia, giovani donne e giovani uomini che non hanno scelto la condizione di tardo-adolescenti, ma ne sono rimasti intrappolati.
Per oltre un terzo degli intervistati “single” (il 34,7%) il fatto di essere un lavoratore atipico ha influito molto (13,5%) o abbastanza (21,2%) sulla possibilità di sposarsi, mentre lo status di atipico sembra condizionare in misura minore quanti convivono: per il 50% di essi la scelta di non convolare a nozze non è dettata dal proprio status di atipico e l’altra metà ne è poco condizionata.
In relazione all’età, è importante la quota di intervistati che ritengono che lo status di atipico abbia influito molto o abbastanza sulla possibilità di sposarsi, pari al 18,4% tra i più giovani (18-25 anni) e significativamente più elevata nella classe d’età 26-32 anni (38,1%) e in quella 33-39 anni (uno su tre).
L’atipicità della propria condizione lavorativa ha influito in misura molto o abbastanza significativa sulla scelta di avere un figlio ad avviso del 30% degli intervistati che non hanno figli, del 40% di quanti hanno un unico figlio e del 28,6% di coloro che hanno almeno due figli. Si tratta di un dato di estrema rilevanza, dal momento in cui per una quota significativa ed importante di lavoratori atipici la flessibilità ha ostacolato la scelta della prima maternità o della prima paternità o scoraggiato la decisione di avere altri figli (in particolare, per oltre il 34% dei co.co.co. e degli interinali e per il 33,9% dei lavoratori part-time). Il rischio di perdere l’autosufficienza economica, la condizione di vulnerabilità lavorativa ed esistenziale, il debole sistema di tutele a sostegno della maternità: sono tutti fattori che rendono difficoltosa la scelta di fare un figlio e che pongono una parte significativa di lavoratori atipici davanti al rischio crescente di rimandare, se non peggio rinunciare definitivamente, alla maternità/paternità. Ad avviso del 47% del campione le modalità di lavoro flessibili o atipiche tendono a dequalificare le competenze professionali, mentre il 40% ritiene, al contrario, che il lavoro flessibile rappresenti un’opportunità per arricchire la propria mappa di competenze. Sono soprattutto le lavoratrici atipiche a lamentare il fatto che la flessibilità tenda a dequalificare le competenze professionali (58,1%, contro il 34,2% degli uomini), mentre tra la componente maschile degli intervistati è maggioritaria la quota di quanti ritengono che il fatto di avere un lavoro flessibile possa favorire la crescita professionale (54,9%, contro il 28,5% delle donne).
Ansiosi e stressati. L’impatto della flessibilità sul benessere psico-fisico dei lavoratori atipici. Per un segmento importante degli intervistati la precarietà lavorativa derivante dallo status di atipico condiziona sensibilmente il proprio stato di benessere psico-fisico, provocando stati di ansia, stress, depressione, e/o portando ad una somatizzazione del disagio vissuto. Il 29,6% del campione afferma che il fatto di non avere un lavoro sicuro e stabile (il famoso “posto fisso”) lo fa sentire “spesso” stressato, ed oltre un terzo (il 33,6%) attribuisce a questa condizione stati frequenti di ansia. Vi è poi una quota significativa di lavoratori atipici che non riesce a gestire questi stati d’animo e afferma di soffrire “sempre” di stress (16,4%) e/o di essere “sempre” ansioso (10,8%). Se, dunque, l’instabilità del rapporto di lavoro procura spesso o continuamente stress e/o ansia, rispettivamente, al 46% e al 44,4% degli atipici, per il 16,2% tale condizione è addirittura fonte di stati depressivi frequenti (11,9%) o continui (4,3%).
Il senso di vulnerabilità economico-lavorativa, perfino esistenziale, derivante dal carattere permanente del lavoro atipico, espresso soprattutto da quanti, all’interno del campione, rappresentano il segmento anagraficamente e professionalmente più maturo dei lavoratori atipici, colpisce in particolar modo la componente femminile anche in relazione allo stato di benessere psico-fisico. Il fatto di non avere un lavoro sicuro e stabile procura spesso o continuamente alla maggior parte delle donne stati di ansia (52,5% contro il 37,7% degli uomini) e/o stress (56,5%, contro il 32,1% degli uomini) ed espone 1/5 di esse (il 20,5%, contro il 10,4% degli uomini) a stati depressivi frequenti o continui.
Ansia e stress colpiscono spesso o continuamente la maggioranza degli intervistati di età compresa tra i 33 e i 39 anni (rispettivamente, il 60,9% e il 57,5%). Molto diffusi, anche tra gli intervistati di età compresa tra i 26 e i 32 anni, frequenti o continui stati di ansia (44,3%) e di stress (51,5%), disturbi che colpiscono in misura minore i lavoratori atipici più giovani (18-25 anni), spesso o perennemente ansiosi nel 37,8% dei casi e soggetti frequentemente o continuamente a stati di ansia nel 31%. Il fatto di non avere un lavoro sicuro e stabile espone una percentuale importante (36,7%) del segmento più maturo del campione (33-39 anni) a stati depressivi frequenti (28,7%) o continui (8%), di cui è vittima anche il 14,2% dei 26-32enni ed il 5,8% dei più giovani. Tra i lavoratori atipici intervistati sono molto diffusi fastidi psico-fisici di diversa natura. Numerosi soprattutto gli intervistati che soffrono di disturbi gastro-intestinali (ne soffre almeno qualche volta il 59,6%), dolori muscolari (55,8%), emicranie e mal di testa (55,3%), stanchezza cronica (45,5%), disturbi della vista (40,2%), problemi cutanei (38,8%), inappetenza e debolezza (37,2%). Leggermente più contenuta la quota di intervistati che lamenta di soffrire almeno qualche volta di disturbi respiratori (34,5%, di cui spesso o continuamente il 10,7%) e calo delle difese immunitarie (30,3%, di cui spesso il 5,6%). Appare opportuno sottolineare, ancora, come una minoranza significativa del campione accusi disturbi sessuali (16,3%), alimentari (15,9%) e attacchi di panico (18%, di cui il 6,1% in modo frequente o continuo).
Circa un quarto degli intervistati che hanno affermato di soffrire almeno qualche volta di questi disturbi (il 24,4%) ritiene che essi siano dovuti in gran parte (19,5%) o del tutto (4,9%) all’atipicità della propria condizione lavorativa. Ritengono che i disturbi di cui soffrono siano molto o abbastanza collegabili al fatto di essere un lavoratore atipico soprattutto la componente femminile (il 31,6% delle donne, contro il 15% degli uomini) e quella più matura del campione (il 43,6% dei 33-39enni, contro il 23,8% dei 26-32enni ed il 13,6% dei 18-25enni), e quanti hanno sempre lavorato con contratti atipici (29,5%, contro il 16,1% degli intervistati che hanno conosciuto anche altri inquadramenti contrattuali nel corso della propria vita lavorativa).
Esclusi dal proprio presente, pessimisti sul proprio futuro. Il senso di vulnerabilità che pervade i percorsi lavorativi e personali della maggior parte dei lavoratori atipici intervistati è da una parte significativa di essi proiettato nel medio periodo. Oltre il 43%, infatti, immagina il proprio futuro nei prossimi anni, dal punto di vista economico, mediocre (35,7%) o pessimo (7,4%). Diversamente, il 47,8% lo immagina discreto (33,2%) o molto buono (14,6%). Il modo in cui i lavoratori atipici intervistati s’immaginano nei prossimi anni dal punto di vista economico riflette in modo significativo la percezione che hanno di sé nel presente. È pessimista sul futuro soprattutto chi avverte maggiormente, in base a quanto rilevato dall’indagine, il senso di vulnerabilità economico-lavorativa, personale ed esistenziale derivante dal proprio status di atipico; quella parte di lavoratori atipici per la quale il tempo scorre di più e più velocemente e che pertanto subisce maggiormente l’impatto della flessibilità sulla propria crescita professionale, sul proprio benessere psico-fisico, sulla propria capacità progettuale e sulla possibilità di compiere scelte di vita importanti, a volte difficilmente procrastinabili (come quella di fare un figlio), vale a dire: la componente femminile del campione e il segmento più maturo dal punto di vista anagrafico e professionale. Immaginano per lo più di avere nei prossimi anni una buona disponibilità economica soprattutto la componente maschile e giovanile del campione e gli “junior”, quanti cioè si trovano ancora all’inizio del proprio percorso lavorativo o sono entrati nel mercato del lavoro da non più di 3 anni.
In particolare, è possibile osservare come la percentuale di quanti immaginano il proprio futuro nei prossimi anni, dal punto di vista economico, mediocre o pessimo, è maggioritaria tra le donne (52,2%), tra gli intervistati di età compresa tra i 33 e i 39 anni (59,8%) e tra quanti vantano un’esperienza lavorativa ultradecennale (59,5%), o ultraquinquennale (47,9%, contro il 41,8% che lo immagina, al contrario, discreto o molto buono). Prevalentemente ottimisti sulla propria disponibilità economica negli anni a venire, al contrario, gli uomini (55,4%), i giovanissimi (58,2%) e quanti hanno un’età compresa tra i 26 e i 32 anni (47,2%, contro il 43% che immagina il proprio futuro economicamente pessimo o mediocre). In relazione agli anni di esperienza lavorativa, il futuro nei prossimi anni sarà economicamente discreto, se non molto buono, per la maggior parte di quanti sono entrati solo recentemente (6 mesi-1 anno) nel mondo del lavoro (65,3%), o lavorano da un periodo di tempo non eccessivamente lungo: da 1-2 anni (53,7%) o da 2-3 anni (50,6%). Ma è soprattutto sul lungo periodo che i lavoratori atipici manifestano le proprie preoccupazioni. Com’è noto, uno dei nodi problematici legati al carattere permanente della condizione di lavoratore atipico è rappresentato dall’insufficienza della copertura previdenziale ai fini pensionistici. Ben il 63,7% del campione ritiene che al termine della propria vita lavorativa la propria pensione sarà insufficiente a garantirgli un livello di vita dignitoso (27,4%) o sarà addirittura inesistente (36,3%). Circa ¼ degli intervistati (il 25,8%) confida, diversamente, in una pensione sufficiente a vivere dignitosamente (16,4%) o discretamente (9,4%). Da evidenziare, ancora, come nessuno degli intervistati ritenga di poter contare su una pensione in grado di garantire una vecchiaia economicamente “agiata”.
In relazione al proprio futuro pensionistico, si registra una maggiore presenza di pessimisti, ancora una volta, tra la componente femminile del campione e tra il segmento più maturo dal punto di vista anagrafico e professionale, ma gli ottimisti, in questo caso, sono minoritari anche tra la componente maschile e giovanile del campione e tra quanti sono entrati da un periodo relativamente breve nel mercato del lavoro. In particolare, è possibile osservare che tra le donne ben il 71,5% ritiene che al termine della propria esperienza lavorativa la propria pensione sarà inesistente (37,5%) o comunque insufficiente a garantire una vecchiaia dignitosa (34%) e come tra gli uomini il 53,3% crede che non percepirà alcuna pensione (34,7%) o che questa sarà insufficiente (18,6%).
Passando alla classe d’età, immaginano una vecchiaia di indigenza il 46,6% dei giovanissimi, i 2/3 degli intervistati tra i 26 e i 32 anni (per il 37,2% dei quali la pensione sarà inesistente) ed oltre il 70% di quanti hanno un’età compresa tra i 33 e i 39 anni (tra cui il 32,2% ritiene che non riuscirà a percepire alcuna pensione). Pessimismo sul proprio futuro pensionistico è espresso non solo dalla stragrande maggioranza di quanti vantano un’esperienza lavorativa almeno biennale, in percentuale variabile dal 64,2% (5-10 anni di esperienza lavorativa) al 75,6% (oltre 10 anni di esperienza nel mercato del lavoro), ma anche da una quota maggioritaria di intervistati che si sono affacciati nel mondo del lavoro da 1-2 anni (47,2%) o da appena 6 mesi-1 anno (51,4%). Va evidenziato come la percentuale di quanti ritengono che al termine della propria esperienza lavorativa non avranno una pensione è drammaticamente elevata sia tra gli intervistati con esperienza ultradecennale (48,6%!) che tra quanti lavorano da un periodo compreso tra i 3 e i 5 anni (41%), dai 2 ai 3 anni (39,3%) o sono appena all’inizio del proprio percorso lavorativo (il 43,1% di quanti lavorano da 6 mesi-1 anno).
Hanno mai pensato a garantirsi una pensione integrativa? Se il 17,7% del campione ritiene ancora prematuro pensarci, appena il 10% non ritiene necessario ricorrervi. Il 32,5% degli intervistati, infatti, vi ha già fatto ricorso (22,4% ) o esprime l’intenzione di farlo (10,1%), mentre il 34,5% si trova nella condizione di volere garantirsi una pensione integrativa ma di non avere la possibilità economica per farlo, intrappolato nel presente, escluso dal proprio futuro. In relazione alla classe d’età, sono soprattutto gli intervistati più maturi ad affermare di avere fatto già ricorso ad una pensione integrativa (il 33,3%, contro il 16,3% dei 26-32enni ed i 15,5% dei giovanissimi), mentre esprime l’intenzione di ricorrervi una percentuale maggiore di lavoratori atipici tra i 26 e i 32 anni (il 13,4%, contro il 10,3% dei 33-39enni ed appena il 3,9% dei giovanissimi). Tra i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 25 anni è maggiormente diffusa l’idea che sia ancora troppo presto per pensare ad una pensione integrativa (28,1%, contro il 10,3% dei più maturi) o che non sia necessario ricorrervi (14,6%). Spicca, in particolar modo, il dato relativo agli intervistati che pur ritenendo opportuno ricorrere a una pensione integrativa affermano di non avere al momento la possibilità economica di farlo: sono la maggior parte (il 42,3%) tra gli intervistati di età compresa tra i 26 e i 32 anni, il 28,7% tra i 33-39enni ed il 27,2% tra i più giovani. È già ricorso ad un pensione integrativa almeno un quinto degli atipici con esperienza lavorativa ultradecennale (29,7%), ultraquinquennale (23,5%), e di quanti lavorano da 3-5 anni (24,1%), da 2-3 anni (20,2%) o da 6 mesi a 1 anno (26,1%), mentre tra gli intervistati che sono entrati nel mercato del lavoro da 1-2 anni è più diffusa l’intenzione di ricorrervi (20,9%). È ancora troppo presto per pensarci per una percentuale significativa di “junior”: il 26,4% di quanti lavorano da non più di 1 anno, il 26,9% di coloro che lavorano da 1-2 anni ed il 28,1% di quanti sono entrati nel mercato del lavoro da 2-3 anni. Al contrario, tra gli intervistati che hanno già accumulato una certa esperienza lavorativa, prevale nettamente la percentuale di quanti sono consapevoli di dover ricorrere ad una pensione integrativa per garantirsi una vecchiaia dignitosa ma non hanno la possibilità economica di farlo: il 43,4% tra gli intervistati che lavorano ormai da 3-5 anni, il 46,9% tra quanti sono nel mercato del lavoro da oltre 5 anni, il 37,8% tra coloro che possono vantare un’esperienza lavorativa ultradecennale. Tra gli intervistati più ottimisti rispetto al proprio futuro pensionistico, una buona parte (il 37% di quanti ritengono che la propria pensione garantirà loro un livello di vita dignitoso ed il 28,5% di quanti confidano in un livello di vita discreto) ha comunque già fatto ricorso ad una pensione integrativa o esprime l’intenzione di farlo, mentre il 12,3% di quanti ritengono che la propria pensione sarà sufficiente a garantire un livello di vita dignitoso ed il 21,4% di coloro che ritengono di poter confidare in una pensione sufficiente ad assicurare un discreto livello di vita non reputano necessario integrare i propri contributi previdenziali ai fini pensionistici. Circa 1/4 degli intervistati che confidano in una vecchiaia dignitosa ritiene ancora prematuro pensare ad una pensione integrativa.
Tra quanti ritengono che al termine della propria vita lavorativa avranno una pensione inesistente, il 36,4% è già ricorso ad una pensione integrativa (30,2%) o esprime l’intenzione di farlo (6,2%). Cerca di ricorrere ai ripari anche il 36% degli intervistati che ritengono di poter confidare in una pensione insufficiente: il 18% ha già fatto ricorso ad una pensione integrativa ed il 18% esprime l’intenzione di farlo. Sebbene vi sia tra i pessimisti anche una minoranza di lavoratori che reputano ancora prematuro ricorrere ad una pensione integrativa (il 21,3% tra quanti pensano di avere una pensione insufficiente ed il 13,6% di quanti non credono di averla), particolarmente critica appare la condizione di quanti, pessimisti sul proprio futuro pensionistico, affermano di avere pensato di ricorrere ad una pensione integrativa ma non hanno la possibilità economica di farlo. Incastrati in un presente di vulnerabilità economica che impedisce loro di tutelare il proprio futuro, condannandoli all’indigenza: sono il 34,4% tra gli intervistati che ritengono che la propria pensione non sarà sufficiente ad assicurare un livello di vita dignitoso ed addirittura il 45,7% tra quanti ritengono che non godranno di alcuna pensione al termine della propria vita lavorativa.