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[ ANNO I – MARZO 2005 – NUMERO 12 ] L’IMPATTO DELLA “RIFORMA BIAGI” SUL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO

Le ragioni di una riforma. La riforma del mercato del lavoro non rappresenta il punto conclusivo di un intervento riformatore che pure parte da lontano. I decreti di attuazione della legge n. 30 del 2003 costituiscono semmai, il punto di partenza – imprescindibile, ma di per sé non sufficiente – di un complesso e delicato processo di ridefinizione e razionalizzazione delle regole che governano il nostro mercato del lavoro. E questo non soltanto perché vengono ora poste le necessarie premesse per la codificazione di uno Statuto dei lavori, e cioè un corpo di diritti fondamentali destinato a tutti i lavoratori, e non solo a quelli del pubblico impiego o della grande-media impresa, in modo da superare – una volta per tutte – quel dualismo tra ipertutelati e precari riconducibile a una cattiva e miope distribuzione delle tutele del lavoro. Ancora più decisivo, in questa fase di transizione dal vecchio al nuovo diritto, sarà piuttosto il ruolo delle parti sociali e, in particolare, degli enti bilaterali indicati nella riforma quali sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro e il bilanciamento dei contrapposti interessi. Una verifica dello stato di attuazione della riforma impone pertanto un attento monitoraggio della contrattazione collettiva, da cui dipende l’attivazione concreta delle misure contenute nella legislazione nazionale. Le ragioni della riforma si possono facilmente individuare nelle pessime performance del nostro mercato del lavoro se comparato non solo a quello degli Stati Uniti e del Giappone, ma anche allo stesso quadro europeo di riferimento. La nostra economia sconta infatti una cronica tendenza a una bassa intensità occupazionale della crescita economica, anche in ragione delle rilevanti barriere che condizionano l’accesso al mercato del lavoro regolare. Particolarmente grave è il ritardo rispetto agli obiettivi europei di Lisbona, che fissano al 70% il tasso di occupazione cui devono ambire le economie europee. Nonostante il positivo andamento degli ultimi tre anni (2,5 punti percentuali di aumento), il tasso di occupazione regolare rimane ancorato a un modesto 56% del totale nel 2003, segnando la peggiore performance in Europa. Decisamente insoddisfacente è anche il tasso di occupazione femminile, collocato al 42,7%; così come quello degli over 55, pari al 30,3%. La permanenza nella condizione di disoccupazione è tra le più lunghe in Europa: più del 5% della forza lavoro è rimasta disoccupata per almeno un anno, comparativamente al 3,8% nell’Unione europea.
A fronte di un tasso di occupazione regolare tra i più bassi d’Europa il nostro Paese registra, per contro, una abnorme dimensione della economia sommersa, soprattutto nel Mezzogiorno, che alcune stime collocano anche al 23-27% del Pil. Si tratta quindi di una emergenza nazionale che coinvolge un vero e proprio esercito di persone: oltre 4 milioni di lavoratori, che operano al di fuori delle regole. Il nostro Paese registra evidenti e preoccupanti segnali di un forte deprezzamento della dotazione di capitale umano anche per quanto attiene alla formazione degli adulti, la cosiddetta formazione permanente. Pure se temperati dalla presenza di una formazione sommersa nelle diffuse piccole imprese, senza la quale non si giustificherebbe la loro capacità competitiva, il dato dell’Italia si colloca solo prima di Grecia e Portogallo anche in una Europa di venticinque Paesi. Le media europea raggiunge quasi il 10% di interventi formativi (ancora lontano dai livelli indicati dal processo di Lisbona), mentre l’Italia supera a malapena il 4%. Questo dato è testimonianza di una scarsa mobilità occupazionale del nostro mercato del lavoro, rispetto alle economie dei Paesi nordici, al Regno Unito o ai Paesi Bassi, che registrano valori tra 5 e 8 volte superiori. Il mercato del lavoro risulta quindi fortemente squilibrato e asfittico, caratterizzato negativamente, sia sul piano quantitativo sia sul piano qualitativo, per una bassa dotazione di capitale umano. Al gruppo di lavoratori protetti da forti tutele (i circa 3,5 milioni occupati nelle Amministrazioni pubbliche e i circa 8,5 milioni occupati nelle imprese di grandi e medie dimensioni) si accompagnano infatti gruppi con tutele deboli (gli oltre 5 milioni di lavoratori atipici e di lavoratori occupati nelle piccole imprese) e, infine, gruppi senza tutela alcuna (i circa 4 milioni di lavoratori in nero). La riforma Biagi del mercato del lavoro muove appunto dal tentativo di invertire questa pessima performance del nostro mercato del lavoro per contribuire ad incrementare – come afferma l’articolo di apertura del decreto legislativo n. 276 del 2003 – i tassi di occupazione regolare di qualità, soprattutto per quanto attiene al lavoro e alle opportunità occupazionali delle categorie a rischio di esclusione sociale (outsiders).
I pilastri della riforma Biagi del mercato del lavoro: occupabilità, adattabilità e pari opportunità. Se l’alternativa flessibilità/precarietà è dunque fuorviante, in un mercato tanto fragile e destrutturato come il nostro, le parole chiave con cui leggere la riforma paiono piuttosto quelle della “occupabilità”, della “adattabilità” e delle “pari opportunità”. Obiettivo centrale della riforma è quello di garantire la effettiva occupabilità di ogni singolo lavoratore in una dimensione ove i paradigmi dello sviluppo economico e di quello sociale tendono a convergere nella valorizzazione della persona (capitale umano). Per quanto non priva di lacune (tra tutte si rileva l’assenza di una moderna disciplina degli ammortizzatori sociali), la riforma assume la centralità della persona in età di lavoro – dei suoi diritti ma anche delle sue responsabilità – quando ridefinisce il collocamento ordinario come una rete fondata sulla anagrafe del singolo lavoratore destinata a integrarsi con il suo libretto formativo. E ancora quando promuove un mercato efficiente e trasparente attraverso strumenti quali la borsa continua del lavoro, operatori debitamente autorizzati e/o accreditati e sedi di certificazione dei contratti di lavoro; e cioè una pluralità di operatori – tutti gratuiti per il lavoratore – che assistono un contraente che, spesso, è “debole” solo per una asimmetria informativa o per mancanza di adeguata formazione, consentendogli di conoscere e di incontrare con trasparenza e tempestività tutte le opportunità di lavoro in tutto il Paese e di stipulare il contratto di lavoro più coerente con le sue esigenze di lavoro. In questa prospettiva la riforma degli ammortizzatori sociali all’esame del Parlamento – che, come concordato nel già richiamato Patto per l’Italia del 5 luglio 2002, include il raddoppio temporale della indennità di disoccupazione, la possibilità di ulteriori integrazioni al reddito a cura delle parti sociali, il loro collegamento con la formazione ed i servizi di orientamento – dovrà necessariamente completare il quadro delle tutele attive proprie di un mercato moderno e trasparente, come tale capace di individuare e prevenire la singola, potenziale, esclusione sociale. Fino a che non verrà approvata anche questa riforma la disciplina introdotta dalle legge Biagi rischia infatti di risultare insufficiente per riattivare il nostro mercato del lavoro e accompagnare il lavoratore da una situazione occupazionale all’altra. Anche la nuova regolazione di alcuni contratti a orario ridotto, modulato o flessibile (part-time, lavoro a coppia, lavoro intermittente) ha lo scopo di incoraggiare la reciproca adattabilità tra le esigenze dei lavoratori e delle imprese in forme contrattuali tendenzialmente stabili. La flessibilità si pone quindi in questi contratti quale esplicito strumento per la regolarità e la stabilità del rapporto di lavoro, avendo come unico obiettivo non la destrutturazione dei rapporti di lavoro stabili e per una carriera ma, al contrario, la strutturazione lungo i canali della legalità di prestazioni di lavoro rese in forma precaria e irregolare nell’ambito di una economia sommersa che viene stimata tre/quattro volte superiore a quella presente negli altri Paesi europei.
Verso un mercato del lavoro aperto, trasparente ed efficiente. La riforma del mercato del lavoro pone indiscutibilmente un delicato problema di ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni. Nell’impianto della riforma la questione è stata affrontata in termini di sinergia funzionale tra competenze statali e competenze regionali, in base alla convinzione che questo tipo di approccio conduce ad approdi sicuramente più convincenti di quelli che, in una ottica di mera concorrenza ordinamentale, possono derivare dalla defatigante comparazione tra le nozioni di «ordinamento civile» e di «tutela e sicurezza del lavoro». Se si ritiene che l’efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro dipenda dallo standard di efficienza dei servizi per l’impiego, particolare enfasi nella regolazione della materia non poteva che essere posta, innanzitutto, sul profilo della garanzia, su tutto il territorio nazionale, dei livelli essenziali (e non necessariamente minimi) delle prestazioni a tutela dell’obiettivo prioritario dell’accesso al lavoro. Nel nuovo quadro delle competenze in materia di mercato del lavoro sono stati coerentemente definiti come compiti del legislatore nazionale i seguenti temi: individuazione dei princìpi fondamentali e ruolo di coordinamento nella definizione degli standard nazionali, anche al fine di evitare la duplicazione o l’appesantimento delle incombenze a carico dell’utente nella prospettiva dello snellimento e della semplificazione delle procedure di incontro tra domanda e offerta di lavoro; determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, tra cui indubbiamente vanno annoverati anche i servizi per l’impiego, che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e che costituiscono il quadro di riferimento e di vincoli, non necessariamente minimale, per la legislazione concorrente; programmazione delle politiche nazionali del lavoro e garanzia della loro coerenza rispetto agli obiettivi comunitari in materia di occupabilità, nonché, ovviamente, in materia di pari opportunità, adattabilità, imprenditorialità; definizione e programmazione delle politiche di integrazione tra i sistemi e segnatamente tra la scuola, la formazione, il lavoro, la previdenza; integrazione e monitoraggio dei servizi regionali; sviluppo e gestione, a fini di monitoraggio e a supporto delle decisioni, del sistema statistico e informatico, condiviso con le Regioni, delle prestazioni, dei servizi e delle politiche.
Per contro, alle Regioni sono state affidate: la programmazione delle politiche regionali del lavoro, nel quadro di riferimento definito a livello nazionale; la gestione e la definizione degli incentivi al lavoro nel quadro dei princìpi fondamentali tracciati a livello nazionale; la definizione e l’attuazione delle politiche attive del lavoro e segnatamente delle politiche per la formazione; la definizione degli indirizzi operativi (stato di disoccupazione, prevenzione della disoccupazione di lunga durata, perdita dello stato di disoccupazione, ecc.); la garanzia di accesso al cittadino ed alle imprese ai servizi integrati degli operatori pubblici e privati; la realizzazione del supporto informativo per operatori ed utenti.
Le collaborazioni coordinate e continuative. La regolamentazione delle collaborazioni coordinate e continuative nella cosiddetta modalità a progetto costituisce, a ben vedere, il punto di maggiore innovazione – ma indubbiamente anche di maggiore criticità – nell’impianto del decreto legislativo di attuazione della legge Biagi. La riforma Biagi si limita in definitiva ad introdurre una serie di robuste barriere – di tipo definitorio e sanzionatorio – per impedire l’utilizzo improprio delle collaborazioni coordinate e continuative. L’opzione concettuale di considerare il lavoro coordinato e continuativo come una forma di lavoro autonomo genuino, e dunque di prevenire un utilizzo improprio di tale figura, si è piuttosto tradotta in una operazione di politica legislativa volta a far transitare quanti più rapporti possibili, e secondo una certa gradualità temporale, dall’incerta area del lavoro cosiddetto grigio o atipico agli schemi del lavoro dipendente, ora opportunamente ampliati e diversificati in funzione di questo obiettivo di sostanziale rimodulazione delle tutele verso forme di flessibilità regolata e – sindacalmente – controllata. Operazione questa che, in chiave anticipatoria rispetto alla proposta di Statuto dei lavori, si auspica possa alimentare, in luogo della informe massa di singole prestazioni contrattuali oggi collocate nella cosiddetta area grigia, la creazione di un continuum di tipologie contrattuali situate tra i poli estremi del lavoro coordinato e continuativo e del lavoro subordinato a tempo indeterminato; un continuum che, in altri termini, con l’emersione di tipologie contrattuali irregolari o, comunque, di incerta definizione potrebbe poi contribuire a una rimodulazione complessiva delle tutele del lavoro ratione materiae e in funzione della posizione di effettiva debolezza del lavoratore. Nell’impostare la questione dei lavori “dalla parte delle tutele” piuttosto che dalla parte della qualificazione del rapporto, l’impianto di uno Statuto dei lavori non può infatti che collocarsi nella prospettiva della «dipendenza economica» del lavoratore.
Le criticità della riforma. La riforma non è certo esente da lacune e profili di forte criticità, il più evidente dei quali è indubbiamente rappresentato dalla esclusione della Pubblica amministrazione dal campo di applicazione del decreto legislativo n. 276 del 2003. Si tratta di una opzione fortemente criticabile, soprattutto in considerazione della rilevanza del fenomeno delle collaborazioni coordinate e continuative e degli appalti di servizi nel settore pubblico, ma che trova spiegazione (non certo giustificazione) in difficoltà di ordine politico e sindacale, più che tecniche, a portare a definitivo compimento il processo di privatizzazione del lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione. Tutta da valutare è poi certamente anche la sfida lanciata sul lavoro a tempo parziale: non è infatti detto che più flessibilità, in modo da accrescere i tassi di utilizzo di questa forma di lavoro, possa al contempo tradursi in più opportunità per i lavoratori. Così come non si può negare che alcune delle misure volte alla definizione di un corpo organico di tutele sul mercato – e non più solo nel rapporto di lavoro – risentiranno, con buona probabilità, dello stralcio dei provvedimenti in materia di ammortizzatori sociali e incentivi alla occupazione, confluiti, come detto, in un disegno di legge delega in discussione in Parlamento.