L’esplosione dell’imprenditoria tra gli immigrati. In Italia, il numero complessivo dei titolari di impresa con cittadinanza estera al 30 giugno 2004 è risultato pari a 71.843 (+27% rispetto all’anno precedente, quando essi ammontavano a 56.421). L’incremento riscontrato nel numero dei titolari di imprese straniere assume ancor più rilevanza se confrontato con la variazione osservata per la totalità dei titolari d’impresa (solo lo 0,5%). Tale dinamicità si è rivelata in maniera spiccata nel Centro e nel Nord-Est (aumento del 31%), rispetto al Nord-Ovest, al Sud ed in special modo alle Isole (aumenti rispettivamente del 26%, 24% e 17%). Anche in alcuni settori si è rilevata una presenza più dinamica degli stranieri: aumento dell’88% nelle costruzioni, del 79% nei trasporti e del 48% nel settore commerciale. Le regioni in testa per le percentuali d’aumento degli immigrati imprenditori sono state: Marche (+49%), Emilia Romagna e Lazio (+33%), Veneto (+31%), Liguria e Calabria (+29%), Toscana (+27%), Abruzzo (+26%), Sicilia (+25%). Anche in alcuni contesti provinciali l’aumento è stato notevolmente superiore alla media nazionale: 50% a Reggio Emilia, 45% a Brescia, 34% a Verona, 31% a Roma e 28% a Torino, mentre in provincia di Milano l’aumento è stato solo del 13%. Molto contenuta è stata la crescita dell’imprenditoria immigrata in Sardegna (+6%), una regione che peraltro si segnala per l’alta incidenza percentuale dei permessi per lavoro autonomo sul totale dei soggiornanti, il che attesta una sorta di “capacità camaleontica” degli immigrati extracomunitari (in prevalenza marocchini e senegalesi), capaci cioè di creare in proprio lavoro quando il territorio che li accoglie è in grado di offrire pochi sbocchi nel settore dipendente. L’entità dell’imprenditoria immigrata può considerarsi, invece, praticamente trascurabile nelle regioni del Sud a connotazione prevalentemente rurale, come Molise e Basilicata. L’iniziativa degli immigrati inizia a ritagliarsi degli spazi (ad esempio a Catanzaro e a Caserta) anche in contesti produttivamente deboli.
Vi è una maggiore concentrazione territoriale di imprese straniere nel Nord-Ovest (27.326 pari al 38% del totale) e nel Nord-Est (18.419 pari al 26% del totale); seguono il Centro con il 22%, il Sud e le Isole, rispettivamente con il 9% ed il 5%. L’epicentro di questa realtà è la Lombardia con 18.414 imprenditori di nazionalità straniera, pari al 26% delle imprese di immigrati operanti nell’intero Paese. Al di fuori della Lombardia, gli immigrati imprenditori tendono a distribuirsi quasi uniformemente (con quote circa del 10% sul totale) nelle 5 maggiori regioni del Nord e del Centro: Emilia Romagna (8.216), Piemonte (7.763), Veneto (7.464), Lazio (7.312) e Toscana (6.605). La provincia con il maggior numero di imprese costituite da cittadini stranieri è Milano (10.886, pari circa al 15% del totale), seguita da Roma (6.633, pari al 9%) e Torino (4.691, pari al 7%).
Rispetto all’incidenza media del 2% sul totale delle imprese operanti in Italia, quelle degli immigrati nel ramo delle costruzioni incidono per il 4%, mentre l’incidenza è del 3% nel commercio, nelle attività manifatturiere e nei trasporti. Anche a livello territoriale l’impatto è differenziato. Il peso della componente straniera nell’imprenditoria locale risulta particolarmente elevato nella provincia di Prato, dove la percentuale delle imprese facenti capo ad immigrati sul numero complessivo di imprese è pari al 13%. L’incidenza degli imprenditori stranieri sul totale assume valori rilevanti anche nelle province di Milano (7%), Reggio Emilia, Catanzaro e Parma (tutte con il 5%) ed in generale superiori alla media nazionale (2%). Nella Capitale, 4 imprese su 100 risultano essere costituite da cittadini stranieri.
Settori imprenditoriali e paesi di provenienza. Ben il 70% delle imprese individuali registrate opera in due soli settori di attività economica: il commercio (specialmente al dettaglio) e l’edilizia, nei quali si concentrano rispettivamente il 42% ed il 28% degli imprenditori stranieri presenti nel nostro Paese. Gli altri settori verso i quali l’imprenditoria straniera rivolge un discreto interesse sono quello manifatturiero, dei servizi (nei “servizi alle imprese” vanno distinguendosi gli immigrati dell’Est Europa), dei trasporti e delle comunicazioni (5%) con quote di imprenditori pari rispettivamente a circa il 13,7% e 5% sul totale. Il settore alberghiero e della ristorazione unitamente a quello agricolo hanno, invece, un peso percentuale inferiore (pari in entrambi i casi al 2%) sul totale. Tra i gruppi più numerosi viene innanzi tutto quello marocchino (14.554 e 20% della totalità degli imprenditori immigrati), seguito da cinesi (10.199, pari al 14%), albanesi (6.152, poco meno del 9%), senegalesi (5.937, circa l’8%) e rumeni (4.688, intorno al 7%). Seguono, per numerosità, un gruppo di paesi africani (tunisini, egiziani e nigeriani) e balcanici (serbi, macedoni e bosniaci). Dei 3.779 titolari di impresa provenienti da paesi dell’Unione europea (appena il 5% del totale), 844 sono tedeschi e 675 polacchi. I gruppi nazionali che presentano una più spiccata attitudine imprenditoriale sono i cinesi ed i senegalesi, entrambi con un numero di titolari di impresa ogni 1.000 soggiornanti pari a 164. In ordine di incidenza sui rispettivi gruppi seguono egiziani, nigeriani, marocchini, bangladeshi e pakistani, mentre l’incidenza è scarsa tra albanesi, peruviani e brasiliani. Circa la metà (48%) delle imprese ha conosciuto la costituzione a partire dal 2002. Il valore percentuale è più alto per gli imprenditori stranieri originari dell’Est europeo, a testimonianza del loro protagonismo di data recente: 65% per i rumeni, 62% per gli albanesi, 59% per i macedoni, 57% per i bosniaci. Anche per altri gruppi la presenza più consistente nell’imprenditoria è avvenuta dopo il 2002 (Pakistan, Tunisia, Bangladesh). Quote al di sotto della media complessiva si riscontrano per alcune collettività di più “antica” immigrazione come senegalesi (30%) e marocchini (41%). La componente artigianale riveste un ruolo di grande importanza, essendo questo tipo di imprese 29.365, pari al 41% del totale delle imprese gestite da immigrati al 30 giugno 2004. La graduatoria delle prime collettività immigrate per numero di titolari di imprese artigiane è differente rispetto alla graduatoria generale. Il gruppo con il numero maggiore di imprenditori artigiani risulta essere quello degli albanesi, con 5.227 titolari, pari al 18% del totale; seguono i cinesi con 3.567 artigiani e il gruppo dei nordafricani (2.991, 22.591 tunisini e 2.022 egiziani). Nella graduatoria relativa alle imprese artigianali non sono presenti paesi quali la Nigeria ed il Bangladesh; altri, come il Senegal ed il Pakistan, sono relegati alle ultime posizioni, mentre nella graduatoria riferita al complesso delle imprese straniere occupavano posizioni di tutto rispetto. Consistente è, invece, il numero di imprenditori artigiani provenienti dai Balcani: 1.473 dalla Serbia-Montenegro, 1.070 dalla Macedonia, 450 dalla Bosnia e 327 dalla Croazia. L’iniziativa imprenditoriale assume, in effetti, una connotazione fortemente artigianale per molte collettività originarie dell’Est Europa e della Penisola balcanica: la percentuale di artigiani sul totale degli imprenditori è pari all’86% per i macedoni, all’85% per gli albanesi, al 75% per i rumeni, al 70% per serbi e montenegrini, al 66% per croati e bosniaci. L’artigianato riveste un peso rilevante anche per turchi, tunisini ed egiziani, con quote di artigiani pari rispettivamente all’80%, al 76% ed al 62%. Invece i gruppi nazionali meno dediti alle imprese artigianali sono i senegalesi (incidono solo per il 5%), i pakistani (incidenza del 19%), i marocchini (incidenza del 21%) ed i cinesi (attestati al 35%). Alla luce di questi dati, è opportuno rilevare come le due collettività che nel complesso vantano il numero più elevato di imprenditori, marocchini e cinesi, manifestino una minore propensione, rispetto alla gran parte degli altri gruppi etnici, verso l’artigianato, mentre tale propensione è più spiccata per le collettività di più recente immigrazione, come quelle provenienti dall’Europa dell’Est e dai Balcani. Più della metà di queste imprese (52%) è stata infatti costituita a partire dal 2002 e ciò indica che si tratta di un protagonismo di data recente, specialmente per croati (62%), albanesi (60%), serbi e montenegrini (58%), senegalesi (57%) e cinesi (57%); per i romeni, invece, la quota di imprese artigianali costituita dopo il 2002 scende al 36% perché il gruppo si era rivelato attivo già anteriormente a tale data.
L’imprenditoria degli immigrati nell’area romana. Negli ultimi anni Roma ha visto crescere il numero di attività commerciali e di imprese di servizi promosse da immigrati nei diversi quartieri della città. Nella Capitale l’incidenza degli immigrati residenti sulla popolazione (2.800.000 unità) che era del 7% prima della regolarizzazione (due punti al di sopra della media europea), è passata al 10% con circa 280.000 unità, includendovi i regolarizzati. In Provincia di Roma quelli che attualmente sono iscritti alla Camera di Commercio come titolari di impresa o soci sono così ripartiti: 3,4% prima del 1980; 12,6% negli anni Ottanta; 38,9% negli anni Novanta e 43,3% dal 2000 ad oggi. Gli imprenditori e i soci d’impresa nati all’estero hanno un’incidenza del 5% sugli iscritti alle Camere di Commercio nel Lazio e del 6% sugli iscritti alla Camera di Commercio nella Provincia di Roma. Le presenze per lavoro autonomo e professionale incidono per il 9% sul totale dei 107.000 lavoratori immigrati registrati prima della regolarizzazione. Dopo la regolarizzazione, prevista solo per i lavoratori dipendenti, il tasso quasi si dimezza e scende al 5%. Questo lascia presagire che nei prossimi anni si attuerà un riequilibrio che vedrà molti immigrati scegliere la via dell’imprenditoria. Solo nel quartiere Esquilino, nel 2000, risultavano operanti 375 attività commerciali di cui circa 200 all’ingrosso. Insediamenti imprenditoriali si riscontrano anche in altre zone urbanistiche: Pigneto, Torpignattara, Magliana, Casilino, Trastevere, Ostiense, Porta Furba. Si tratta di bar, pizzerie, ristoranti, saloni di parrucchieri, negozi alimentari, banchi di frutta e verdura e di fiori, cooperative o ditte di servizi elettrici, imbiancatura, trasloco, servizi di “call center” e anche di qualche ditta imperniata sull’innovazione tecnologica. Più in particolare, ogni 100 titolari e soci d’impresa stranieri presenti nella provincia di Roma 55,4 operano nel settore dei servizi, 34,8 nelle attività commerciali, 26 in quelle dell’industria e 2 in quelle agricole, della caccia e della pesca. I gruppi nazionali, anche in provincia di Roma, rivelano alcune preferenze. I titolari d’impresa nati in Romania sono attivi soprattutto nel ramo delle costruzioni, quelli nati in Cina soprattutto nel settore commerciale e della ristorazione, quelli nati in Egitto nel settore alberghiero e della ristorazione, quelli nati in Marocco e in Libia nelle attività commerciali. L’Europa e l’Africa detengono quasi i due terzi dei casi (ciascuna con una quota del 31%), mentre l’Africa scende al 17% e l’Asia al 12%. I nordafricani sono più di un quinto del totale (21,7%), i cittadini dell’Unione europea e dell’Est Europa detengono quote del 15%. Una recente ricerca ha messo in luce la capacità di risparmio degli immigrati, una predisposizione che assume grande rilevanza ai fini dell’inserimento nell’imprenditoria. L’indagine campionaria ha interessato circa 1.300 intervistati tra filippini, marocchini, peruviani e romeni e cioè quattro tra i maggiori gruppi nazionali insediati a Roma, che si ispirano a modelli differenziati di insediamento. I consumi di questi lavoratori sono risultati assai compressi, mentre molto accentuata è apparsa la capacità di risparmio e di invio di rimesse in patria, sia in soldi che in natura. Gli immigrati che hanno risparmiato negli ultimi 12 mesi (rispetto al 2002, anno della rilevazione) è più alta rispetto a quella dei risparmiatori italiani residenti nella Capitale (63,6% rispetto a 31,4%), e questo grazie alla capacità di comprimere le spese destinate al proprio sostentamento.
La via autonoma al lavoro in Europa e in Italia. La piccola imprenditorialità tra gli immigrati va diffondendosi sempre più. A livello internazionale, vi sono paesi nei quali, in percentuale, gli stranieri, per quanto riguarda l’inserimento in questo settore lavorativo, hanno una incidenza percentuale più alta rispetto a quelli nati sul posto. Dal punto di vista dell’organizzazione del sistema economico, lo sviluppo di imprese gestite da immigrati è stato favorito in Europa dai processi di ristrutturazione che hanno frammentato il tessuto produttivo in piccole unità, specialmente attraverso i meccanismi del decentramento e del subappalto, come anche dal venir meno di sbocchi tradizionali in altri campi: questa “carriera” è risultata spesso l’unica in grado di rispondere alle aspirazioni di mobilità sociale, superando lo stereotipo degli immigrati come forza di riserva nelle mansioni più umili dell’industria e degli altri settori. Il lavoro dipendente viene, infatti, più spesso prestato in condizioni difficili e in mancanza di percorsi di avanzamento a causa di una serie di handicap (competenza linguistica, riconoscimento del titolo di studio, discriminazioni) o in situazioni di estrema precarietà. Non è peraltro infrequente che gli immigrati si accollino, in qualità di lavoratori autonomi, i rischi d’impresa quando non riescono ad ottenere una regolare assunzione. È possibile rintracciare delle tipologie delle imprese promosse dagli immigrati, ripartite per aggregati omogenei: tipicamente etniche, fortemente caratterizzate dalle esigenze peculiari di una comunità immigrata, che pertanto hanno come scopo primario quello di fornire prodotti e servizi specifici (es. le macellerie arabe); intermediarie, che offrono servizi non tipicamente etnici, ma indirizzati specificatamente alla comunità (es. prestazioni professionali); “esotiche”, che si caratterizzano per l’offerta di prodotti etnici, ma che non si rivolgono esclusivamente a consumatori connazionali (es. esercizi di ristorazione); aperte, i cui tratti etnici sono tendenzialmente anonimi; rifugio, che occupano spazi residuali nel mercato del lavoro (es. imprese di pulizia). Le imprese degli immigrati in Italia, salvo il caso della ristorazione e quello dell’alimentazione o di altri prodotti tipici dei paesi di origine (tali possono essere ad esempio anche gli spettacoli), hanno scarse connotazioni “etniche” (o più propriamente “nazionali”) e si rivolgono essenzialmente alla clientela italiana, perché solo un mercato così ampio riesce ad essere remunerativo. Si tratta, cioè, di imprese aperte, che tendono a inserirsi e a competere sul normale mercato.

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