Dalle ultime indagini condotte sull’economia meridionale, emerge uno sviluppo cosiddetto a macchia di leopardo: a fronte di alcune aree in marcata espansione, alquanto integrate a livello internazionale, con un modello di specializzazione produttiva più orientato verso attività innovative e quality-based, vi sono contesti in profonda stagnazione e completamente avulsi da ogni processo di rinnovamento economico. Tra questi due estremi, si riscontra la presenza di una maggioranza di ambiti territoriali pigramente arroccati nella difesa di posizioni di relativo vantaggio competitivo ed il cui percorso di espansione sembra più condizionato da eventi esogeni, congiunturali o casuali, che da una intrinseca capacità propulsiva. Sorprende, ad esempio, la contraddizione che sussiste tra la recente riduzione del tasso di disoccupazione ed il permanere, a livello strutturale, di un sistema produttivo cristallizzato, ancora sbilanciato a favore di una miriade di piccole e piccolissime imprese operanti in comparti di stampo “tradizionale”, inidonee ad assicurare un tasso di crescita del Pil degno di nota.
Le principali grandezze macro-economiche. Dagli anni Ottanta e fino alla brusca interruzione nel triennio 1991-93, i tassi di espansione economica del Mezzogiorno sono stati più vivaci di quelli del Centro-Nord, sì da determinare una moderata convergenza tra le grandezze macro-economiche delle due aree del Paese. Dal 1994 ed in modo più evidente dal 1996, tale tendenza è ripresa; seppure in termini molto più modesti e con fasi altalenanti. Nel corso del 2003, quando l’economia italiana è cresciuta complessivamente solo dello 0,3% a causa del protrarsi della stagnazione internazionale iniziata nel 2001, il Mezzogiorno ha registrato un andamento del Pil pressoché analogo al Centro-Nord – rispettivamente +0,3% e +0,2% –, riducendo sensibilmente il differenziale di crescita tra le due aree emerso nel biennio 2001-2002 (+1%) come nel più ampio arco temporale 1995-2003 (+0,3%). Le dinamiche di medio periodo (1995-2003), dunque, indicano ancora nel Mezzogiorno la macroarea nazionale con la migliore performance, ma il processo di convergenza potrebbe aver perso lo slancio degli anni precedenti. Per il biennio 2004-2005, non a caso, nel quadro di progressiva ripresa della congiuntura internazionale, le previsioni ipotizzano una crescita del Pil leggermente più sostenuta per le regioni del Centro (+1,5% e +2,1%) e del Nord-Est (+1,3% e +2,1%). Il Nord-Ovest mostrerebbe i tassi di variazione più contenuti, +1,2% e +1,8%, mentre il Mezzogiorno tornerebbe a registrare un’evoluzione in linea con quella nazionale (+1,3% nel 2004 e +2% nel 2005).
Negli ultimi anni il divario tra Mezzogiorno ed il Centro-Nord si è ridotto anche in termini di Pil pro capite, passando dal 55,7% del 1995 al 58,5% del 2003; nel 2005 il Pil pro capite meridionale dovrebbe attestarsi al 58,8%. In valori correnti, nel 2003 il reddito medio per abitante ammontava, nel Mezzogiorno, a 15.600 euro, a fronte dei 26.100 euro del Centro-Nord. L’evoluzione del Pil pro capite è stata fortemente influenzata dall’interagire tra la variazione demografica (con un calo di 70.000 unità nel Mezzogiorno rispetto all’aumento di 960.000 abitanti in Italia), la convergenza nella produttività (con una riduzione di 2,4 punti percentuali dello scarto tra Sud e Centro-Nord, scesa al 14,1% nel 2003) ed i trend dell’occupazione. Nella determinazione degli attuali divari territoriali nel prodotto per abitante la scarsa capacità occupazionale del Mezzogiorno sembrerebbe incidere, in negativo, più della contrazione del differenziale di produttività.
L’andamento dei macroaggregati del Pil – consumi, investimenti ed esportazioni – del 2003 conferma tale ipotesi. Stabilizzatasi la spesa delle PPAA al 2,2% in tutto il Paese, coerentemente con la sperequazione reddituale esistente e nonostante una certa convergenza nel periodo 1996-2003, nel lungo periodo il divario tra i consumi rimane quasi inalterato con un valore medio pro capite, nel Mezzogiorno, pari al 68,3% della media del Centro-Nord. Per il 2004-2005 i consumi meridionali dovrebbero registrare un miglioramento lievemente inferiore a quello del Centro-Nord. In coerenza con la maggiore intensità del processo di accumulazione verificatasi nel periodo 1996-2003 nel Mezzogiorno (con media pari al +3,2%) rispetto al resto del Paese (+2,6%), nel 2003 gli investimenti si sono ridotti del 2,5% nel Centro-Nord e dello 0,8% nel Mezzogiorno. La differenza territoriale di performance del 2003 è in buona parte attribuibile ai risultati dell’investimento in macchine, attrezzature e mezzi da trasporto, calato del 2% nel Mezzogiorno rispetto al più vistoso 5,8% del Centro-Nord.
Andamento dell’export. Nel 2003 si è verificata una contrazione delle esportazioni che è stata più marcata al Centro-Nord (-4,1%) che non al Mezzogiorno (-3,8%) in virtù della differente diversificazione geografica che vede le aziende meridionali più proiettate in ambito extra-europeo; contesto meno colpito dalle difficoltà internazionali. L’incidenza dell’export meridionale sul totale nazionale, dunque, ha continuato ad accrescersi giungendo, dall’8,7% del 1992, al 10,7% del 2003. Per il biennio 2004-2005, peraltro, è prevista una netta ripresa delle esportazioni della macroarea con tassi stimati, rispettivamente, al 3,7% e 6,6%; i più alti a livello nazionale. Nello specifico dei comparti solitamente trainanti per l’export meridionale, va specificato che nell’ultimo decennio è mutato il peso relativo degli stessi, anche in modo sostanziale. L’incidenza dell’industria pesante (metallurgica e petrolchimica) – il settore ancora preminente –, ad esempio, è scesa dal 24% del 1992 al 19,6% del 2003; così come la quota dei beni tradizionali locali quali abbigliamento, cuoio e calzature, alimentari, mobili, minerali non metalliferi: dal 27,3% del 1992 al 24% odierno. È cresciuto, invece, sia il peso dei mezzi di trasporto – dal 15,8% del 1992 al 17,9% del 2003 – sia quello delle macchine/apparecchiature elettriche ed elettroniche nonché la meccanica strumentale: dal 5,2% al 13,2%. A considerazioni similari a quelle finora esposte si arriva anche valutando l’andamento del Pil in termini di contributo macrosettoriale. Nel 2003 il settore primario si conferma in calo (-0,5%); un lento ma progressivo arretramento che lo ha portato ad un’incidenza del 4,5% della produzione complessiva. Nonostante l’analoga dinamica degli investimenti settoriali degli ultimi anni (in diminuzione), rimangono rilevanti le differenze strutturali e di produttività con il resto del Paese; tant’è che il valore aggiunto per addetto raggiunge, nel Mezzogiorno, appena il 64% di quello del Centro-Nord. Il manifatturiero appare stazionario, con una quota del 21,4% (22,1% nel 1995), sebbene la produttività sia diminuita in modo quasi paritario in ambedue le ripartizioni (-1% al Mezzogiorno, -1,2% al Centro-Nord) a motivo delle difficoltà manifestatesi a partire dal 2001; anno di inversione del ciclo economico internazionale. In termini assoluti la produttività del lavoro nell’industria meridionale rimane praticamente immutata e pari all’84,1% di quella centro-settentrionale. Il sistema industriale meridionale, dalla metà degli anni Novanta, si mostra cristallizzato sulle produzioni tradizionali del made in Italy a bassa intensità tecnologica. Oltre alla fabbricazione di componenti meccaniche e di mezzi di trasporto (19,7%), branca preminente per tutta l’economia nazionale (al Centro-Nord raggiunge il 23,4%), l’output manifatturiero complessivo è dovuto in buona parte ai settori alimentare (14,5%), dei metalli e prodotti in metallo (9,9%), del legno e della gomma (9,5%), di trasformazione e raffinazione dei carbon fossili e del petrolio (9,3%), del tessile-abbigliamento e delle pelli, cuoio e calzature (7,7%). Paradossalmente, peraltro, i dati disaggregati per ramo produttivo mostrano che l’incremento complessivo del valore aggiunto industriale nell’ottennio 1997-2003, pari all’11% (1,4% al Centro-Nord), è riconducibile per il 60% proprio al comparto delle produzioni tradizionali (alimentari e bevande, prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi, legno, gomma, plastica e altre manifatture) e per il 25% alla meccanica. Nello stesso periodo, tra i comparti cosiddetti maturi, solo il settore tessile e dell’abbigliamento, altro settore di punta delle produzioni tipiche locali, registra una diminuzione dell’incidenza dello 0,3%.
Presenze turistiche. Una performance relativamente migliore del Mezzogiorno emerge, invece, dai dati sulle presenze turistiche; con un incremento annuale (il decimo consecutivo) dell’1%, a fronte di una riduzione dell’1,6% al Centro-Nord, che gli consente di raggiungere il 20,7% del totale nazionale. Tale aumento, tuttavia, non appare ancora sufficiente per contrastare la debolezza del richiamo turistico delle regioni del Sud rispetto alla dotazione potenziale di attrattive territoriali. Escluse Sicilia e Campania, peraltro, l’attività turistica meridionale continua ad essere imperniata sulle presenze nazionali (72,4% del totale). Tra le singole regioni, pur registrando una contrazione del 3,1%, la Campania mantiene saldamente la leadership con una quota sulla domanda turistica complessiva del Mezzogiorno pari al 27% (ma con il 41% delle presenze straniere). Un contenuto dinamismo locale si riscontra anche nell’aumento delle strutture alberghiere (+2,3%), superiore a quello del Centro-Nord; la differenza di ricettività tra le due ripartizioni rimane comunque notevole: soltanto il 17,2% degli alberghi nazionali e il 5,8% delle strutture complementari è localizzato al Sud.
L’occupazione. Secondo le rilevazioni Istat, nel periodo 1995-2002 il numero degli occupati complessivi del Mezzogiorno è aumentato dell’8,5% (9,2% in Italia). Nel solo 2003, invece, dopo un triennio 2000-2002 di crescita sostenuta (+2% annuo medio), l’occupazione meridionale è migliorata solo dello 0,2% (1,4% nel Centro-Nord), corrispondente a 11.000 unità. La componente “atipica” è diminuita di 35.000 unità mentre quella tipica ne ha guadagnate circa 47.000. L’espansione va attribuita esclusivamente al terziario che, beneficiando di una ricaduta occupazionale stimata in 19.000 unità (+0,4% su base annua), dopo una più brillante performance nel 2002 (+2,2%), ha compensato i cali degli altri settori; come già accennato, si tratta di unità assorbite prevalentemente dal commercio e dall’intermediazione finanziaria che, come tali, non hanno di per sé una valenza positiva per il futuro. Coerentemente con la contrazione osservata sul piano produttivo, il primario ha perso il 3,2%, il manifatturiero in senso stretto ha registrato un rallentamento dell’1,3% (12.000 occupati), mentre il settore delle costruzioni è risultato in lieve aumento (+0,4%). Il tasso di occupazione nel Mezzogiorno, dunque, è rimasto sostanzialmente ancorato al 44,1%, corrispondente a 6.203.000 occupati; valore ancora sensibilmente inferiore rispetto alla media nazionale del 56%. Un gap ancora maggiore distanzia i tassi di occupazione femminile delle due aree: 27,1% al meridione e 42,7% al Centro-Nord. È importante sottolineare, ad ogni modo, che nel novembre 2004 l’Istat ha diffuso altri dati riferiti al 2003 computati con un nuovo metodo di indagine (la Rilevazione Continua delle Forze di Lavoro). Le nuove risultanze evidenziano, piuttosto che il lieve citato aumento dello 0,2%, un calo dell’occupazione dello 0,4%, pari a 26.000 unità. Tali dati rafforzano le perplessità sulle metodologie di indagine complessivamente utilizzate nonché sulla stessa interpretazione dei risultati. In controtendenza rispetto a questo quadro di staticità si pone il dato relativo al calo della disoccupazione dal 18,3% del 2002 al 17,7% del 2003. Rispetto al Centro-Nord, rimane particolarmente elevato il tasso di disoccupazione giovanile, che raggiunge punte di oltre il 49%, così come va osservato che molte delle persone senza impiego (67,2%) sono cosiddetti disoccupati di lunga durata; a testimonianza della costante emorragia di posti proveniente dal sistema industriale locale non sufficientemente compensata dall’espansione del terziario. La riduzione complessiva della disoccupazione registrata dalle statistiche appare difficilmente conciliabile tanto con gli altri valori della disoccupazione (come anche con un’occupazione stagnante) quanto e specialmente con un Pil sostanzialmente statico. Tale anomalia, difatti, viene ad essere in gran parte spiegata con la contrazione del numero di persone in cerca di occupazione, pari a 51.000 unita in meno (-3,7% sul 2002), che riduce la significatività del miglioramento osservato. Questa riduzione è la risultante di tre aspetti connessi: i fenomeni migratori, un effetto psicologico “da scoraggiamento” che ha depresso la disponibilità a lavorare, l’estensione dell’obbligo scolastico (ovvero la partecipazione a corsi formativi post-diploma e post-laurea) ed il citato aumento del numero degli occupati. Per il prossimo biennio, peraltro, poiché il tasso di occupazione potrebbe beneficiare della plausibile ma non affatto certa ripresa dell’attività economica del 2004 mostrando una dinamica (+0,9%) superiore alla media nazionale, il tasso di disoccupazione dovrebbe contrarsi ulteriormente scendendo al 17,2% nel 2004 ed al 16,8% nel 2005 (4,6% e 4,4% al Centro-Nord).
Gli andamenti disaggregati. Milano è la provincia italiana con il più alto livello di valore aggiunto pro capite (v.a.p.c.), con un indice pari al 150,9% della media nazionale, circa il triplo di Crotone, ultima classificata con il 56,9%. Le dieci province italiane col peggiore risultato sono tutte meridionali; oltre Crotone, infatti, vi sono Enna, Cosenza, Lecce, Foggia, Agrigento, Caltanissetta, Palermo, Vibo Valentia e Napoli (quest’ultima al 64,2%). Tenendo conto della rilevante consistenza demografica di alcune delle province citate, non può che risaltare la disomogenea distribuzione della ricchezza nazionale, con una sperequazione di fatto ben maggiore di quanto emerga dal confronto dei valori medi tra macroaree.
Tale minore reattività rispetto al ciclo economico trova conferma anche nel basso grado di apertura al commercio estero: tra le ultime 10 province nazionali ordinate in base all’export per addetto, cinque rientrano tra le più povere in termini di v.a.p.c. (Crotone, Cosenza, Enna, Foggia, Palermo). All’opposto, tra le prime dieci province meridionali con un maggiore v.a.p.c., nell’ordine Isernia, Pescara, Teramo, Chieti, Sassari, L’Aquila, Cagliari, Oristano, Ragusa e Campobasso, alcune risultano, le più reattive anche a livello di commercio internazionale. Non di rado, in effetti, è proprio il dinamismo internazionale a costituire la chiave di volta per una più rapida espansione economica. Sempre al riguardo delle performance esportative, va evidenziato che gli ottimi risultati ottenuti nell’arco temporale 1985-2003 da Potenza, Teramo e L’Aquila hanno consentito alle suddette di entrare nella top ten delle province meridionali esportatrici in assoluto, ai danni di Lecce, Catania e Foggia, scavalcando province ben più popolose. Parimenti, Chieti, già al sesto posto nel 1985 con una quota del 4,9% del totale del Mezzogiorno, si è posizionata al terzo posto portandosi ben al 10,6%. Mentre la quota complessiva di Bari e Salerno sale dal 7% al 10,9 e dal 3,5% al 5,5%, quella di Napoli si riduce dal 16,1% al 13,8%. Un vero e proprio crollo è subito da Siracusa, (che vede più che dimezzata la sua incidenza) e da Cagliari (dalla terza col 10,4% alla quinta posizione col 6,9%). Si evince anche che il peso complessivo delle prime dieci province è diminuito dal 79,7% del 1985 al 72,4% del 2003, attestando l’emergere di nuove realtà territoriali che hanno saputo imporsi all’attenzione internazionale più delle precedenti legate, in particolare, all’attività siderurgica e petrolifera (Siracusa, Napoli, Taranto).