Nel periodo 1998-2002 l’indice della produzione industriale in Italia si è attestato su una media di 105,6 con una variazione dell’1%, passando da un volume di 104 nel 1998 ad un picco di 108 nel 2000 per poi calare a 105 nel corso del 2002. Guardando al contesto europeo, l’indice della produzione industriale mostra con chiarezza la posizione dell’industria italiana tra i fanalini di coda, assieme al Regno Unito (-3%), in termini di volumi prodotti. In particolare spicca la posizione dell’Irlanda che in soli cinque anni ha quasi raddoppiato i volumi produttivi (+88%) grazie ad una serie di politiche di sviluppo che hanno sfruttato il volano costituito dai fondi comunitari per costruire una rete di servizi e infrastrutture ad alto livello, che hanno rappresentato una forte attrattiva per imprese piccole e grandi. Da evidenziare anche la performance della Finlandia che ha fatto dell’alta tecnologia il suo punto focale fino a raggiungere livelli di crescita della produzione industriale del 24% in cinque anni. Ci sono poi una serie di paesi che si trovano oltre il 10% di crescita della produzione industriale (Austria 19%, Grecia 14%, Lussemburgo e Danimarca 11%). Un gruppo di paesi si trova in un intervallo tra il 5 e l’8% di crescita della produzione industriale (Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia), il che dimostra che le difficoltà nel settore industriale esistono in molti paesi europei, ma un livello di crescita quinquennale dell’1% quale è quello dell’industria italiana mostra come, più che di difficoltà, in Italia si dovrebbe parlare di crisi profonda.
La posizione marginale che assume l’industria italiana nel contesto dell’Europa comunitaria è lo specchio di una crisi non definitivamente risolta del sistema industriale italiano che è sostanzialmente diviso in tre tronconi: la grande industria, i distretti industriali e i sistemi di sviluppo locale. Ciascuna di queste realtà produttive assume caratteri di crisi anche se con intensità e modalità diverse. Le grandi industrie sono di fronte ad una scelta tra la de-localizzazione, preceduta da un processo di terziarizzazione (outsourcing per usare un vocabolo anglosassone), e ri-polarizzazione territoriale (con largo uso del marketing territoriale). I distretti industriali si stanno lentamente disgregando a causa della de-localizzazione nei paesi dell’Est europeo degli impianti produttivi (si pensi al settore del tessile o delle calzature). I sistemi di sviluppo locale, scaturiti da una maturazione dei distretti industriali, sono gli unici a tenere il passo fondandosi non solo su fenomeni macro economici, ma anche su una vasta gamma di processi piccoli e piccolissimi sino alle micro politiche locali.
Il Pil non cresce. Che il sistema italiano sia in crisi è dimostrato anche dai dati della crescita del Prodotto interno lordo. La ricchezza prodotta dal sistema Italia si è andata riducendo nel 2002 e nel 2003 a livelli inferiori allo 0,5%. Le previsioni in rialzo per l’anno 2004 rispetto al 2003 non migliorano di molto una situazione, molto al di sotto della media calcolata dal 1994 al 2003 (1,7%) e ancor più al di sotto della media della Ue a 15 paesi che si attesta al 2,2%.
La crisi dell’industria italiana si inserisce dunque in una crisi più profonda del sistema economico italiano che negli ultimi anni ha principalmente consumato ricchezza senza produrre innovazione ed ora si trova a fare i conti con una situazione economica generale a dir poco preoccupante.
Il panorama produttivo italiano soffre di una crisi che, in modi e tempi diversi, ha attraversato tutti i paesi europei, ma che in Italia non sembra conoscere una sostanziale battuta d’arresto. A dimostrazione di ciò è emblematico l’andamento del tasso di valore aggiunto relativo all’industria e, in particolare, al settore manifatturiero che passa da un livello del 29,46% del 1980 ad un valore del 19,72% del 2002.
Indicatori economici dell’industria. I principali indicatori economici relativi all’industria sono il livello di produzione, la quantità di ordinativi e il fatturato.
Il primo indicatore rappresentato dalla produzione industriale non mostra sostanziali cambiamenti di tendenza, ma al contrario viene confermato un trend analogo a quello degli anni scorsi. Dall’analisi degli indici della produzione per destinazione economica dal 2000 (pari a 100) al 2004 (stime fino ad ottobre 2004) emerge che nel caso dei beni di consumo non ci sono variazioni rispetto all’anno precedente con una diminuzione del 2,4% rispetto al 2000. Per i beni strumentali la produzione continua nel suo trend negativo (ormai di medio-lungo periodo) riducendosi di ben 6,9 punti percentuali rispetto al 2000. I beni intermedi vedono un cambiamento di tendenza rispetto all’anno precedente con una variazione positiva dello 0,7% rispetto al 2003, ma con una riduzione del 4,9% rispetto al 2000. Soltanto la produzione di energia conferma un trend in crescita da attribuire però principalmente ad un aumento dei consumi finali che ad un’intensificazione d’uso del processo produttivo. Analizzando più in particolare i vari settori industriali in ordine decrescente nella produzione del 2004 (stime sino ad ottobre 2004): emerge che i settori in crescita sono quello della produzione di energia, quello della produzione di carta, della stampa e dell’editoria, dei prodotti petroliferi e del legno.
In un clima generale di stagnazione con variazioni minime rispetto all’anno precedente spiccano con evidenza i quattro fanalini di coda che sono i settori del tessile (-10,7% rispetto al 2000); quello della produzione dei mezzi di trasporto che pur mantenendo gli stessi livelli dell’anno passato rimane con una riduzione del 14,2% rispetto al 2000; la produzione di macchine elettriche e apparecchi di precisione (-22,7%); e infine il settore più colpito da una crisi della produzione è quello del cuoio, delle pelli e delle calzature che si riduce del 25,1% rispetto al 2000. La crisi investe maggiormente i settori caratterizzati da produzioni a basso valore aggiunto che subiscono la concorrenza dei paesi dell’Est europeo, capaci di fornire lo stesso tipo di prodotto a prezzi più competitivi e dove le stesse aziende italiane vanno a de-localizzare l’attività di produzione. D’altra parte anche le imprese che producono beni ad alto valore aggiunto (come i mezzi di trasporto) soffrono di una scarsa capacità di innovazione e di espansione al di fuori del mercato nazionale.
Anche per il secondo indicatore, quello l’andamento degli ordinativi, si assiste, sempre nel periodo 2000-2004, ad una netta diminuzione rispetto al 2000; solo i prodotti in legno vedono una crescita degli ordinativi che supera il 10% (11,8% rispetto al 2000), seguiti dei prodotti in metallo con un incremento degli ordinativi pari a +8,1%. Il settore dell’industria chimica e delle fibre sintetiche ha un lieve incremento degli ordinativi dell’1,9%, mentre il tessile si mantiene sui livelli del 2000 con una variazione di appena 0,6 punti percentuali. Di contro, tutti gli altri settori registrano una riduzione degli ordinativi; oltre al -15,6% rispetto al 2000 del settore della pelle, cuoio e calzature, colpiscono ancora di più i settori degli apparecchi elettrici e di precisione e dei mezzi di trasporto che con una riduzione rispettivamente di -20,7% e di -22,6% rispetto al 2000 mettono in piena luce le gravi difficoltà che colpiscono l’industria italiana, data la posizione strategica di tali settori nello sviluppo e nella competitività di un paese.
Per quanto concerne il terzo indicatore costituito dal fatturato, si assiste ad una forte impennata dei fatturati nell’industria estrattiva (+78,6%). In generale si evidenzia un progressivo arretramento verso il settore primario e una lieve ripresa del fatturato nei settori ad alto valore aggiunto che tuttavia non sono in grado di costituire un punto di riferimento per l’industria italiana. I settori più in difficoltà sono quelli del cuoio, pelle e calzature e delle macchine elettriche con una variazione percentuale dal 2000 al 2004 intorno al -10% (rispettivamente -9,7 e -12%). Vanno male anche il tessile e l’abbigliamento e le altre industrie manifatturiere con un fatturato che rispetto al 2000 si riduce rispettivamente di 4,8 e 6,4 punti percentuale.
L’occupazione nell’industria, un indicatore territoriale delle dinamiche dell’industria italiana. Quello dell’occupazione è un indicatore che ben rappresenta a livello territoriale le dinamiche dell’industria, in questo senso il sistema italiano appare nel complesso caratterizzato da una crescita molto limitata dell’occupazione in tale settore, che riflette le gravi difficoltà dell’attuale fase che potremmo definire di transizione verso una organizzazione territoriale e non più solo aziendale (e quindi puntuale) della produzione. Ciò che appare subito evidente è il calo generalizzato degli addetti nel settore industriale in tutto il Nord (-48.491 addetti) con una brusca diminuzione nel Nord-Ovest (-55.441 addetti) e una variazione positiva ma praticamente irrisoria di addetti nel Nord-Est (+6.950). La situazione nel Centro Italia rimane immutata rispetto al luglio del 2000, mentre al Sud si registra un incremento degli addetti di ben 108.794 unità. I dati regionali sono ancora più significativi con una riduzione degli occupati nel settore industriale in quasi tutte le regioni con particolare gravità in Piemonte (-31,687 addetti) e in Liguria (-23,745 addetti) oltre che in Emilia Romagna (-16,942) e in Toscana (-14,111). Le regioni con un maggiore incremento dell’occupazione nell’industria sono la Campania che registra anche un forte incremento degli occupati sia nell’industria sia in generale (+44,309 per l’industria e +225,617 nel complesso) e la Sardegna (+30,853 addetti). Tra le regioni del Centro il Lazio è quella con il maggior incremento di occupati nel settore industriale (+11,962). Ancora più significativa è la variazione relativa che indica la percentuale degli addetti nell’industria rispetto al totale degli addetti nei vari settori nell’intervallo di tempo che va dal luglio del 2000 al luglio del 2004. Questo indicatore assume valori negativi in tutte le macro regioni e solo in pochi casi assume valori positivi: Valle d’Aosta (+4,4%), Molise (+2,6%), Sardegna (+2,3%), Friuli Venezia Giulia (+0,6%), Calabria (+0,4%) e Puglia (+0,3%), mentre le regioni con una maggiore riduzione proporzionale degli addetti nel settore industriale sono la Liguria (-3,5%), le Marche (-2,4%), la Lombardia (-2,3%) e la Basilicata (-2,3%).
Declinismo o declino? Appare evidente che, parlando dell’industria italiana, si deve affrontare il problema del declino. Le diverse strutture produttive che caratterizzano il territorio (grande impresa, distretti industriali e sistemi di sviluppo locale) non riescono ad uscire da una crisi che non è più riconducibile ad un numero limitato di settori, ma può essere definita di sistema.
Solo nel caso dei sistemi produttivi locali si riesce a sostenere la pressione della concorrenza, ma ciò non è sufficiente a dare uno slancio che permetta di superare le difficoltà ambientali che si sono sviluppate in Italia nel corso degli anni.
La ripartizione dei vari sistemi di organizzazione dell’industria italiana e le dinamiche evolutive degli indicatori presi in esame mostrano come il ritorno ad una struttura produttiva fondata su un ruolo centrale della grande industria non è più proponibile.
Quelle dell’efficienza e della competitività e dell’innovazione sono le sfide che l’industria italiana deve affrontare. Sfide che non possono essere vinte impostando politiche industriali basate sulla sola leva del prezzo, vista la forte concorrenza che in tal senso proviene dai mercati orientali e dell’Est europeo. La costituzione di network locali ed internazionali è una delle possibili vie per una ripresa del settore industriale in Italia. Le zone del Centro Italia si muovono verso la creazione di reti basate sulla realtà territoriale che ne costituisce l’ossatura sia in termini di vocazioni produttive, sia in termini di implementazione del network.
In questo contesto le istituzioni locali assumono un ruolo di elemento chiave nella definizione di un processo innovativo di crescita che non prescinda dalle specificità territoriali e che ponga attenzione all’innovazione sia dei processi, sia dei prodotti.
In merito all’innovazione assume una rilevanza strategica la ricerca scientifica e tecnologica che dovrebbe essere maggiormente valorizzata sia dalle istituzioni nazionali e locali, sia dalle stesse imprese che tendono invece a dare alla ricerca un ruolo marginale nella definizione di una nuova strategia di sviluppo.