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Senza lamenti, senza lacrime…

Quando nel 1999 il Consiglio Regionale di Basilicata patrocinò il concorso letterario ?Storie di donne lucane?, a vincere il primo premio per la sezione ?Paesi extraeuropei? fu il lungo e intenso racconto di Maria Rosa Atella Vignola, ?La storia di Rosina?. Il racconto più che un testo letterario è una testimonianza appassionata e fedele che registra la storia di una famiglia lucana costretta, come tante altre famiglie, a cercare un futuro migliore al di là dell?Atlantico. Se è vero che le storie di emigrazione si somigliano un po? tutte, è anche vero che ognuna di esse ha qualcosa di unico e prezioso; e il racconto della Atella Vignola ha di ?speciale? tutto il fascino delle storie raccontate dai nostri vecchi, cristallizzando fisionomie e parole di uomini e donne il cui mondo è scomparso per sempre.

La narrazione fluttua, in un gioco di flashback e di rimandi, tra la Lucania e l?Uruguay, ed ha il suo baricentro ideale in un momento preciso: è il primo agosto del 1937, quando la nave Neptunia attracca nel porto di Montevideo e una giovane donna, Rosina, e la sua bambina di cinque anni, si ricongiungono dopo un lungo viaggio in terza classe a Luigi, che per cinque anni non ha fatto altro che lavorare e risparmiare per poter rivedere la moglie e la figlia. E? l?inizio di una nuova vita in uno ?strano paese?, un Paese dove ad agosto fa freddo come se fosse Natale, dove non esistono le montagne come a Satriano di Lucania e non si balla la tarantella ma il tango. Un paese in cui guardando il cielo Rosina non riconosce le stelle, come non riconosce ?l?aria salata della costa, né il vento di mare, né il vento di terra, né la Croce del Sud di quelle notti nuove. Non riconosce la lingua, i cibi, la musica, ?il cemento delle strade della capitale, così larghe e diverse dalle stradine di pietra di Satriano?.

Agli inizi semplice operaio edile, Luigi ha messo su piano piano una piccola impresa, e vuole assicurare ai suoi un futuro sereno. E? questa la ricompensa per ?il dolore, lo spaesamento, la vita aspra, il pane amaro?. Luigi, che quando era operaio ha studiato di notte per diventare aiuto architetto, sa che la cultura è importante e legge ad alta voce per la famiglia tutte le sere non solo la Bibbia ma anche Cervantes, Leopardi, Carducci, D?Annunzio, De Amicis. Perché nessuno di quelli che vivono accanto a lui debba vergognarsi di essere analfabeta chiede alla figlia di otto anni, Maria, di insegnare a leggere e a scrivere ai suoi operai la sera dopo il lavoro, mentre Rosina cucina per tutti, anche per questi uomini stanchi e soli. I piatti del suo paese, le nocche, la pizza chiena, gli spaghetti all?alice e l?aglio per aspettare Gesù Bambino senza mangiare carne, sono molto apprezzati e Rosina apre un ristorante, ?La Campesina?, in cui gli uruguayani scoprono i sapori della sua terra.

Il legame con l?Italia è forte. Si scrive ai fratelli in Italia e a quelli negli Stati Uniti. Lo scambio epistolare diventa a volte ?un dolore molto grande che arrivava dentro buste bianche con le sbarre nere, ad annunciare la morte? ma più spesso è il mezzo per sentirsi uniti, per far sentire il proprio affetto nonostante la distanza. Quando scoppia la guerra in Europa, e ancora di più nel primo dopoguerra, si moltiplicano i pacchi di calze, giacche, magliette, guanti lavorati a maglia, salumi, zucchero, riso, caffè per i parenti in Italia, perché sappiano che non sono soli. C?è anche, come in tutti gli emigranti, il desiderio di rivedere il paese, di ritornare. E Rosina tornerà, dopo la morte di Luigi, per riabbracciare i fratelli e i nipoti, per salire sulla torre di Satriano e pregare presso il piccolo altare della Madonna delle Grazie?

La bellezza del racconto prescinde dal suo valore letterario: ciò che lo rende prezioso, al di là del tributo di affetto e riconoscenza versi i propri cari ?per quel lamento o quella lacrima che non abbiamo mai sentito né visto?, è il suo valore paradigmatico. La storia di una famiglia lucana diventa la storia di tante famiglie. I sogni e i sacrifici di uno rappresentano i sacrifici di tutti, dei tanti lucani emigrati che in quelle parole e in quei sentimenti ritrovano qualcosa di sé e della propria vita.