Una terra che è stata teatro di guerre, uccisioni e sottomissioni. Che mai ha partecipato agli eventi della storia, anche quella più remota. Un popolo -? i contadini del sud?- che ha l?unica sua difesa nella rassegnazione. Nel cedere al fatalismo, piegarsi alle forze ultraterrene. Questo stesso popolo, mai domo nel riproporre i valori della speranza, oggi prova ad alzare la testa per rivendicare dignità e valore: ma si trova ancora una volta contro lo Stato. Quello stesso Stato che per oltre 50 anni dalla Carta Costituzionale, in ogni tornata elettorale scende lungo il ?tacco? come estraneo mietendo voti in cambio di vuote e fantastiche promesse, definendo il sud un patrimonio per il paese. Una ricchezza che già servì ai piemontesi per risanare le casse sabaude, poi al dittatore Mussolini, che per arginare la richiesta di fame della soverchiante popolazione, se ne servì per la guerra d?Africa, e infine la Repubblica se ne servì per avviare l?industrializzazione al nord.
Un popolo, i contadini del sud, che curvati sotto i mali ?magici? della natura oggi come allora è sottoposto ad accettare condizioni di lavoro oppressive per frenare lo spopolamento dei propri luoghi e salire la scala sociale da proletario rurale a proletario operaio, in virtù di un posto sicuro e un reddito non precario legato alle bizze degli eventi naturali.
Un profondo sud che l?ingiustizia della storia e i meccanismi del potere hanno stritolato servendosi oggi come allora della sua forza lavoro: ieri per il triangolo industriale Torino Genova Milano, ed oggi per la piana dell?Ofanto spogliandola di dignità e valore per permettere alla consacrata ?fabbrica? d?essere competitiva e concorrenziale sui mercati internazionali. Cosa che sa fare molto meglio l?India, il Brasile, la Romania e la Cina dove la paga è bassissima. Potremmo mai noi occidentali competere con queste realtà comprimendo i salari acutizzando le condizioni di lavoro ed esasperando il controllo (9.000 sanzione in tre anni)?
Forse Cristo rinasce e riparte da Melfi dopo essersi fermato e arreso ad Eboli. Una popolazione innocente costretta, per la logica del profitto, in condizioni d?indigenza si affaccia adesso alla storia vincendo la soggezione politica e subito si ritrova a fronteggiare, oltre alle forze naturali, le forze istituzionali di uno Stato che per oltre un cinquantennio è stato ricercato e paternalistico, che mostra i muscoli anziché la disponibilità ad ascoltare chi in tutti questi anni non ha mai alzato la voce. E? inammissibile che dinanzi ad incontestabili responsabilità politiche si vuole ricacciare questi lavoratori operai nel silenzio e nella sudditanza con misure che non vogliono distinguere il progresso civile dallo sfruttamento. Cosa sono le condizioni di lavoro, la contrattazione sindacale peggiorativa del salario lavorato se non forme moderne di sfruttamento e degradazione della dignità e del valore della persona? E? paradigmatico il fatto che già nel lontano – non nella memoria – 23 maggio 1969 le forze di polizia dispersero gli occupanti dei pozzi metaniferi che in cambio di metano chiedevano occupazione. E che mentre tutto il gas veniva convogliato a Taranto a Manfredonia e a Napoli nessun indennizzo fu dato alle genti dei 6 paesi dauni meridionali.
Così il 26 aprile scorso, di fronte ad una sacrosanta rivendicazione di diritto di cittadinanza che possa alleviare le stimmate di un lavoro durissimo e niente affatto remunerativo, le forze militari della Repubblica Democratica Italiana, che non arrivarono agli scontri con gli scioperanti autoferrotranviari di Milano, spronati dal centurione sottosegretario, a Melfi si dispongono in assetto antisommossa, con scudi e manganelli, appiccando il fuoco sul Basento.
L?esortazione scritta sui muri dei cancelli della SATA ? riprendiamoci la vita e salario?, speriamo si traduca in garanzie non negoziabili e in una comune cultura dei diritti.