Pubblichiamo di seguito la seconda parte di uno studio condotto da Angelo Armentano sul Clientelismo in Basilicata
“Conservazione del potere e privilegio nella Basilicata del XIX sec.”
Seconda Parte. La mentalità settaria e di conservazione della casta era diffusa anche tra quanti, anziché trasferirsi a Napoli, decisero di restare. I medici e gli avvocati rimasti in Lucania raramente si univano in matrimonio con gente del popolo: anzi, in alcune zone della regione, alcune famiglie si estinsero o rimasero afflitte dalle tare genetiche derivanti dalle unioni tra cugini di primo e secondo grado.
L’appartenenza a circoli riservati o alla massoneria era d’obbligo (congreghe massoniche erano presenti soprattutto a Brienza, Potenza e Ruoti e con l’incombere delle truppe garibaldine fece capolino l’ideale unitario). Nel corso di queste riunioni venivano prese decisioni che avrebbero interessato le vite di interi paesi, ma che avrebbero portato effettivo beneficio solo ai partecipanti.
Essendo distanti dagli splendori napoletani, ne subirono l’influenza politica in misura inferiore e pur proclamandosi borbonici, essi non avevano quel grado di coinvolgimento intimo e convinto che era garanzia di fedeltà assoluta.
Questo contesto sembra quindi spiegare l’adesione massiccia agli ideali unitari da parte di molti esponenti di queste due famose categorie professionali.
Nella maggior parte dei casi non avevano coinvolgimenti ufficiali e documentati nella pubblica amministrazione (infatti, i governatori, uomini di esperienza e di provata fede, erano scelti direttamente da Napoli) e quindi poterono con facilità e senza troppi rimpianti dimostrare la loro estraneità al vecchio regime e giurare fedeltà al nuovo, soddisfacendo le velleità, mai sopite, di potere e controllo diretto della cosa pubblica.
Se prima medici ed avvocati avevano partecipato alla gestione del potere in modo sotterraneo, con la loro influenza sul popolo e con le conoscenze altolocate, ora lo facevano ufficialmente, godendo nuovi privilegi che si sommavano ai vecchi e dando soddisfazione alle proprie aspettative politiche.
In concreto la vita del popolo non migliorò, anzi, il regno dei Savoia si rivelò deciso a far pagare al sud il prezzo di una liberazione che esso non solo non aveva chiesto, ma che soprattutto non capiva.
La gente comune, nella sua semplicità e forse nella sua ottusità, non avrebbe mai potuto amare un re che gli imponeva tasse odiose e che non parlava neppure la lingua ufficiale del paese che governava (come è noto i Savoia usavano il francese).
Da questa tensione nacquero i fenomeni del brigantaggio e delle rivolte popolari (sul quale preferiamo non dilungarci).
A loro volta, queste manifestazioni violente di dissenso favorirono l’emersione di un terzo elemento sociale, destinato ad affiancarsi ai due preesistenti: quello degli ecclesiastici.
Ad onor del vero bisogna dire che la chiesa aveva sempre svolto un ruolo di primaria importanza nell’assetto dello stato borbonico, anche a livello locale: vescovi e preti avevano contribuito moltissimo al mantenimento dello status quo; ma è proprio con la nuova situazione politica nazionale che la figura dell’ecclesiastico si cristallizza, anche nell’immaginario collettivo, come il detentore di un potere temporale inserito in un quadro organico e strutturato.