NEMOLI – Nella sede dell’Aspic (Associazione per lo Sviluppo Psicologico dell’Individuo e della Comunità) locale si sono svolti quattro incontri serali che hanno visto la partecipazione di un gruppo nutrito di giovani d’età compresa dai 15 ai 25 anni. La conduttrice e mediatrice dell’iniziativa è stata la Psico-pedagogista Patrizia Manes, unitamente alla collaborazione di Maria Fittipaldi e Nicoletta Messuti, entrambe educatrici professionali. Incontri che hanno creato i presupposti per poter far nascere in un futuro un progetto comune che coinvolga anche le istituzioni, legittimando di fatto uno spazio in cui i giovani possano conoscersi e confrontarsi.
Quanto segue è una riflessione personale maturata da una mia partecipazione diretta. All’inizio non volevo parteciparvi, davo per scontato che la tematica e la finalità di questi incontri non avrebbero coinvolto vivamente i diretti interessati. Pensavo, superficialmente che la novità in quanto tale li avrebbe attratti, com’ è successo con il sottoscritto, ma dopo non sarebbe rimasto nulla. Solo un ricordo destinato a sbiadirsi nelle menti, un nuovo metodo per interrogare un’anima ancora giovane e in fermento destinato a rimanere incompreso nelle nostre piccole realtà così intensamente concatenate intorno a dei legami familiari e amicali. Ma ho ben presto cambiato idea allorquando, sotto l’effetto di una curiosità perturbante che non potevo fare a meno di espiare, la negatività del mio scetticismo ha incontrato la positività di chi crede fermamente in questo progetto.
Al primo incontro ero riluttante nel partecipare in tutto e per tutto, volevo soltanto osservare e cercare di capire quanto più possibile, ma ho realizzato immediatamente che per capire davvero dovevo farvi parte integralmente, eliminare di fatto qualsiasi dubbio che nasce dalla freddezza del distacco. Ho così abbandonato l’incertezza dell’azione tipica di un inutile compromesso e ho partecipato attivamente. A prenderci per mano sono state delle semplici note di una canzone che ha riunito i nostri pensieri predisponendoli all’incontro, la leggerezza delle sue parole ripetute in scansioni che sembravano echi di una memoria che ritorna per confortarci o per svelarci la poesia del tempo, ha eliminato le invisibili barriere di una sottile diffidenza. Abbiamo incominciato con una presentazione all’insegna dell’informalità, come era logico presupporre, poi ci hanno consegnato un foglio bianco e una matita, lì dovevamo rappresentare in via del tutto personale il nostro nome. L’ incipiente semplicità mi ha sorpreso. Si è ripetuta divenendo vero e proprio metodo. Un metodo efficace poiché ha consentito anche una timida esplorazione del nostro vissuto.
Da qui ha incominciato ad esserci il confronto, il capire l’altro o immedesimarsi nell’altro. Quello che avevamo dentro è incominciato ad affiorare grazie al sottile richiamo di una sincerità che ha trovato il suo humus ideale. Tutto era gioco o non lo era, dipendeva da cosa ci suscitassero dei semplici disegni che si formavano con la complicità della nostra anima. Spesso veniva fuori da essi quello che ci apparteneva: le passioni, gli stati d’animo, gli oggetti a noi cari, i sogni. In una parola la vita che prendeva le forme più variegate rivelando quello che siamo. Non ho tardato a capire che ognuno di noi, pur non volendo, non poteva fare a meno di identificarsi con le poche parole, con i pochi segni lasciati dai nostri cuori. Forse anche il silenzio è stato rivelatore di qualcosa che giustamente vuole sfuggire alla comprensione del gruppo. Rimane il fatto che quei ragazzi che hanno portato a termine l’esperienza conserveranno dentro di loro questi incontri e li ricorderanno come dei passi che portano verso dimensioni conoscitive: introspettiva e collettiva. Personalmente ho capito cosa può nascere da un confronto “guidato“: tracce, sia pure impercettibili e visibili solo a pochi, restano delle tracce.
La semplicità con cui sono nate non deve ingannare, esse partono da una superficie che sembra rivelare la quotidianità, la consuetudine che tende a banalizzare l’individuo, ma in esse c’è una profondità che svela solo in parte la vitalità dei giovani che non può rimanere isolata o mal compresa, preda di alcuni artificiali simboli che insieme all’iniziale bagliore portano il freddo dell’inutilità. Subire i continui e ossessivi messaggi, di un mondo virtuale, inneggianti a una felicità sempre più in vitro. C’è da dire, inoltre, che questa lodevole iniziativa sociale non può e non deve colmare le moderne deficienze educative (scuola e famiglia a pari demerito) né tanto meno istituire processi formativi. Dopo aver partecipato ai suddetti incontri sento di affermare con tutta sincerità che essi sono di una validità sociale indiscutibile. Essi sono svincolati da qualsiasi condizione inerente al luogo o all’ attività. I ragazzi tessono una conoscenza che va al di là dell’interesse comune, anzi, trova fondamento proprio in quelle diversità che nella società li tendono ad allontanare. Guardano dentro di sé con occhi sereni e con l’aiuto delle educatrici, che non li forzano mai ad andare oltre quello che già hanno rivelato agli altri. Si delineano le personalità, le attitudini, s’intravede la creatività che trova sbocco nella propria identificazione, accresce la voglia di sapere come ci vedono gli altri e quello che abbiamo realmente dentro. L’allegria di un gioco ci spinge a liberare in noi un po’ d’infantilità e ci ritroviamo uniti e uguali nel dividerci un sorriso che sembra essere scaturito dalla serenità di sempre. Sono degli incontri che indubbiamente aiutano a crescere, evidenziano omogeneamente le differenze, mettono in luce le intelligenze e sottolineano la sensibilità.
In buona sostanza creano il viatico ad una nuova socializzazione creatrice, si spera, di un contesto sociale attivo, dissolutore di qualsiasi ghettizzazione e promotore dell’unione come valore indissolubile e irrinunciabile ai fini di una completa crescita sociale.