Abbiamo ricevuto stamattina il documento completo della “sentenza” del Consiglio di Stato sulla disputa tra Ente Parco del Pollino e E.N.I. (A.G.I.P., Enterprise Oil LTD). Il documento è datato 4 maggio 2001. Sappiamo tutti che la notizia è giunta sui giornali verso il 6 dicembre, noi, oggi, siamo riusciti ad avere il documento per intero. È stato faticoso, ma ci siamo riusciti!…
Beh!… Il contenuto del documento conferma in pieno “le voci di corridoio” arrivate ieri alle orecchie di Lucanianet: è proprio vero il Consiglio di Stato ha sentenziato che il giudizio di I grado e la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Basilicata 13 maggio 1998 n. 144 non sono validi e li ha respinti. A tal proposito si può leggere nel documento:
“Non si è avveduto, il giudice di primo grado che, al di là di ogni ragionevole dubbio, le nozioni di “disturbo” e di “danneggiamento” alla fauna ed alla flora – a differenza di quelle descrittive di attività vietate, individuate specificamente – non hanno inteso attribuire all’Autorità del parco un illimitato ed assoluto potere di vietare una qualsiasi attività non compresa fra quelle espressamente vietate, ma ha piuttosto stabilito un criterio per la valutazione di quelle autorizzabili, con ciò definendo anche la possibilità di introdurre, con l’autorizzazione, prescrizioni e vincoli inerenti alle modalità operative e di esaminare e comparare, in relazione a tutte le fattispecie, l’interesse pubblico specifico con gli altri interessi tutti egualmente rilevanti per l’ordinamento. Tali nozioni hanno, dunque, un valore ed una portata relativi e non anche assoluti, in quanto, come è stato fatto osservare, qualunque tipo di attività è di per sé idonea ad arrecare disturbo alla fauna selvatica e danneggiamento alla flora, tanto che si tratti di attività libera quanto che si tratti di attività soggetta ad autorizzazione”.
Ma, il Consiglio di Stato, non ha assolutamente dichiarato che il Parco nazionale del Pollino fosse “compatibile” con la trivellazione di pozzi petroliferi e, successivamente, con l’estrazione dell’olio grezzo. Nel documento si parla soltanto di:
“violazione delle norme e dei principi di cui alla legge 241 che tali obblighi e doveri sancisce; difetto assoluto di motivazione e giustificazione; errore sui presupposti e travisamento dei fatti per avere trattato un’attività di ricerca alla stregua di un’attività estrattiva, senza quindi tenere in alcun conto gli elaborati tecnici allegati all’istanza che illustrano chiaramente i caratteri dell’attività che si intende realizzare; rifiuto di conoscere la realtà relativa alla esistenza di idrocarburi nel sottosuolo del Parco e conseguente assunzione di conclusioni prive di base reale; nonché violazione della normativa nazionale relativa al parco ed, in generale alla ricerca degli idrocarburi, con precipuo riferimento agli obblighi comunitari”.
Per il resto della sentenza, i membri del Consiglio di Stato, non fanno altro che “sparare” addosso all’Ente Parco sacrificandolo per altri interessi…:
“Rilevante è, al contrario, il comportamento dell’Ente Parco che, tanto in occasione della adozione degli originari provvedimenti negativi, quanto con la successiva determinazione del Consiglio direttivo, si è attestato sulla tesi del radicale divieto, nelle more del varo del regolamento e del piano del parco, di attività in astratto considerate potenzialmente rischiose per l’ambiente e l’habitat del parco medesimo, senza alcun approfondimento istruttorio specifico e senza alcuna verifica comparativa, in concreto, degli interessi in giuoco. Tale modo di procedere, condiviso dal giudice di primo grado si pone però in contrasto con il complesso normativo che disciplina le aree protette e, specificamente, il Parco Nazionale del Pollino (istituito con D.P.R. 15 novembre 1993), il quale, per ciò che concerne l’attività di ricerca della quale si tratta, deve essere interpretato ed applicato in coordinata lettura con le disposizioni nazionali e comunitarie che assegnano rango di primario interesse alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, nel rispetto dei limiti previsti delle discipline generali e speciali vigenti in materia di tutela dell’ambiente terrestre, marino e costiero”.
Parole dure e controverse quelle dedicate, invece, al giudizio del Tribunale amministrativo Regionale della Basilicata:
“Il medesimo percorso interpretativo è stato invero seguito, nel caso in esame – concernete il distinto Parco nazionale del Pollino – dal Tribunale Amministrativo Regionale della Basilicata che è pervenuto, tuttavia a conclusioni opposte, che non possono essere condivise”.
La sentenza, poi, si sofferma, in alcuni stralci, sulla consistenza e la rilevanza delle “ricerche geofisiche” dell’E.N.I. come vengono chiamate nel documento:
“L’attività, per la quale è stata chiesta e negata l’autorizzazione in contestazione, consiste in ricerche geofisiche, in una parte del territorio del Parco nazionale del Pollino, secondo la metodologia sismica a riflessione. Stando alla documentazione in atti, essa consiste nella rilevazione, in un breve lasso di tempo, con appositi sensori (detti “geofoni”), di dimensioni di circa cm 15, delle onde sonore provocate dallo scoppio di piccole cariche di esplosivo, collocate sul fondo di pozzetti della profondità massima di circa mt.30 e del diametro di pochi centimetri; lo scoppio non dà luogo ad emissioni di gas nell’atmosfera o di detriti e provoca vibrazioni, soltanto a qualche metro di distanza, di scarso rilievo (paragonabili a quelle prodotte dal passaggio di un autocarro). […] La stessa ha chiesto autorizzazione per ricerche geofisiche secondo la metodologia “sismica a riflessione” analoghe a quelle di cui alla richiesta AGIP ed, inoltre, autorizzazione all’effettuazione della ricerca secondo la metodologia “magnetotellurica”.Quest’ultima metodologia consiste nella misurazione di variazioni di resistività del sottosuolo profondo, attraverso la registrazione passiva, in superficie, di dati elettromagnetici maturali, originate da correnti indotte nel sottosuolo a causa dell’impatto del vento solare con la superficie terrestre. All’anzidetta misurazione si perviene mediante piccole stazioni mobili ubicate ad intervalli di circa Km 1 o 1,5 l’una dall’altra, collegate fra di loro da cavi distesi sul terreno secondo direttrici compatibili con la tecnica ed i luoghi. Per i fini anzidetti è stata prevista la collocazione, nel territorio del Parco (nella zona 2, a minore tutela ambientale), di circa 70 stazioni e di cavi lungo 4 direttrici. Anche tale metodologia come la prima nulla ha a che vedere con l’apertura o la coltivazione di cave o miniere”.
Il Consiglio di Stato, infine, conclude con una specie di accusa all’Ente Parco di connivenza con “l’interveniente Associazione Ambientalista”, che non è altro che il WWF:
“Emerge cioè, chiaramente e per tabulas , che non tanto la ricerca in sé e le modalità operative si è inteso precludere quanto contraria alla politica del Parco, quanto piuttosto il remoto ed indiretto perseguimento delle finalità estrattive, nelle quali si è in definitiva fatto risiedere il paventato evento di pericolo. Ed è questo, nella sostanza, anche il tema sul quale maggiormente si incentrano gli argomenti dell’interveniente Associazione ambientalista”.
Purtroppo non ci resta altro da fare che dare ascolto alle “male lingue”, che ancora una volta hanno ragione, chiedendoci, come ha fatto Raffaela Forliano, avvocato di “S.O.S. Lucania”,
“…il perché l’Ente Parco, invece di dimostrare i danni che la ricerca di idrocarburi provoca all’ambiente e al Parco, abbia giustificato il suo diniego con “le finalità estrattive” della stessa?”.