L’ “O.C.S.E.” (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha dato questa definizione di “Globalizzazione”: “Processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi Paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi attraverso i movimenti di capitale e tecnologia”. Partendo da questa definizione ufficializzata da un’organizzazione economica che comprende 24 Paesi tra i più industrializzati ed evoluti al mondo, si nota fin dalla prima parola: “processo”, che la globalizzazione non è qualcosa di definitivo, di statico, ma al contrario è un processo in continua evoluzione, un fiume che ricambia le sue acque con il suo fluire, mantenendo il liquido sempre fresco e vivo e non stagnante e plasmoso. Questo processo irrefrenabile (fino ad ora…) interessa alcuni campi fondamentali del vivere umano: in primis il “mercato”, oggi venerato come il “verbo” biblico da economisti e imprenditori (e non solo), sacralizzato e messo al posto dell’icona benedetta nella cornice che sovrasta il talamo di ogni buon giocatore di borsa. Non tutti i campi che gestiscono la vita dell’uomo però subiscono una globalizzazione: la nascita e il risveglio di rivendicazioni localistiche, regionali ed etniche ne sono una prova (in realtà sono più la prova di una reazione, o resistenza, alla globalizzazione, che una dimenticanza del “Villaggio Globale” di inghiottire la piccola regione sperduta in una delle tante periferie del globo). Tra questi settori della società occidentale invasi e messi al servizio della “Società Planetaria”, c’è ne uno che serve alla globalizzazione quanto la globalizzazione serve ad esso: la “comunicazione”; attraverso la quale è possibile pensare (forse è più corretto dire “sognare”) un'”identità planetaria”. I sistemi di comunicazione da sempre permettono all’uomo di interagire con i suoi simili. La storia dell’umanità viaggia di pari passo con l’evoluzione dei processi conoscitivi e di assimilazione e di conseguenza con la comunicazione di tale conoscenza assimilata di mano in mano (baratto), di bocca in bocca (trasposizione orale, scambio di dati mediante il mezzo di comunicazione della parola), di mercato in mercato (scambio mediante il denaro e creazione di un “mercato”: un'”agorà”, un “foro” dove, non solo si discute animatamente di questioni giuridiche o di problemi filosofici, ma dove, soprattutto, si concludono affari), di cavo in cavo mediante il “miracolo” di Internet. La storia dell’uomo, quindi, è la storia dell'”uomo interagente” attraverso la comunicazione e i suoi mezzi. L’evoluzione nel campo delle comunicazioni ha portato, nel secolo passato, a parlare di una nuova “Rivoluzione Copernicana” in atto: lo stravolgimento degli avvenimenti a fine anni ’80, con la caduta del muro di Berlino (’89) e con lo sfaldamento dell’U.R.S.S. e della sua potenza, nonché della sua ideologia e con il perfezionamento delle “High Technologies” (alte tecnologie) ha permesso la convergenza tra informatica e telecomunicazioni, ovvero la “multimedialità” attesa da trenta anni ormai. Con la notizia comparsa su tutti i giornali del mondo l’11 gennaio 2000 della più grande fusione economico-finanziaria della storia tra due giganti statunitensi: la “A.O.L.” (America On Line), “provider” leader della rete con 22 milioni di abbonati, e “Time Warner”, colosso dell’editoria e del piccolo e grande schermo. Tale notizia è impressionante: a partire dal 2001 ci sarà una società per azioni statunitense, che fatturerà ogni anno più del “PIL” (prodotto interno lordo) di Svizzera e Portogallo messe insieme, già quotata in borsa 650 mila miliardi di lire, leader nel settore dell’editoria, del cinema e Tv e di Internet, in piena attività, sfruttando una potenza di onde corte ed onde lunghe, di MHZ (megahertz), Kb (Kappabyte), Mb (Megabyte) e Kw (chilowattoni), nonché frequenze satellitari e passanti per cavi in fibra ottica, chilometri di pellicola e tanta, ma tanta “carta”. Tutto ciò concentrato in un’unica e sola società per azioni statunitense, Paese che ospita tra l’altro le organizzazioni più importanti, che non solo si occupano di “networks” e di “writepaper”, ma si occupano, specialmente, di tutto ciò che può riguardare la comunicazione: hardware, software, telefonia mobile ed “immobile”, “paradisi on line ed in set”. L’inevitabile è avvenuto…Dall’inizio del 2000 non si è fatto altro che parlare – in tutte le Borse del mondo – del nuovo indice americano “NASDAQ”, del valore dei nuovi titoli della telefonia mobile e delle società che investono su internet e su quelli che ormai tutti chiamiamo “i tecnologici”. Le “fusioni” si sono susseguite con una velocità impressionante: società con una forte tradizione alle spalle sono state risucchiate o coinvolte da infanti “S.P.A.”, che operano sul mercato di Internet e hanno un valore stimato di milioni di dollari. Anche in Italia le fusioni si rincorrono l’una con l’altra: “RCS” e “SEAT”, per fare l’esempio più eclatante o la scalata alla Borsa di Milano di “Tiscali” il fenomeno dei portali italiani targato Sardegna. Ciò che già era evidente dall’inizio degli anni ’80, oggi, è una realtà: l’informatizzazione del “Sistema mondo” (come direbbe Wallerstein) e la riduzione (ma non la scomparsa) del rapporto, ritenuto fino ad ora dicotomico, tra “spazio” e “tempo”, quasi annullatisi a vicenda nello schermo del mio monitor in Lucania a chilometri di distanza dal “server” a cui sono collegato (usando una figura retorica, che amo particolarmente, la “metafora”, immagino lo spazio ed il tempo, non annullatisi completamente a vicenda, ma sotto forma di “dati” pressoché impazziti, rincorrersi l’uno con l’altro attraverso i cavi telefonici, i tubi catodici, lo specchio riflettente della parabola, i modem dei PC, “spaziando” e “temporeggiando”, da una parte all’altra del globo in preda a convulsioni derivanti da “connessioni” annullate e da collegamenti satellitari singhiozzanti), portano l’uomo ad essere completamente dipendente da coloro che permettono tutto questo. Non volendo essere retorici o nostalgici (quasi mielosi) la dipendenza non solo di noi europei, ma degli stessi americani e la schiavitù dei Paesi “sempre più sottosviluppati”, da parte delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi di comunicazione fusi insieme, portano l’essere umano all'”alienazione”, concetto che rispolveriamo volentieri dal buon vecchio Marx. Se il motto di Bill Gates per spronare alla “fatica” quotidiana e massacrante i dipendenti della “Microsoft” è: “Finché riesco a star sveglio lavoro” e se quello della rivale “Netscape”(oggi in A.O.L.) coniato da Barksdale è “Lavorate meno, per rendere meglio poi”; il mio motto (che non sono nessuno) è “Non lavorare affatto!”. Cozzando contro qualsiasi economista liberista o marxista che sia, contro qualsiasi teorico della comunicazione iperattivo, iperentusiasta ed iperottimista e contro qualsiasi giornalista che sciorina in qualsiasi occasione propizia l’ignavia dell’Europa (ignavia spesso involontaria), ritengo che il ritmo frenetico attorno al quale sta girando il mondo da più di un secolo ormai, sia stancante e faticoso per me e naturalmente per gli altri quattro o cinque miliardi di uomini che popolano quelle terre ricoperte solo di sabbia o esclusivamente d’acqua, ricoperte di fame e di sete, di malattie e di stenti, di povertà e morte…Rivalutando la teoria marxista (che molti ritengono morta nel ’91 con la morte dell’Unione Sovietica) di “lotta di classe” tra capitalista e proletariato, la Sociologia dello Sviluppo (e gli studi “pessimisti” nei confronti del processo globalizzante in genere) riportando la teorizzazione di Marx ed Engels da una visione “micro” ad una visione “macro”, studiosi come Wallerstein, Morin, Touraine hanno affermato che oggi la “lotta” è ancora viva, scrive Marx nel “Manifesto”:
“La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classe. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, “Nord e Sud del mondo”, in una parola oppressori ed oppressi, sono sempre stati in contrasto fra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte latente, a volte palese; una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con una rovina comune delle classi in lotta. Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertuttouna completa divisione della società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo patrizi, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, maestri d’arte, garzoni, servi della gleba, e per di più, in quasi tutte queste classi, altre speciali gradazioni. La medesima società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche. L’epoca nostra, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato, “Nord e Sud del mondo”.
In questo caso non si tratta della lotta in una società industrializzata per la giusta spartizione dei mezzi di produzione in mano del capitalista “borghese”, ma “lotta per la sopravvivenza” in una contrapposizione Nord e Sud del mondo, lotta mirata ad una più equa spartizione non solo dei mezzi di produzione ma anche di quelli di consumo e, soprattutto, una giusta spartizione delle risorse umane: il che significa la ridistribuzione studiata del lavoro, non in una regione, non in uno Stato o in un continente, ma in tutto il mondo. Questa è la vera globalizzazione: un piano mondiale per distribuire equamente le ricchezze a seconda delle esigenze e non il contrario come avviene ed è avvenuto sempre nei secoli: si pensi che agli albori del XX secolo il rapporto tra Paesi ricchi e Paesi poveri era di 1 a 3, oggi questo rapporto (questa frattura insanabile) è di 1 a 70. E in America creano un colosso da 650 mila miliardi di lire! … Ma…Questa è “incoscienza!” (assomiglio ad un predicatore suonato? Non fa niente!). È incoscienza allo stato puro…Non affrontando qui il problema ambientale: il rischio del collasso dell’intero ecosistema, poiché non è in tema…, ma affrontando giusto la problematica del sottosviluppo dei Paesi del Terzo e del Quarto Mondo e dell’arretratezza tecnologica di questi e del Secondo Mondo come pensano di affrontare il problema gli statunitensi ed il resto del mondo “civilizzato”? Creando grandi poli di “trusts”, grandi multinazionali, che competono tra di loro fornendo servizi, rifornendo tutti gli angoli della terra con la loro roba e riconducendo, infine, il flusso monetario sempre nella stessa direzione: l’Occidente? No, non è così che si risolvono i problemi del bel villaggio globale! Un'”utopia” così grande e così bella come quella di una comunità planetaria o ancor di più di un’identità planetaria, non può assolutamente risolversi liquefacendosi nel “villaggetto” di quattro case che oggi viene definito dagli studiosi di Scienze Sociali “Global Village”. Non quando si parla di globalizzazione si può ridurre il discorso ai soli termini economici, al fatto che ormai c’è solo un modo di produzione economico planetario, il “capitalismo” ed escludere gli altri campi della speculazione del ragionare umano: quali la politica, la cultura, il sociale, gli altri modi di produzione economico alternativi eludendoli completamente e superandoli distrattamente con giri tortuosi di parole (ho letto fin troppe pagine mute!). A proposito di ciò Umberto Melotti in “Sociologia, storia e marxismo” scrive:
“Chi ritiene che oggi nel mondo esista un’unica formazione sociale, il capitalismo, se pur realizzata magari in forme diverse, al centro e alla periferia, confonde il concetto di formazione sociale con quello di sistema mondiale”.
Abbiamo creato un mondo che ci offre infinite possibilità: grazie alle nuove scoperte ed ai passi da gigante nel campo delle nuove tecnologie e dei nuovi media, ma dobbiamo saper utilizzare questi strumenti ed utilizzarli per un fine davvero comune ad una società planetaria: la comunicazione del XXI secolo sarà l’unica “arma” efficace per mettere sotto assedio e sconfiggere il “villaggetto globale” cinto dalle sue belle mura feudali, altissime, orlate, che illudono gli abitanti del borgo di proteggere anche loro dal nemico, ma quando arriva il “barbaro invasore”, costoro sono i primi ad essere sacrificati gemendo ai piedi delle mura, fuori, con il ponte elevatoio issato prima che possano mettersi in salvo all’interno del castello arroccato, stretti in una morsa infernale: da una parte l’invasore che non risparmia donne e bambini e dall’altra le colate bollenti ed ustionanti di olio e di frecce infuocate scoccate per difendere il feudo dai bruti barbari confusi agli abitanti del borgo che disgraziatamente periscono tagliati fuori dal mondo, una volta rubata loro la “speranza”.

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