Mi fanno ridere coloro che parlano di “revisione” della storia.

La storia non è un’automobile che perde olio dalla coppa o ha i dischi dei freni consumati. La storia “é stata” ed “è” costantemente ritrascritta in gaudio del regime sotto cui, di volta in volta, conviene ammannirla. Ogni passaggio storico, sin da quando esiste la scrittura, sin da quando sono nati gli scrivani quindi i “cancellieri” con tanto di Potere di Sigillo è sempre stato archiviato e custodito quale “fonte” nella Memoria Storica di un Popolo, di una Nazione. Non solo la cronaca del Sud dell’Italia, dopo i fatti del “Risorgimento del Nord”, è stata nascosta e proibita al volgo; anche quella di altri Popoli e di altri Paesi.

Cosa che avverrà puntualmente per la Storia Truculenta dei giorni che stiamo vivendo a danno dell’identità di altri popoli. Si evitino quindi i voli pindarici circa il revisionismo, perché non ha motivo d’essere…. Perché, con la scusante ormai politicizzata dell’idea di “revisionismo”, fintamente e furbescamente dichiarata questione di lana caprina ma invece sostenuta e divulgata oltremisura proprio dai suoi delatori, la storia vera di un popolo rischia di scadere addirittura nel mito, nella leggenda ovvero nell’impossibile.

Orbene, le fonti delle Storie di tutta la Storia del globo più o meno in disarmo, esistono da sempre : basta ricercarle, rispolverarle dall’oblio e porgerle senza enfasi agli occhi del mondo. “Non sappiamo” – dirà qualcuno – “dove andare a rinvenirle. E’ compito, questo, che spetta agli studiosi, agli storici.”. Allora, io rispondo a costoro e dico “Ognuno di noi, fornito o meno di titoli accademici, che sappia a malapena leggere e scrivere, E’ uno STORICO e può partecipare alla sana rilettura della storia del suo paese”. Infatti, nelle scuole di ogni ordine e grado ed in tutte le Accademie dove generazioni di storici si sono pasciuti di storie trascritte in modo più consono alla contemporaneità dei regimi ed alla loro età, non troviamo che “illazioni storiche” e scarsa verità. Un esempio? Per quanto riguarda il caso eclatante della “storia proibita” del Meridione d’Italia, sparsa a man bassa sui banchi di scuola dal Nord al Sud e dall’Est all’Ovest dell’Europa, immediatamente dopo il 1861, anche il più svogliato e sprovveduto studente – soprattutto del Sud – avrebbe potuto, se avesse voluto, rendersi conto delle menzogne sfornategli dal Ministero per la Pubblica Istruzione, semplicemente standosene seduto a casa propria, con le gambe sotto il tavolo, in particolare in un periodo destinato all’officio di grandi ricorrenze, soprattutto ecclesiastiche. Sarebbe bastata una semplice meditazione sulla provenienza collegata alle tradizioni di tutto quel ben di Dio di cui trabocca una “tavola” anche meno abbiente in qualsivoglia città o paesino del Sud.

Il lampo di genio sarebbe scoccato ugualmente, senza andare in giro per archivi storici e vestigia del passato, semplicemente annusando, gustando, ingrassando il ventre e…il pensiero.

Se c’è un qualcosa che i “vincitori-censori” hanno ingenuamente dimenticato di depennare dall’uso consueto di lettura di tutte le generazioni, questo qualcosa sono i “Libri di Cucina”! Ogni libro di cucina, nel trionfo dei cibi, del modo di cuocerli e di presentarli, di come accompagnarli e quando gustarli, ci fornisce l’identità di “quel” popolo che ha in uso “quella” gastronomia. Un libro di cucina ci racconta delle tradizioni ricche o povere; dello stile di vita, brillante o modesto; della socialità, ampia o ristretta, di un Paese. Ci racconta della sua cultura, della sua civiltà, se è vero che “noi siamo quel che mangiamo”. L’ampia gamma di pietanze o di prodotti della terra e dell’allevamento, della lavorazione degli alimenti, delle importazioni di spezie, ci parla di Paesi ricchi, evoluti. Civili! Perché, la tavola è l’unico vero misuratore del grado di civiltà di una Nazione. Perché, la tradizione della tavola è l’unico Altare della Storia di un popolo, della sua memoria, del suo stesso. Chi non fosse interessato a leggersi storie di bersaglieri e di briganti, di piemontesi “liberatori” e di meridionali “liberati”, di “mille-e-non-più-mille” garibaldini di bieca profezia risorgimentale, di Re vilipesi e di Regine esiliate, abbia il “buon gusto” di andare a rileggersi, per esempio, “La Cucina Casereccia”, pubblicato nel 1832 a Napoli da Saverio Giordano che nell’introduzione testualmente cita “L’uso giornaliero degli alimenti, in ragione delle rendite di ciascuna famiglia, non potrebbe in altro con poca spesa alterarsi che né cangiamenti, che gli stessi alimenti provano per mezzo della loro preparazione, a fine di renderli di più grato sapore, e di più facile digestione, previa la norma dettata da novelli compositori di vivande…”, ribadendo il consumo dei trionfi di vivande ivi descritte da parte di ognuno, ricchi e non ricchi, i quali ultimi, per motivi di economia, sarebbero costretti a dover rinunciare “solamente” all’uso di certe spezie o aromi magari più costosi nella preparazione dei medesimi cibi.

Un’altra fonte storica che descrive la nostra civiltà? “Vocabolario Domestico Napoletano e Toscano” del 1850, di Basilio Puoti, oppure i decreti pubblicati sul “Giornale dell’Intendenza” del Regno delle Due Sicilie, in particolare l’annata del 1832, riferita a Ferdinando II, laddove nonostante il linguaggio tecnico delle ordinanze emesse in materia di vendita al pubblico di generi alimentari, si nota con compiacimento quanto il Sovrano di allora tenesse in buon conto la salute del fisico, della tavola e del portafoglio dei suoi sudditi…. E, ancora, indice di buona civiltà, sono i continui annunci economici sul “Giornale del Regno delle Due Sicilie” che sovente diffondono notizie come questa : “11 maggio 1832. Pasquale Balsamo nel suo magazzino di Rua Catalana n.101 vende caciocavalli del regno a grana 39 il rotolo”….. Vogliamo andare indietro nel tempo?

Leggetevi da “Un banchetto nuziale del Seicento” di Gino Doria, 1962, l’elenco e la descrizione delle numerosissime scenografiche portate che distinsero il napoletano banchetto di nozze di Chiara Alonso de Salcedo e del marchese del Tufo, nell’inverno del 1688. E, potrei qui citare numerose altre fonti storiche che gli “invasori del Sud” hanno ingenuamente tralasciato di occultare, semplicemente perché non avevano molta cognizione dei Libri di Cucina, ma soprattutto del Trionfo della Tavola, stante la loro atavica Fame. In breve, se ieri fossimo stati veramente dei morti di fame, oggi a Pasqua non mangeremmo la Pastiera e le Lasagne ma radici di ortiche; a Natale non mangeremmo la minestra maritata, gli struffoli, i sosamielli e il pesce ma, secondo tradizione di “paesi poveri su suoli sterili in climi impervi”, ci glorieremmo di una zuppa di pan secco o – solo sulle mense tradizionali dei benestanti – di una polenta; se fossimo stati veramente dei pezzenti, le nostre tavole sarebbero ancora oggi un inno alla cicoria, ai semi; al massimo alla rucola ed alle verze in acqua di verze……

Se fossimo stati “laceri ed affamati”, come di noi hanno detto, non esisterebbe – com’è a tutt’oggi in voga – dai bei tempi passati, in quel povero paesello disgraziato di Pontelandolfo (raso al suolo e bruciato dai piemontesi il 14 agosto 1861) il gioco della “ruzzola”. Cos’è? Niente, è una gimcana per sentieri impervi di gran forme di formaggio. Ah! Dimenticavo, si gioca “a squadre” ed ogni giocatore di ogni squadra fa ruzzolare la sua bella e RICCA forma di formaggio!!! Se fossimo stati lazzari scalzi e malnutriti, quando qualche cronista giacobino ci ha riferito, per iscritto, la scena della impiccagione dei martiri del ‘99, nella delirante descrizione del giubilo della feccia del popolo ovvero dei lazzari, avrebbe dovuto ben guardarsi dallo scrivere che questi “andarono a far festa sul molo, sguajatamente rimbocconcellandosi di pollastrelli”, perché questo particolare, che intendeva sottolineare la bestialità e la crudeltà del popolo basso, altro non fa che ribadire che in città emancipate com’era Napoli, anche per il popolo basso e rejetto c’era di ché sfamarsi. Ed i pollastrelli, non crescono sugli scogli, come le patelle, nè sul ciglio degli stradoni, come l’ortica.

E ben mi sovviene di quando i celebri “alberi della cuccagna” alzati nei rioni popolari della capitale e di altre città del Regno, in occasione di ricorrenze fauste , grondavano dalla ruota dei rami posticci primizie e specialità cuciniere, messe in palio, per gioco ed allegria.. e di quando gli “alberi della cuccagna” furono sostituiti da più intellettuali ed asfittici “alberi della libertà”, dai cui rami pendevano – oltre all’incommestibile “libertà” – miseria e presunzione, pur se pronunziate con una raffinata, distinta “erre moscia”.

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