Il riscaldamento globale è un fatto accertato. La temperatura media della terra è cresciuta di 0,7 gradi centigradi negli ultimi 300 anni, ma solo nel Novecento l’aumento è stato di 0,5 gradi. Inoltre, quattro dei cinque anni più caldi sono stati registrati negli anni Novanta del secolo scorso.
Per fronteggiare questa situazione la Comunità internazionale, dopo la Convenzione Quadro dei Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCC) tenutasi nel 1992, ha promosso una serie di azioni volte a ridurre la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera. Nel 1997, a Kyoto, 189 paesi che annualmente partecipano alla Conferenza delle Parti (COP), sottoscrissero l’accordo più importante, l’ormai noto Protocollo di Kyoto. Con questo documento, i paesi più industrializzati si impegnarono a ridurre la media delle emissioni di sei gas serra del 5,2% rispetto ai livelli del 1990 entro il periodo compreso tra il 2008 e il 2012, con specifici target variabili da nazione a nazione. L’Unione europea si è impegnata a ridurre le emissioni dell’8% e l’Italia del 6,5%. Il Protocollo è entrato ufficialmente in vigore nel 2005, dopo essere stato ratificato dalla Russia. Con l’inclusione della CSI, i paesi che hanno aderito al Protocollo rappresentano il 61,6% delle emissioni totali di CO2.
In termini medici si potrebbe affermare che è stato un “parto travagliato” e, per un certo verso, il rischio è che il bambino sia nato già morto, tant’è che si parla sempre più di dopo-Kyoto: ciò avviene perché gli impegni presi sembrano superati e pochi li hanno rispettati. Nel 2010 le Nazioni Unite prevedono che i paesi industrializzati emetteranno il 10% in più dei gas inquinanti rispetto al 1990; a tutto questo bisogna aggiungere la mancata adesione all’accordo degli Stati Uniti, che da soli producono quasi il 50% delle emissioni in atmosfera di gas serra.
Con questa ricerca svolta contemporaneamente in 4 paesi, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Repubblica Ceca e Italia si è voluto verificare se, a quasi 10 anni dalla firma del Trattato di Kyoto, si sia formata una pubblica opinione sull’argomento. Non si intendeva cogliere con il sondaggio il sentire delle popolazioni delle 4 nazioni. Il questionario è stato sottoposto, tra il novembre e il dicembre 2006, al termine della Conferenza di Nairobi, a 200 studenti provenienti da diverse aree di studio, che hanno rappresentato il campione italiano di riferimento per questa ricerca. Gli intervistati appartengono a 5 diverse facoltà: Sociologia; Scienze della Comunicazione; Chimica; Farmacia; Architettura. Il campione è composto da 200 studenti per la maggior parte donne (66%). L’età degli universitari è piuttosto bassa (87,5% sotto i 24 anni) e la maggior parte di essi (61,5%) frequenta l’Università da meno di tre anni. Gli studenti provengono soprattutto dalle aree di studio scientifiche (47,5%), seguite da quelle umanistiche (34,5%) e tecniche (18%). Per quanto concerne il luogo di residenza degli intervistati il campione è equi-distribuito. Più di un terzo (36%) degli studenti abita in centri con più di 100.000 abitanti, il 32,5% risiede in città più piccole (da 50.000 a 99.000 abitanti) e il 31% proviene da realtà urbane con meno di 5.000 abitanti.

Domanda 1: “Qual è il tuo livello di interesse sul cambiamento climatico globale?” Soltanto il 20% degli interpellati si dichiara “molto interessato” al fenomeno. Analizzando i dati per aree di studio si rileva che gli studenti “molto interessati” appartenenti alle facoltà umanistiche sono solo il 15%: al loro interno si registra pure un livello di indecisione maggiore (13%) rispetto al totale (9%).
La gran parte del campione (60%) ha risposto che è “abbastanza interessato” la problema.

Domanda 2: “Qual è la tua opinione riguardo il probabile aumento o diminuzione della temperatura media globale (in ˚C) nei prossimi cinquant’anni?” Questo quesito si propone di conoscere l’opinione degli studenti sul possibile aumento della temperatura, rispetto alle previsioni degli scienziati. Questi ultimi indicano in 2 gradi di aumento della temperatura la soglia massima consentita per evitare disastri di portata globale. Dalle risposte emerge un’opinione prevalentemente “sovradimensionata” rispetto alle previsioni. Infatti il 37% degli intervistati ritiene probabile un aumento della temperatura compreso tra i 3 ed i 6 gradi, mentre per il 9% degli intervistati tale aumento supererà i 6 gradi. Incrociando questo dato con le facoltà di appartenenza si ottiene un risultato ancora più rilevante poiché proprio gli studenti delle facoltà scientifiche ipotizzano un forte riscaldamento del pianeta e il 57% di essi sostiene che l’aumento della temperatura supererà i 3 gradi. Invece il giudizio degli universitari provenienti dalle facoltà umanistico-sociali è più attinente alle opinioni scientifiche. La metà del campione, infatti, pensa che l’aumento di temperatura sarà compreso tra lo 0,1 ed i 3 gradi. Incrociando la variabile sull’interesse nutrito per il tema del cambiamento climatico con l’opinione sul cambiamento della temperatura, ci si aspettava di riscontrare una maggiore conoscenza della tematica del riscaldamento globale (aumento della temperatura compreso tra lo 0,1 e i 3 gradi) da parte delle persone più interessate. Al contrario, esse sono le più inclini a sovrastimare il fenomeno. Infatti quasi la metà (47,5%) di coloro che si sono definiti “molto interessati” (il 20% del campione) pensa che la temperatura aumenterà più di 3 gradi nei prossimi 50 anni.

Domanda 3: “Presenza di catastrofi dovute al cambiamento climatico”. La maggior parte degli intervistati (61%) crede che catastrofi collegate al cambiamento climatico globale si siano già verificate. È interessante notare che l’8,5% di essi dichiara di non sapere quando avverranno per la prima volta.

Domanda 4: “Svantaggi sul luogo dove si vive dei cambiamenti climatici”. La maggior parte degli intervistati ritiene che il cambiamento climatico avrà conseguenze negative nella regione in cui sono cresciuti (69,5%), mentre quasi il 20% dichiara di non essere in grado di rispondere alla domanda.
Se si considera la residenza degli interpellati non si registrano differenze di notevole entità nel giudizio sul possibile impatto dei cambiamenti climatici sul proprio luogo di origine. L’unico dato significativo è che in campagna e nei centri con meno di 5.000 abitanti si manifesta una leggera tendenza a non considerare possibili impatti nel proprio luogo di residenza (11,1% rispetto al 7,5% di coloro che risiedono in città di maggiori dimensioni).

Domanda 5:“Influenza dei cambiamenti climatici sulla propria vita”. Per analizzare le conseguenze del cambiamento climatico globale, è stata utilizzata una scala di riferimento per indagare in quale misura tale fenomeno potrà influenzare negativamente la vita degli intervistati. Le conseguenze che hanno “un alto” e “molto alto” impatto sulla loro vita sono per gli studenti: la diminuzione di acqua potabile (84,5%), la comparsa di nuove malattie (78,5%) gli aumenti dei costi per le famiglie e le imprese (73,5%) e l’estinzione di specie animali (64,5%). Il 44% degli intervistati è piuttosto in disaccordo sul livello di informazione pubblica in merito alle emissioni di CO2. Questo dato rivela una esigenza di maggiore informazione sulle tematiche ambientali, al di là delle notizie legate ad eventi negativi oppure alle emergenze del momento.
L’idea che si possa contribuire personalmente alla riduzione delle emissioni di CO2 è presente soprattutto tra coloro che risiedono in campagna e nei centri fino a 5.000 abitanti. Infatti dagli incroci delle variabili risulta che il 45% di coloro che hanno espresso tale opinione ha la residenza nei centri minori.

Domanda 6: “Secondo la tua opinione, quale potrebbe essere il migliore approccio per diminuire le emissioni di CO2?” La maggior parte degli intervistati (58%) è orientata verso un approccio di tipo “normativo”: ciò vale soprattutto per gli studenti delle facoltà tecniche (69,4%) per i quali una legislazione più restrittiva sulle emissioni di CO2 è lo strumento migliore per fronteggiare il problema. Se questa posizione è conforme alla filosofia del Protocollo di Kyoto, bisogna rilevare, tuttavia, che il 29% del campione auspica la adozione di misure più flessibili, come la riduzione delle tasse o una politica governativa che favorisca una riduzione volontaria delle emissioni di CO2 da parte delle imprese con incentivi di vario genere.

Domanda 7: “Effetti negativi provocati dai cambiamenti climatici”. È importante sottolineare due dati. In primo luogo il 68% degli universitari considera l’allargamento del buco dell’ozono una conseguenza del mutamento climatico: è interessante notare che quasi la metà di essi (48%) frequenta facoltà scientifiche. Questa modalità di risposta è stata inserita appositamente nel questionario per valutare il livello di conoscenza degli intervistati in merito all’oggetto dell’analisi. Infatti è risaputo che il cambiamento climatico non ha come conseguenza diretta l’allargamento del buco dell’ozono. In secondo luogo coloro che provengono dai centri minori (“molto”+“abbastanza”=97%) temono maggiormente le possibili conseguenze negative del cambiamento climatico sui prodotti alimentari.

Domanda 8: “A tuo parere quali di queste fonti possono contribuire alla diminuzione dei gas a effetto serra?” Questa domanda si propone di scoprire quali siano le fonti energetiche alternative ai combustibili fossili preferite dagli studenti. La fonte di energia rinnovabile prediletta dal 63,5% degli intervistati è il solare, ma anche l’idroelettrico incontra il favore del 42% di essi. Per scoprire eventuali collegamenti tra le fonti energetiche e le facoltà di provenienza dei ragazzi, sono stati attuati degli incroci per ognuna di queste variabili ma non sono emerse relazioni significative: l’unico dato rilevante è la propensione degli studenti di Architettura per la soluzione eolica: il 61,1% è “fortemente d’accordo” sul suo utilizzo.

Domanda 9: “Attori” indicati come i referenti principali per un’azione efficace contro l’aumento della CO2”. Se da un lato, gli studenti ritengono che gli organismi di carattere “sopranazionale”, come le Nazioni Unite e la Ue, siano i più adatti a combattere la battaglia contro l’aumento della CO2 nell’aria (67,5%), dall’altra sostengono che le imprese e le industrie devono essere coinvolte nelle azioni attuate per contrastare il cambiamento climatico globale (73%).

“OUTLOOK” Uno sguardo fuori regione
Rubrica di scienze economiche e sociali
a cura di Rosario Palese
(ISSN 1722-3148)

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